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Cacciando

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Gino Botto

Solo recentemente sono venuto a conoscenza della scomparsa di Gino Botto avvenuta la scorsa estete, all’età di 92 anni, e credo sia doveroso ricordarne la figura anche sulle pagine della nostra rivista, visto che  i soci del Club certamente ne avranno sentito parlare, anche se non strettamente interessati alla cinofilia agonistica: andare a caccia di beccacce col proprio cane, che spesso vive i casa nostra, a è comunque e indiscutibilmente “cinofilia”.

Gino Botto, dresseur “maestro” nella seconda metà del 1900, raggiunse l’apice della carriera a partire dagli anni ’60, vincendo più volte Coppa Europa, e partecipando con successo alle classiche prove a grande cerca che si tenevano ad es. a Bolgheri, Borgo d’Ale, S.Luce, Sutri ecc. nonché alla maggior parte di quelle via via più recenti in Italia e all’estero (soprattutto Francia, Belgio e Germania), continuando l’attività fino a ritirarsi nel 1990. Conosciuto stimato per la sua capacità e conoscenza nel rapportarsi con i suoi allievi pointers e setters, nel corretto rispetto dei proprietari e delle giurie. Sempre accompagnato dalla fida moglie Anna, furono definiti “ambasciatori della cinofilia italiana nel mondo”!

Io ebbi il piacere di vederlo condurre il grande setter inglese Arno di Val d’Idice, due volte  vincitore di Coppa Europa e in seguito proclamato Campione internazionale di lavoro (in Italia conseguì 27 risultati, 7 dei quali in grande cerca, e all’estero si affermò più volte con massime qualifiche). Ho stampato nella memoria quel turno di una classica su quaglie liberate nel Basso Piemonte durante il quale emergeva uno splendido legame tra due giganti che si rispettavano a vicenda: il dresseur che nulla toglieva all’iniziativa del cane e il cane che prendeva il terreno con una grinta e  un criterio che nulla aveva da spartire con i geometrici lacets dei classici “quaglisti”, restandone una spanna al di sopra. D’altra parte Botto è noto per non aver mai “tolto” niente ai suoi allievi, ma di aver sempre cercato di farne esprimere al meglio le doti naturali.

Nato cacciatore nella sua Liguria orientale (Chiavari), fino agli anni della Guerra fu segugista lepraiolo e solo dal 1945/46 passò ai cani da ferma con una setterina “del Rododendro” di Torino, che lo spinse ad avvicinarsi all’agonismo cinofilo grazie ai consigli del prof. Cajelli tra i quali la lettura e scrupolosa applicazione dei principi di addestramento scritti dal “Mago” Puttini.

D’altra parte la Liguria è stata capostipite delle prove cinofile nel 1894 con una manifestazione ufficiale su quaglie liberate ai Piani di Creto (GE) ed ha fortemente contribuito al progresso della italiana cinofilia stessa grazie a grandi allevatori, sportsmen e conduttori, tra i quali ben campeggia Gino Botto (valgano per tutti gli affissi “di S. Patrick” di Nasturzio, “del Castelluccio” di Cajello, “Imperiae” di Amoretti, Genuensis” di Rosasco, “d’Oregina” di Brunetti, “di Tejolo” di Rusca).

Il figlio Adriano, col quale ebbi occasione di cenare la vigilia di questa Epifania, mi disse che fino al 2005 (a 85 anni) cacciò con suo padre anche la beccaccia, passione di molti codaioli liguri, esempio della vicinanza che lega anche il nostro club al ricordo di Botto da trasmettere  alle giovani generazioni chè non ne perdano la memoria.

Spanò    

  

Dio salvi la Regina e gli uomini... la conservino!

