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Il Santo Cacciatore: la sua leggenda e il suo lascito

Il Santo Cacciatore: la sua leggenda e il suo lascito

 

Così nelle leggende come anche nella realtà spesso la figura del cacciatore si mescola con quella dell’eremita, dell’asceta, dell’individuo che volontariamente si porta ai margini della società corrotta e che nel bosco, mettendosi a contatto con la Natura e con il suo "Io" più puro, ritrova se stesso e la sua pace interiore.

Sotto questo aspetto la figura del "Cacciatore/Lupo solitario" ha da sempre affascinato molte persone, anche quelle non vicine al mondo venatorio.  Una figura di indubbio interesse in questo ambito è quella di Sant’Uberto, il santo patrono dei cacciatori: nobile vissuto nel Medioevo oggetto di numerose storie e leggende. Forse, proprio per questo, la vera storia del santo è andata irrimediabilmente perduta e la verità si è amalgamata alla fitta coltre di nebbia della leggenda, della credenza popolare e dell’agiografia. Tuttavia l’intento di queste righe non è quello di analizzare le storie attorno alla figura del santo e verificarne una qualche veridicità quanto, piuttosto, cogliere un senso profondo, una simbologia o un’interpretazione (personale forse?) celata dietro alla figura di questo personaggio, nonché carpirne i lasciti.

Uberto, prima di divenire Santo, fu un ricco e potente nobiluomo appartenuto alla dinastia Merovingia. Nato circa nel 657, probabilmente a Tolosa, annoverava in tutta la storia della sua famiglia re e duchi; lui stesso ebbe il titolo di conte palatino e fu apprezzato presso varie corti reali (come quella di Teodorico III).  Quasi sicuramente prese moglie e secondo alcune fonti , ma probabilmente false, durante questo periodo di agi Uberto ebbe anche un figlio di nome Floriberto.

Si può ritenere che, come molti altri nobili dell’epoca, egli era un assiduo ed appassionato Cacciatore; e fu proprio grazie alla Caccia che la sua vita, ormai persa fra dissolutezze e vacuità, cambiò radicalmente.

Secondo la tradizione tutto accadde un Venerdì Santo: Uberto era nel mezzo di una battuta di caccia quando improvvisamente si trovò isolato nel bosco. Si addentrò quindi nella foresta: era solo, tutto taceva, tutto era immobile. Ma quel magico silenzio che si può trovare solo nella natura selvaggia fu interrotto da qualcosa: una creatura stava per palesarsi tra la fitta boscaglia davanti al cacciatore impaurito, una creatura misteriosa ed inquietante. Non si trattava né di un cinghiale infuriato né tantomeno di un famelico lupo: davanti agli increduli occhi del nobile apparve un maestoso cervo recante fra i palchi una luminosa Croce Cristiana. Uberto si inginocchiò davanti a quella sublime visione e subito avvertì dentro di sé un cambiamento, una chiamata di Fede. Capì ciò che quella visione gli stava trasmettendo: egli doveva abbandonare la dissolutezza che lo possedeva per passare una vita all’insegna del pentimento e della Fede. Ed ecco quindi la simbologia di cui trattavo inizialmente: fra le varie interpretazioni che questa storia può avere, può certamente essere annoverata quella secondo la quale l’uomo davanti allo spettacolo della Natura ammira qualcosa che trascende il reale, che va a toccare sponde sacre (o spirituali se si preferisce), e davanti al mistero e al sublime non può che abbandonare il vacuo ed abbracciare la vera bellezza dello spirito, incapace com’è di dare una risposta razionale a ciò che ha davanti. Questo tipo di interpretazione è certamente fuori da quelli che erano i normali canoni di pensiero medievale, ma è frutto di un nostro odierno bagaglio culturale influenzato forse anche dall’ottocentesco romanticismo; ma è innegabile che ciò che Sant’Uberto vide e provò in mezzo a quel bosco risvegli in alcune persone e in noi cacciatori in particolare quel sentimento di pace, serenità e pura tranquillità che si prova quando silenziosamente ci si ferma a osservare un bel paesaggio naturale ed incontaminato. Indipendentemente dalla veridicità o meno della Visione del Santo, ciò che tale evento può volerci trasmettere è che ogni persona può trovare dentro di sé e attraverso il contatto con la Natura la sua propria  serenità.

Quindi, tornando alla storia e all’agiografia, il nobiluomo ormai vedovo da tempo rinunciò a tutti i suoi beni e possedimenti. Si pose sotto la guida di San Lamberto, diventandone allievo e succedendo a quest’ultimo come Vescovo di Maastricht nel 706. Uberto fu anche un fervente predicatore e portò all’evangelizzazione delle Ardenne e del Brabante (all’epoca luoghi formati da selvagge foreste), inoltre fondò la diocesi  di Liegi e ne fu primo Vescovo.

