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Caccia al cinghiale: problemi ed opportunità

Caccia al cinghiale: problemi ed opportunità

Spesso si sente dire che ….il cinghiale ha salvato la caccia in Italia.

Questo è vero solo in parte, ma resta indubbio l’enorme peso che la sua caccia ha su tutto il panorama venatorio nazionale.

Il cinghiale, Sus scrofa secondo il nome scientifico attribuitogli dal grande naturalista svedese Linneo (1707-1778) , negli ultimi decenni è stato protagonista d’uno spettacoloso incremento nelle sue popolazioni, divenendo in breve croce e delizia dei cacciatori italiani.

Un tempo diffuso ovunque in tutta l’Eurasia e il Nordafrica, fu sempre sottoposto a forte pressione venatoria, tanto che all’inizio del novecento la sua presenza s’era rarefatta in molte aree (Austria, Germania, Russia), mentre era praticamente estinto in altre come la Danimarca, la Tunisia, le isole britanniche.

In Italia il suide restava confinato nella Maremma laziale e toscana e in Sardegna, dov’era presente con una sottospecie, Sus scrofa meridionalis, che si crede frutto d’un processo di “inselvatichimento” di maiali introdotti in tempi antichi dall’uomo.

Qualche altro nucleo isolato, frutto di migrazioni spontanee, si trovava saltuariamente in Liguria e Basso Piemonte, al confine con la vicina Francia dov’era rimasto numeroso.

A partire dalla fine degli anni 60’ la situazione mutò radicalmente, anche a seguito di immissioni a scopo ripopolamento venatorio operate già dagli anni 50’, e il suide prese a diffondersi a macchia d’olio.

Come dimostra lo studio prodotto per la “Banca dati ungulati” dell’Ispra (Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica) da Luca Pedrotti, Eugenio Duprè, Damiano Preatoni, Silvano Toso (tabelle allegate) la presenza crebbe così tanto da andare a toccare nel 2001 ben il 57% del territorio nazionale, corrispondente a 170.000 km.

 

Presenza del cinghiale nelle diverse regioni italiane, riferita al periodo 1998-2000

 

Regione

Presenza

 

Piemonte

Val d’Aosta

Lombardia

Trentino Alto Adige

Veneto

Friuli-Venezia Giulia

Liguria

Emilia-Romagna

Toscana

Marche

Umbria

Abruzzo

Molise

Lazio

Campania

Puglia

Basilicata

Calabria

Sicilia

Sardegna

 

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente in nuclei disgiunti

Presente in nuclei disgiunti

Presente in nuclei disgiunti

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente diffusamente

Presente in nuclei disgiunti

Presente diffusamente

 

Attualmente il cinghiale risulta in ulteriore espansione, cominciando ad affacciarsi anche sul fronte orientale in cui, un primo tempo, era presente a piccoli nuclei frammentati.

Difficile è quantificarne il numero, e se lo studio citato lo stimava nel 2001 compreso tra i 300.000 e i 500.000 capi, è assai probabile che questo possa essere ulteriormente aumentato.

Le ragioni di questa vera e propria esplosione demografica sono molteplici, legate oltre alle già citate introduzioni anche al cambiamento generatosi nell’ambiente.

L’abbandono di molti territori un tempo coltivati e la riduzione della pastorizia, lo spopolamento di colline e montagna, hanno favorito la ricrescita del bosco, delle aree incolte, e con questo il ritorno dei grandi ungulati tra cui, in primis, il nostro cinghiale.

A ciò s’aggiunge l’ibridazione con soggetti provenienti dall’Est Europa, utilizzati senza alcun rigore scientifico per il ripopolamento e che hanno comportato l’aumento delle dimensioni e della prolificità dei soggetti.

Il cinghiale trovando un habitat sempre più a lui favorevole, e dove sino a pochi anni fa non v’erano più grandi predatori (lupo, orso, lince), ha potuto così crescere di numero, tornando a popolare le stesse aree da cui era stato eradicato secoli prima, sino a giungere a ridosso delle grandi città.

E così anche i “nembrottini” italiani tornarono, o cominciarono del tutto, a cacciare il cinghiale.

Anche dove non c’era tradizione consolidata, così come invece in Sardegna o Maremma, nacquero le prime squadre di cinghialai e in pochi anni il prelievo crebbe così tanto da far sì che la sua caccia diventasse una delle più rilevanti, di certo in termini quantitativi se non qualitativi.

Si veda a titolo d’esempio la tabella prodotta dallo studio Ispra (Pedrotti e altri) relativa agli abbattimenti annuali

Entità e distribuzione media dei prelievi annuali di cinghiale nel periodo 1998-1999.