Carl Von Linnè, conosciuto anche come Linneo, grande naturalista svedese vissuto nel diciassettesimo secolo, e padre delle moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, la catalogò con il nome di Scolopax Rusticola.
Sembra però che il primo a parlarne fosse stato addirittura il filosofo greco Aristotele, che definì la beccaccia Askalòpas, probabilmente derivandolo dal verbo “skallo” che significa frugare, scavare.
In pochi anni si passò da Askalòpas a Scolopax, usato da Teofrasto, pure lui filosofo ellenico e discepolo dell’altro, nella sua opera De segnis tempestatum.
L’origine è  da scòlopos che in greco antico significa punta, aculeo.
Rusticola discende invece dal latino e significa gallinella; Linneo unendo le due parole classificò la beccaccia con il termine greco-latino che significava “ gallinella con l’aculeo (con il becco a punta)”.
dio salvi la reginaMolti sono i nomi con cui venne chiamato nei secoli questo meraviglioso volatile, ma forse uno merita qualche approfondimento in più: arciera che poi divenne “arcera”.
La si chiama così in molte regioni meridionali, e pare che il nome derivi da arciere, ossia uomo armato d’arco e frecce.
La beccaccia in volo, con le ali convesse aperte e con il lungo becco che la caratterizza, pare proprio assomigli ad un arco munito di freccia pronta a scoccare. (“Beccaccia”. Matteo Califano. Editoriale Olimpia 1971)

La beccaccia nel panorama venatorio nazionale, dove gran parte della selvaggina viene immessa a pochi giorni dall’apertura, è ancora uno di quei pochi selvatici veri che sono cacciabili in forma vagante con il cane da ferma.
L’ambiente suggestivo e difficile del bosco rende appagante per l’uomo questa forma di caccia, richiedendo l’utilizzo di ausiliari addestrati, e facendo d’ogni vero beccacciaio un vero e proprio specialista.
Si tratta dunque d’una delle cacce con il cane più ambite, e molti sono gli appassionati disponibili a inseguire questo magnifico uccello nelle sue lunghe rotte migratorie, insidiandolo anche ove trova le sue aree di svernamento.
Crimea, Estonia, Romania, Bulgaria, Russia, Georgia, Iran, Scozia e altri paesi ancora, sono ormai diventati meta di viaggi venatori alla ricerca dell’ambito scolopacide; lì cacciatori italiani, francesi, spagnoli realizzano carnieri giornalieri che in patria nemmeno si potrebbero più immaginare; questo, insieme alla prelibatezza delle carni, fa sì che la beccaccia debba ormai essere gestita e tutelata con attenzione.

Vive nei boschi, meglio se misti a caducifoglie, con prevalenza di betulle, frassini, carpini, robinie, ontani, querce, castagni, faggi, ma anche di conifere come larici, abeti, e pini.
Si trova con frequenza pure nei noccioleti e nei pioppeti. 
Gradisce i boschi non molto folti  dove può trovare terreno morbido, meglio se umido e privo di erbe alte, con buona possibilità di alimentazione e di quiete, dove riesce facilmente a nascondersi e salvarsi mettendo in atto tutte le furberie che l’hanno resa famosa, camminando prudente tra la vegetazione prima d’involarsi lontano da cane e cacciatore.
Il sottobosco dev’essere ricco di lombrichi, con strati di foglie morte o aghi di pino, felci, frutti di bosco e rododendri.
Con la pioggia insistita e il vento forte cerca rifugio nei prati e nei terreni incolti, nelle radure e nelle carbonaie, lungo i corsi d’acqua.
La presenza di bestiame brado, e che siano bovini od equini cambia poco, è per le beccacce fortemente attrattiva, permettendo loro di nutrirsi con facilità di tutta quella microfauna che prolifera negli escrementi in decomposizione.
Durante il periodo della nidificazione però predilige abitare i boschi misti di resinose e caducifoglie con  livelli di umidità bassi e al riparo dai forti venti
Quando poi le giornate s’accorciano, e l’autunno screzia coi suoi fiammeggianti colori montagne e boschi spogliandoli dal verde fogliame, ecco le prime migrazioni, il passo che inizia a settembre e prosegue sino a dicembre, con il picco collocato tra la metà d’ottobre e i primi di dicembre.
Freddo e gelo al nord, preannunciato dai taglienti venti di tramontana, segnalano ai cacciatori l’arrivo, l’attesa calata delle prime beccacce.
I boschi umidi e  ricchi d’humus, dove crescono i funghi e gli uccelli possono trovare in quantità  insetti, molluschi e lombrichi,  come ogni anno si preparano ad accogliere  le loro Regine.
Ma anche l’habitat non è più quello ospitale e favorevole d’un tempo, di quando l’uomo abitava e coltivava ancora l’alta collina e la montagna  ripulendone  i sentieri, falciando i prati, estirpando i rovi.
I boschi d’alberi a medio fusto con rari cespugli ed erba bassa che un tempo caratterizzavano gran parte della nostra penisola, e che facilitavano gli spostamenti a terra delle beccacce, si sono ormai inselvatichiti e infittiti, favorendo il ritorno dei grandi ungulati come cinghiali, cervi, caprioli ma a discapito di tutta quella piccola selvaggina che viveva maggiormente in simbiosi con l’uomo abbisognando della sua presenza, delle sue coltivazioni, dei suoi armenti. 

