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Dal ripopolamento all’irradiamento

Dal ripopolamento all’irradiamento

Se si pensa ai costi del cosiddetto ripopolamento, vengono i brividi. E non parliamo dei costi economici bensì di quelli faunistici. Prendiamo quello che a ogni buon conto possiamo ritenere il miglior ripopolamento possibile, quello cioè praticato con animali selvatici di cattura. Innanzitutto, occorre mettere nel conto i guasti provocati dalla cattura stessa. Fatte salve le perdite provocate dall’impiego di cani, c’è da tenere presente che già l’infilarsi a tutta velocità in una rete può provocare lesioni esterne e interne anche mortali. Lesioni, magari, non sempre ravvisabili sul momento, ma certamente capaci di provocare la morte dell’animale nei giorni successivi o favorirne comunque la predazione. Per non parlare delle lesioni provocate da manipolazioni maldestre: estrarre un animale dal sacco di rete nel quale è andato a infilarsi non è sempre una manovra agevole. Non di rado, anche la persona più esperta, può impiegare un certo tempo, durante il quale lo stress dell’animale cresce a vista d’occhio. E’ stato dimostrato scientificamente che la cattura provoca inevitabilmente delle marcate alterazioni dei più importanti parametri fisiologici. Fenomeni che non si esauriscono purtroppo in un momento, ma che possono provocare nell’animale una situazione tale da favorirne in seguito la predazione. Anche la traslocazione da un ambiente conosciuto a un altro del tutto sconosciuto è per l’animale una situazione densa di pericoli. I predatori, infatti, possono approfittare facilmente del momentaneo disorientamento dell’animale.
E finora si è parlato di animali selvatici: nel caso in cui il ripopolamento sia effettuato con animali allevati in cattività, la situazione si fa addirittura drammatica. In questo caso entrano in ballo i limiti comportamentali di questo tipo di animali. In primo luogo, c’è da fare i conti con le difficoltà derivanti da un brusco cambiamento della dieta, cioè dal passaggio da un’alimentazione artificiale a una naturale. L’adeguamento del sistema digerente richiede comunque del tempo e dal punto di vista fisiologico possono insorgere problemi tali da generare disturbi intestinali che, se anche non sono direttamente letali, possono comunque mettere i predatori terrestri in grado di intercettare facilmente la preda. In ogni caso, la totale mancanza di esperienza antipredatoria degli animali allevati in cattività è l’handicap che li rende molto fragili. Tuttavia, nel caso in cui l’animale riesca a sfuggire alle insidie della predazione e riesca ad adattarsi alla vita selvatica, c’è poi da tenere presenti le difficoltà di carattere sanitario che possono insorgere nella successiva primavera, in seguito agli stress provocati dalla riproduzione. Anche in questo caso il prezzo da pagare non risiede tanto nella presunta incapacità di questo tipo di animali a riprodursi, quanto piuttosto nelle perdite inflitte dalla predazione, facilitata dalle loro precarie condizioni fisiche.
Insomma, sia come sia, la pratica del ripopolamento comporta uno sperpero di vite che potrebbe essere facilmente evitato nel caso in cui si adottasse una strategia del tutto diversa. Il territorio cosiddetto “libero” è in realtà un territorio non gestito, nel quale la fanno da padroni i predatori, talché il numero degli animali che giunge incolume all’inizio della stagione venatoria è a dir poco esiguo. E questa triste verità è testimoniata in modo inoppugnabile dal costante declino dei carnieri. Non solo, ma il poco patrimonio di selvaggina che riesce a raggiungere la stagione venatoria viene inesorabilmente azzerato nel giro di pochissimi giorni, trascorsi i quali la caccia alla piccola selvaggina chiude, di fatto, i battenti.
Se ponessimo una buona volta da parte la follia dei ripopolamenti e mettessimo mano alla costruzione e alla gestione (miglioramenti ambientali, foraggiamento, contenimento dei predatori ecc.) di un reticolo di agili (non casseforti blindate!) strutture, capaci di irradiare selvaggina di qualità dal primo fino all’ultimo giorno di caccia, non avremmo più un territorio buono per portare a pisciare il cane, bensì una serie di confini (corsi d’acqua, siepi e non più strade asfaltate!) lungo i quali cacciare con grande soddisfazione veri selvatici.

 

Roberto Mazzoni della Stella

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