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Avancarica, why not?

Avancarica, why not?
 
L’uomo avanzava nel folto della foresta, procedendo con cautela estrema, seguendo la traccia ben visibile sul terreno fangoso, saturo di pioggia recente.  
Nelle cavità lasciate dalle zampe possenti, profonde e ben delineate, l’acqua era ancora torbida e i fili d’erba calpestati mantenevano qualche rado scatto di risalita.
L’usta era fresca, mezz’ora, massimo un’ora. 
A tratti, si fermava, tendendo l’orecchio e trattenendo perfino il respiro, mentre tentava di percepire qualche movimento avanti a lui.
Sembrava la pista di un vecchio maschio, solitario, grosso e pesante, sicuramente tormentato da parassiti vari e dagli acciacchi dell’età, che non contribuivano certo a migliorarne il carattere.
Forse, sperabilmente, era anche un po’ sordo, ma l’olfatto non risentiva dell’età e lui provava il vento ad intervalli regolari, con qualche particella di foglia secca.
Nugoli di zanzare di ogni tipo, attive come non mai nell’aria satura di umidità, lo tormentavano senza tregua, ma lui non tentava nemmeno di scacciarle, teso com’era nel cogliere ogni minimo segnale che gli rivelasse la posizione della preda.
D’improvviso, il folto di alberi e cespugli si diradò, e lui si trovò ai margini di una radura, punteggiata da ammassi di rocce ricoperte di muschio.
Era estesa, probabilmente frutto di un incendio in tempi remoti e all’estremità opposta, una depressione del terreno si era riempita di acqua piovana, formando un invaso cospicuo, seminascosta da uno dei cumuli di rocce.
E dalla parte opposta delle rocce, qualcosa agitava la superficie dell’acqua, sbuffando e grugnendo sommessamente.
L’uomo trattenne il respiro, stringendo con forza il calibro 54 ad avancarica, con canna rigata, controllando un’ultima volta le condizioni delle tacche di mira. Per precauzione, sostituì la capsula d’innesco, armando parzialmente il cane, nella posizione di mezza monta e, rimanendo nella protezione del folto, seguì il bordo della radura. Pian piano la pozza si rivelò allo sguardo e l’uomo, incredulo, si trovò a fissare da un centinaio di metri quello che sembrava un enorme grizzly, intento a rivoltolarsi nell’acqua fangosa, per liberarsi dai parassiti.
L’emozione era grandissima. Era il momento tanto atteso, per il quale aveva faticato, sognato, litigato perfino, per assaporare il fascino di una caccia primordiale, ineguagliabile, con le armi dei suoi antenati. Per dimostrare che non erano necessarie le radenze esasperate, i calibri magnum e supermagnum, i cannocchiali con telemetro incorporato, i reticoli illuminati, i punti laser e via discorrendo.
Un po’ di carbone, zolfo e salnitro avrebbero spinto via una palla di piombo tenero, fusa in casa, anzi, in cantina, reincarnazione del tubo di scarico di un lavello, sostituito dopo più di dieci lustri di onorato servizio. E l’avrebbero spinta ad una velocità e con una forza tale da abbattere una preda di quelle dimensioni e con una vitalità proporzionata alla stazza.
Ricordava molto bene i dubbi dei colleghi di Sezione, che proprio non ce la facevano ad aprire la mente al fascino e alla seduzione di una caccia così… arcaica. Una caccia d’altri tempi, migliori dei nostri sotto molti aspetti, con armi che definire sportive è riduttivo, che condizionavano più che mai il risultato alla maestria dell’uomo, alla sua capacità di valutare correttamente distanze, ritardo d’accensione, caduta della palla e altri parametri fondamentali all’esito del tiro.
Aveva tentato di fargli capire che un approccio del genere alla caccia ti fa sentire infinitamente più vicino all’ambiente, misurandoti con la preda con una tecnologia antica di secoli, che amplificava l’esultanza del successo in modo esponenziale.
La canna rigata era stata la sua prima scelta, una pregevolissima replica del Rocky Mountain Hawken mod. Maple in calibro 54, della Pedersoli, un marchio che è garanzia di serietà e qualità nel settore armiero. Un’arma fedele all’originale nei più minuti particolari. Tenerla fra le mani, imbracciarla e puntarla, mimando  l’azione di caccia, lo trasportava lontano, in altri tempi ed altri luoghi, un’entità primordiale che cacciava per vivere.
 