Passò comunque gran parte della sua vita vicino ai boschi e alla natura che tanto amava, e beffardamente lì trovò anche la morte: si racconta infatti che il suo trapasso fu causato dalla ferita infertagli dall’uncino di un amo agitato maldestramente da un suo sottoposto durante una tranquilla giornata di pesca. A seguito di questa ferita Uberto contrasse un qualche tipo di infezione e morì nel giro di qualche tempo all’alba del 30 Maggio 727, a Fura. Dopo la sua morte egli fu presto proclamato santo e posto come Patrono dei Cacciatori.

Contrariamente a quanto si possa pensare, il suo culto è diffusissimo in particolar modo in Belgio, in Germania, e in generale in tutta la zona Mitteleuropea, come anche nelle zone boschive della Francia.

In Italia invece il suo culto non è così comune, tuttavia nelle parti più a nord dello stivale spesso vengono organizzate delle messe in suo onore: messe del tutto suggestive poiché accompagnate dal potente suono di corni da caccia di gruppi di suonatori in abiti folkloristici.

Persino i Savoia, appassionatissimi cacciatori, furono molto devoti al Santo: basti pensare alla stupenda Cappella di Sant’Uberto, fatta costruire su commissione di Vittorio Amedeo II circa nella prima metà del ‘700 in commemorazione al Santo presso la stupenda reggia di Venaria Reale a Torino. In tale cappella si trova anche un reliquiario contenente le ossa che compongono un "Corpus S. Uberti": tuttavia non si tratta dei resti del Santo protagonista di quella mirabile visione (il suo corpo si trovava nell’abbazia benedettina di Andage  –oggi Saint Hubert-  finché non fu rubato e perduto definitivamente nel 1568), bensì di un altro misterioso "Uberto martire", malcapitato "surrogato" dell’Uberto al quale la cappella è intitolata.

Il Santo delle Ardenne, oltre a meriti religiosi, ebbe anche un ruolo importante per la cinofilia: a lui è infatti attribuito un forte e fondamentale contributo alla selezione di una delle razze capostipite della famiglia dei segugi: il Chien de Saint Hubert (o Bloodhound, anche se in origine si tendeva a distinguere i due nomi in due razze distinte). Si tramanda che Uberto allevò appassionatamente questi cani per tutto l’arco della sua vita e, una volta morto, i suoi monaci portarono avanti la selezione della razza fino al 1700. I segugi che si distinguevano per qualità olfattive venivano utilizzati nella Caccia o nella ricerca delle persone smarrite nelle oscurità delle foreste delle Ardenne, mentre quelli privi di qualità venatorie erano utilizzati come cani da guardia nei monasteri. L’allevamento di questa razza attecchì ed ebbe enorme successo anche in Inghilterra, dove tutt’ora è molto apprezzata. Il Chien de Saint Hubert è il segugio dall’aspetto più massiccio ed imponente (il peso medio della razza si aggira attorno ai 45/50 kg, mentre l’altezza al garrese media è 62 cm per le femmine e 68 cm per i maschi). Nonostante l’aspetto austero, severo ed orgoglioso, si tratta di un cane affettuoso e molto pacifico, perfetto compagno di giochi per i bambini. Tale segugio è ancora oggi utilizzato a caccia (seppur molto meno rispetto ai suoi "colleghi") spaziando dalla cerca alla lepre fino alla battuta al cinghiale, per arrivare infine alla recupero degli ungulati feriti, ambito in cui questa razza eccelle grazie al suo fiuto prodigioso.


In conclusione si può indubbiamente notare che questo misconosciuto Santo ha lasciato nel mondo della caccia, della cinofilia, nella storia e nel folklore un lascito silenzioso e occultato, ma che comunque è riuscito a cementificarsi e rafforzarsi con una forza incredibile, consolidando così e avvolgendo ancora più nel mito al figura di questo personaggio che raccoglie in sé tutto il fascino fiabesco (ma anche "oscuro") dell’Europa Medievale.

Voglio valorizzare quanto scritto lasciandovi con un aneddoto leggero e curioso: il simbolo che caratterizza Sant’Uberto, ovvero il Cervo con la Croce fra i palchi, compare sull’etichetta della bottiglia di un notissimo liquore dell’Oltralpe il cui nome tradotto in Italiano significa "Maestro Cacciatore". L’inventore di tale bevanda, un appassionato cacciatore tedesco, volle infatti dedicare la sua invenzione al santo a cui era probabilmente particolarmente devoto. Avete capito di quale liquore sto parlando? Se sì, allora bevetevene un sorso alla salute di Sant’Uberto!

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