Un tempo, sino al 1977 legalmente ma ancor oggi in violazione delle leggi, la beccaccia si cacciava anche alla posta, all’aspetto.
Si trattava d’una forma di caccia praticata al tramonto, sostando lungo gli itinerari conosciuti che gli uccelli compiono per uscire dal bosco e recarsi in pastura; percorsi ripetitivi, sempre uguali quando durante il giorno non siano state disturbate da cani e cacciatori. La stessa cosa al mattino presto, ma in senso inverso.
Questa pratica di bracconaggio, odiosa quanto dannosa, consente d’abbattere un gran numero di beccacce ma dev’essere avversata con forza da ogni vero cacciatore che si rispetti, mettendo a repentaglio questo prezioso selvatico che ha nelle sue astuzie la principale difesa dall’uomo.
 

 

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Un accordo glorioso

Era il 25 ottobre compleanno della mamma.
Io e Falco,mio giovane figlio,stavamo appostati,ormai sera,nella speranza di osservare qualche selvatico in una giornata di silenzio venatorio.
Si sentiva,quasi impercettibile,un “psss,psss”che sembrava provenire dall'alto di un faggio:pian piano uno scoiattolino agitato ci si avvicinò e, nel linguaggio degli umani,iniziò ad esporci un problema riguardante un re dei camosci dimorante in quei luoghi.
Nel frattempo una piccola folla di abitanti del bosco si era riunita ad ascoltare:una capriola con il suo piccolo e poco distante anche uno splendido maschio,un leprone dalle lunghe orecchie,una volpe,quattro topolini di campagna e,un po' nascosto da un agrifoglio,un timido cervo. Falco era piuttosto emozionato dalla visione di tutti questi personaggi ma in silenzio,seduto sulle mie ginocchia,stette a sentire le parole dello scoiattolo.

“Dovete sapere”esordì,”che il nostro vecchio amico re dei camosci si sente molto stanco e adesso che inizia la stagione degli amori ha cominciato a dover combattere con maschi molto più giovani e sempre più intraprendenti per la conquista delle femmine!Proprio lui,ammirato genitore di tanti splendidi esemplari,rischia ora di essere scacciato inesorabilmente dai suoi boschi!!!
Dobbiamo fare qualcosa per dargli una fine gloriosa!Non vogliamo che vada a morire miseramente in qualche burrone dimenticato da tutti”.
Sguardi interrogativi si incrociarono nella luce fioca dell'imbrunire.

“Il re avrebbe pensato”riprese il nostro interlocutore,”ad una soluzione estrema!In molte occasioni ha incontrato il papà di Falco con il quale si é creata,negli anni,una sorta di rispettosa amicizia.Così vorrebbe,pur con non poca malinconia,farsi abbattere da lui concedendogli l'onore di conservare per sempre il suo magnifico trofeo”.