E c’era l’aspetto intrigante della fusione, che ognuno portava a termine a modo suo, con mezzi magari di fortuna, sentendosi un po’ un novello Cagliostro, maneggiando il fuoco, i metalli e sostanze come lo zolfo in qualche antro buio e solitario. (Se avete famiglia, provatevi a far fondere il piombo in cucina…)
Le prime Miniè che erano uscite dalla sua fucina avevano ai suoi occhi un aspetto magnifico,  letale, così lucide e pesanti, calde sul palmo della mano. Le aveva trafilate, ingrassandole poi amorevolmente nei solchi con lo strutto purissimo prelevato dal frigorifero, che la moglie conservava gelosamente per le fritture (Con un orecchio attento al suo passo in arrivo…).
Ed infine, la prova sul campo.
Avrebbe ricordato per il resto della vita l’emozione del primo sparo.
Lo scatto del cane, il boato, il rinculo progressivo e più ancora l’odore pungente di quella nuvola azzurrina di fumo, inebriante come una rara essenza. Odorava di libertà, di qualcosa di remoto, ma tuttavia attuale, possibile ancora oggi e ne fu affascinato. 
E finalmente, era giunto il momento tanto atteso. 
La Natura primordiale della foresta incontaminata che lo circondava l’avrebbe gratificato, lo sentiva dentro di sé, premiando con un momento indimenticabile i giorni e giorni di marcia massacrante per avvicinare una tale preda.
La fiera si voltolò un’ultima volta nella mota e si mise in piedi, strusciandosi contro le rocce.
D’improvviso s’immobilizzò, sentendo il vento e lui si maledisse per l’imprudenza. Aveva tralasciato di provare la direzione della brezza, che ora lo stava tradendo.
Si appoggiò ad una biforcazione, armando contemporaneamente il cane e puntò l’animale, ormai in allarme ed in procinto di fuggire.
Fece fuoco un attimo prima della fuga, anticipandolo leggermente nella direzione che stava prendendo e fu un tiro magistrale. La palla lo colse alla base del cranio, spezzando la colonna vertebrale e fulminandolo sul posto. 
Con le gambe tremanti l’uomo si sedette, distogliendo lo sguardo, timoroso perfino di lanciare una seconda occhiata, incapace di credere a quanto era successo. Era così forte l’emozione che percepiva la realtà come rallentata e temeva che, così come i desideri espressi non si avverano, così i sogni realizzati, se fissati con insistenza, svaniscono…
Ma l’animale era là, immobile e diventava sempre più grande mentre lui si avvicinava, tralasciando persino la più elementare norma di prudenza, che impone di ricaricare prima di accostarsi ad una tale preda, appena abbattuta.
Un passo, poi un altro, impugnando un’arma concepita ben più di un secolo fa, a cui innumerevoli persone, molto tempo prima di lui, avevano affidato la propria esistenza, la sopravvivenza e il reperimento del nutrimento necessario per sé e la propria famiglia.
Non era solo un’arma, era una certezza su cui contare, la capacità di fronteggiare qualsiasi avversario e in quei tempi bui rappresentava la vita.
Lui sentiva su di sé ognuna di queste cose e cresceva di statura ad ogni passo, perché lui, quel giorno, aveva realizzato tutto questo.
E quel giorno, era nato per una seconda volta, con l’anima trasmigrata e tornata alle origini, avo di sé stesso.
E poco importa che il grizzly non fosse proprio lui, ma un cinghialetto di una quindicina di chili, scarsi. 
Non aveva alcun peso il fatto che la foresta vergine che lo circondava fosse un boschetto di robinie e acacie, a ridosso di un seminativo.
Di nessuna rilevanza il fatto che le rocce fossero cumuli di terreno provenienti da scavi e coperti da rovi.
E che valore poteva avere il fatto che l’invaso non fosse che un solco fangoso, in cui l’animale aveva cercato un po’ di refrigerio?
Come parimenti era privo di interesse il fatto che lui era uscito di casa due ore prima e non da giorni e giorni a seguire tracce.
E che influenza poteva mai avere sul risultato, il fatto che lui avesse chiuso gli occhi al momento dello sparo? 
“Ah no! Passi tutto il resto, ma quello no! Che non sia il Canada, va bene! Che non fosse proprio un orso, va bene! Ma il tiro è stato un colpo da maestro! E io non avevo gli occhi chiusi. E poi sapevo benissimo dove si trovava la preda! E ho tirato lì!”
La cosa importante, quella veramente importante, è la beatitudine, lo stato di grazia in cui ci si trova, mentre si assapora la certezza che un simile esito è stato raggiunto grazie soprattutto a noi stessi, alle nostre capacità di valutazione nell’utilizzo di uno strumento che, seppur pregevole nelle sue finiture e nella realizzazione, è pur sempre primitivo nella sua concezione.
E va utilizzato come tale, come un antico strumento musicale, con maestria ed amore, per trarne musicalità di risultati, proprio come accendere un fuoco con due legnetti e foglie secche, gustando la sensazione di essere un novello Davy Crocket.
E la prossima domenica a selvaggina di penna, con l’ausiliare al fianco, con gli occhi ebbri di cielo, del verde dei boschi, del bruno delle zolle rivoltate, con la libertà nel cuore e con la fida doppietta cal. 12 a cani esterni sottobraccio, naturalmente ad avancarica. 
E naturalmente, Pedersoli, perché chi ben inizia…
 
 
Pierangelo Pedersoli insieme a Vicenzo Decarolis, autore del racconto, e al figlio Davide
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