 

Regione

Abbattimenti

Piemonte

Val d’Aosta

Lombardia

Arco Alpino Centro-Occidentale

 

Trentino-Alto Adige

Veneto

Friuli-Venezia Giulia

Arco Alpino Centro-Orientale

 

Liguria

Emilia-Romagna

Toscana

Marche

Umbria

Appennino Centro-Settentrionale

 

Abruzzo

Molise

Lazio

Campania

Puglia

Basilicata

Calabria

Sicilia

Sardegna

Appennino Centro-Meridionale

5.000

250

1.450

6.700

 

30

--

400

430

 

10.000

11.000

31.000

3.000

4.500

59.500

 

3.000

1.300

3.000

3.000

115

1.000

3.000

Cacciato

12.000

26.415

 

Totale

93.045

 

Numeri importanti, ma sicuramente molto inferiori a quelli attuali se si pensa come quest’anno nella sola Provincia di Genova (ambito ponente e valli genovesi e ambito levante) il piano d’abbattimento sia passato dai 9.000 capi del 2011 a 11.000, e tutto ciò contro i 10.000 totali registrati in Liguria nel 1999; o se si ricorda come il Banti segnalasse per il 2009 l’abbattimento in Toscana di ben 75.000 animali a fronte dei 31.000 di appena dieci anni prima.

 

Questa enorme crescita ha creato tensioni e conflittualità tra le varie parti sociali, economiche ed ambientali coinvolte nella gestione del problema.

Da una parte i cacciatori, attratti in numero crescente da questo interessante selvatico, ma in gran parte responsabili della sua reintroduzione; dall’altra gli ambientalisti e gli agricoltori colpiti nei loro interessi economici dall’impatto negativo delle popolazioni selvatiche sulle coltivazioni.

I cinghiali, com’è noto, arrecano notevoli danni, potendo in una sola notte un paio di questi formidabili animali “scava terra”, rovesciare un intero prato o un campo produttivo alla ricerca di cibo.

.

 

Ecco quindi da più parti invocarsi l’intervento di operazioni di contenimento che riducano il numero dei suidi e limitino i danni.

Ma in passato la politica gestionale è stata piuttosto carente, e questo anche per l’impreparazione e l’insufficiente cultura ambientale e faunistica degli organi preposti a condurla, ma pure dello stesso mondo dei cacciatori; negli ultimi anni la situazione è in miglioramento, e le stesse tecniche di caccia si stanno affinando, consentendo un prelievo maggiormente mirato unitamente ad un minor impatto ambientale.

Alla tradizionale “braccata”, che era e resta ancora la forma più diffusa di caccia al cinghiale, vanno infatti affiancandosi altre forme meno “invasive” come la caccia d’appostamento, quella di selezione e infine la “girata”.

Quest’ultima si effettua su un’area piuttosto piccola e circoscritta e con numero limitato di cacciatori (un canaio e altri sistemati alle poste) e cani (generalmente uno o due), definiti “limieri” e chiamati a seguire la traccia del selvatico sino a raggiungerlo al covo.

L’ausiliare viene condotto dal canaio legato e verrà sciolto solo in prossimità del nascondiglio del cinghiale.

Una volta trovatolo il cane dovrà abbaiargli a fermo per farlo muovere, ma senza forzarlo e dare così tempo al conduttore di raggiungerlo e sparare, o indirizzarlo verso gli altri cacciatori alle poste.

Questo tipo di caccia impatta meno sul territorio della braccata dove invece grosse squadre, su aree piuttosto vaste, sciolgono numerosi cani creando maggior disturbo alle popolazioni d’ungulati presenti in quella zona (caprioli, daini e cervi).

La necessità di rendere efficace e moderno il prelievo ha poi fatto sì che sempre più spesso al calibro 12 o 20, scelta tradizionale dei cacciatori d’un tempo, vada affiancandosi la canna rigata, la carabina che si può presentare in forma di bolt action, adatta alla caccia d’appostamento, o delle più maneggevoli e veloci semi-auto maggiormente indicate per braccate e “cacciarelle” (simili alle altre ma con un minor numero di cacciatori).

Diventano quindi necessarie delle pianificazioni serie, ed una oculata gestione in grado di ridurre al minimo tutti quelli che sono gli interventi straordinari di Regione e Provincia; è necessario favorire un’attività venatoria in grado d’offrire delle soluzioni vantaggiose al mondo rurale e contadino, che contribuiscano al miglioramento delle condizioni ambientali;bisogna infine puntare sulla responsabilizzazione del mondo venatorio, riacquistando quella credibilità che per la caccia, e non solo quella al cinghiale, rappresenta una scommessa per il futuro.

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