Calò un improvviso silenzio e nessuno riuscì a trattenere il pianto all'idea della morte del re pur nella consapevolezza della mancanza di alternative.
In quel momento si udì un rumore di foglie mosse provenire dal vallone e, lento e maestoso,comparve il re accompagnato da una splendida femmina sua ultima e fedele compagna.
Si avvicinò e si accovacciò davanti a noi. “Dobbiamo decidere quando e dove.”,disse,”Potrebbe essere domani all'alba,sulle rocche sul bordo della valle mentre guardo per l'ultima volta le mie montagne.”
Falco allungò la mano e il re si lasciò accarezzare:stava morendo di vecchiaia ma preferiva che tutto finisse con un colpo di carabina. Si allontanò accompagnato da un hurrà di saluto degli astanti!

E' il 26 ottobre :Falco per primo individua la sagoma del re stagliata nella luce del mattino.Mi posiziono.Devo essere preciso!Ho un attimo di incertezza ma non è l'ottica ad essere appannata...è un velo di tristezza. Parte il colpo,vedo il re crollare e rotolare sparendo dalla mia vista. Ricomponiamo lo zaino e ci avviamo al recupero. Rendiamo gli onori e,con l'autoscatto,immortaliamo questa strana avventura.
Mio figlio mi segue silenzioso mentre rientriamo alla baita:sceglieremo lo scudetto più bello e così il re vivrà per sempre al centro degli altri trofei!

A caccia fra letteratura e realtà.

L’Africa mi toccò l’animo già durante il volo: di lassù pareva un antico letto d’umanità.
(Saul Bellow premio nobel per la letteratura).

Chiunque metta piede in Africa non può far altro che cedere davanti alla sua bellezza ed innamorarsene. L'amore di cui vi parlo è vero e pulito. Un sentimento che non viene plasmato dal tempo o dalla paura, che spinge l'uomo a fare sacrifici enormi per tornare più volte nel continente nero. Il mal d'Africa non è un'invenzione, è una reale malattia dell'anima.
È l'inizio degli anni Trenta, esattamente il 1933, quando Ernest Hemingway e la sua consorte si trovano in safari fra le verdi colline d'Africa. Puntualmente, 77 anni più tardi, il sogno del mio secondo safari si era realizzato ritrovando davanti ai miei occhi le stesse alture. Devo dire che non ero affatto convinto di riuscire a mettere piede a Mbuga: il viaggio infatti era stato a dir poco problematico.
La sera del 2 Ottobre ricevetti da Stefano (amico nonché nostro p.h. per l'occasione) uno strano messaggio: “ siete già in aeroporto?”. Appena lo lessi rimasi un po' perplesso; fra me e me pensai che si era confuso, la partenza per la Tanzania era per le 00.30 dell'indomani. Gli risposi scherzosamente dicendogli che, anche se sentiva la nostra mancanza, avrebbe dovuto aspettare ancora un giorno per poterci a rivedere. Immediatamente il cellulare mi vibrò di nuovo : “ rimbambiti se il volo è a mezzanotte e mezza del 3 voi dovete essere a Fiumicino il 2 sera !” Aveva ragione! Alle 21.30 mi trovavo in macchina con degli amici lungo il litorale romano, papà era comodamente in pigiama davanti la televisione e Kikko a cena con la sua famiglia dall'altra parte di Roma.
Nell'arco di 5 minuti, dopo un frenetico giro di telefonate, ci lanciammo in una scellerata corsa contro il tempo. Le valigie non erano ancora chiuse, ed i fucili stavano nell'armeria di Francesco. La dea bendata sembrava ci avesse voltato le spalle.

Ci ritrovammo al check-in dell'Ethiopian Airlines appena un'ora prima della chiusura del gate, giusto in tempo per svolgere le pratiche d'imbarco delle armi. Salito sull'aereo la tensione si era ormai allentata, le mie preghiere sembravano fossero state ascoltate, finalmente.
Fatto lo scalo ad Addis Abeba, eccoci, dopo tante peripezie, a Dar Es Salaam dove Sadick, membro della De Amicis Safaris l.t.d., era lì per aspettarci, pronto ad occuparsi dello sdoganamento dei fucili e del nostro trasporto fino al meraviglioso Hotel Mediterraneo dove avremmo dovuto trascorrere la notte prima di immergerci nel bush dell'area di caccia MOA 1.
Stefano ha iniziò la sua vita di professionista seguendo il padre che, abbandonata la ditta di famiglia in Italia più di 50 anni fa, si è dedicato alla caccia in Africa. Dopo aver girovagato per il Kenya, l'Angola ed il Sudan, appese il cappello al chiodo in Tanzania, la terra del leone, casa del Kilimanjaro, del cratere Ngorongoro, del Serengeti e del Selous (la più grande risorsa di Caccia al mondo). La compagnia ormai passata nelle mani del Nerone d'oltre Mediterraneo, nacque all'inizio dei primi anni novanta, organizzando safari di caccia in Tanzania ma, qualche anno più tardi, ha iniziato ad operare anche in Botswana ed in Sud Africa. Attualmente, per chi volesse, offre anche l'opzione dei safari fotografici.
Alla fine di un'ora di volo il carrello del piccolo Cesna toccò il suolo del distretto di UlangaUlanga nella regione di Morongoro, punto d'incontro con il nostro giovane p.h. . Inutile dire che non potè trattenersi dal prenderci in giro pesantemente per la nostra tragicomica partenza.

La pista che conduce al campo taglia il villaggio di Mbuga, luogo in cui sostammo per comprare qualche cassa d'acqua e delle’’pippi” da dare ai bambini.
Ogni qualvolta che vi sentirete tristi, afflitti, chiedetevi che cosa sia per voi la felicità. Potrebbe essere anche uno standard di vita, certo, ma dopo aver visto le condizioni in cui quelle creature trascorrono la propria esistenza, ho iniziato a credere che la vera felicità sia quell'emozione nascosta ovunque, anche nei gesti più piccoli come il dare e ricevere una caramella.
La prima giornata di caccia trascorse alla ricerca di un mastodontico bufalo, ma al calar del sole, al termine di in paio di tracciate, il nostro carniere era ancora vuoto. L'alba del secondo giorno sembrava non voler arrivare mai, quasi come fosse stata imprigionata dall’assordante notte africana. Non c’è modo migliore per godere di quei suoni e di quella magia intrisa nel continente nero se non stando in un campo tendato immerso nella Savana. Le tende della De Amicis Safaris si levano all'ombra degli alberi di sufi, lungo le rive del Luhombero, un posto di rara bellezza pieno di colori e di vita.
Erano circa le 10 quando, dopo alcune ore di marcia sotto al sole cocente, Kikko avvistò per primo i bufali in una piana a circa 200 m da noi. Iniziammo l'ultima fase dell'avvicinamento con il cuore che ormai batteva all'impazzata. La strategia era di aggirarli controvento per trovarseli cosi davanti. Il piano ha avuto successo ed i bufali incolonnati placidamente iniziarono a sfilare tra gli alberi a circa 40 m dalla bocca del 378 wby magnum di mio padre. Stefano, appena individuato un maschio con un trofeo con delle lunghe punte ricurve verso l'indietro, diede il via libera a papà che, senza perdere tempo, fece fuoco; 20 m di corsa ed il gigante nero finì giù. Il suo primo syncerus caffer era morto, colpito nel “10” con una barnes triple x da xxx grani.

Una mattina, durante un lungo giro intorno al campo, Isaia, uno dei più abili tracciatori di tutta l'Africa, indicò un albero alla nostra sinistra, proprio all'interno del fitto bush, sotto al quale c'era fermo immobile un facocero. Imbracciai alla svelta il 378 e sparai senza però usare nessun appoggio... il colpo andò a vuoto. Ripartimmo e dopo circa mezzo chilometro ne incontrammo un altro. La scena fu più o meno la stessa. Tirai su nuovamente il fucile ma sta volta lo sistemai bene sullo zaino e tirai il grilletto. La palla colpì il vecchio maschio che galoppò verso la boscaglia. Con Isaia ed un altro tracker  iniziammo a seguire il sangue. Dopo altre 4 fucilate, tutte andate a segno, il pesante suino con due buone difese stramazzò a terra.

È il quarto giorno quando, mentre si andava dietro alle impronte di un leopardo appena fuori dal campo, trovammo le tracce di tre bufali. Iniziò così la mia prima caccia al tanto ambito dagga boy. Dopo 3 ore di camminata eccoli apparire sul crinale di una collina intenti a riposarsi all'ombra di alcuni alberi. Con Stefano ci avviciniamo fino ad una cinquantina di metri dall'unico maschio del gruppo dal boss veramente imponente. Mentre tirai il grilletto il bovino si alzò e la palla finì per impattargli sul collo facendolo rovesciare a terra per lo shock. Ricaricai e sparai di nuovo con l'arma sempre appoggiata al tre piedi ma la palla non andò a segno. Ci rimettemmo subito sulle sue tracce, più passò il tempo e più l'ansia veniva rimpiazzata dalla tristezza. Dopo 2 ore decidemmo di fermarsi e dargli una mezz'ora di vantaggio per farlo tranquillizzare, scelta che poi si è rivelò esatta. Nel primo pomeriggio vedemmo le orme entrare in un canneto, fitto quanto basta per temere una carica improvvisa. Fatto qualche centinaio di metri il professionista alzò di colpo la canna del suo 460 wby lasciando partire la cannonata. Il bufalo stramazzò a terra. Nessuno oltre lui ed Isaia era riuscito a vedere la sagoma dell'animale a pochi metri da noi. Mi fece immediatamente sparare qualche altra cartuccia sulle zone vitali per assicurarsi che il bufalo fosse definitivamente morto. Il trofeo non era larghissimo, circa 36 inches, ma era pur sempre il mio primo membro del big five e l'emozione è ancora oggi , ogni volta che ci ripenso, indescrivibile.

Arrivò senza pietà l'alba del settimo giorno e Kikko non era riuscito ancora ad incarnierare il suo bufalo. Dopo ore di camminata agganciammo una mandria composta da un centinaio di esemplari,  qualcuno dotato anche di un buon trofeo, e, visto il poco tempo a nostra disposizione, tentammo in tutti i modi di portaci il più vicino possibile per tentare un ultimo tiro. La palla uscì dal freno di bocca del vecchio weatherby e impattò contro un vecchio maschio fermo a 200m dalla nostra posizione che, accusata la botta, scattò trascinando con sé il branco dirigendosi proprio verso di noi quasi a volerci caricare. Fortunatamente, giunti a meno di 30 passi, l'imponente ammasso di bovini si aprì a forbice passandoci ai lati facendo tremare la terra sotto ai nostri piedi. Seguire l'animale ferito si rivelò piuttosto difficoltoso in quanto il sangue sul terreno era ben poco ed il branco tendeva spesso a separarsi per poi riunirsi confondendo cosi le tracce. Verso le 17 decidemmo di tornare verso la macchina, Stefano sarebbe tornato a cercare il bufalo ferito l'indomani, sicuro di trovarlo morto. Fortunatamente andò così.

Il safari si concluse poi in bellezza con l'abbattimento di un maschio di zebra, alla luce “dell'ora magica”, quella luce calda di un classico tramonto africano, sprigionata dal sole ormai quasi nascosto sotto la linea dell'orizzonte, che ricorda agli uomini che è arrivato il momento di ritirarsi perché la savana torna ad essere i regno delle belve feroci.
Dopo sette giorni immersi nel bush anche noi ci ritirammo nella nostra cara Italia.

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