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MAGIE DI PALUDE: SECONDA PARTE

MAGIE DI PALUDE:  SECONDA PARTE
Il problema delle monocolture

La risicoltura intensiva, come tutte le monocolture, porta a devastanti alterazioni territoriali che si ripercuotono inevitabilmente su tutta la selvaggina, stanziale e di passo. Dopo il taglio del riso, se la stagione tiene, le stoppie vengono bruciate e il terreno arato e fresato. Questo vuol dire che in stagioni ritenute dai contadini ottimali, dalla fine di ottobre in poi, tutte l’enorme zona delle risaie diventa un immenso deserto, arido e inospitale, assolutamente non idoneo allo svernamento, e nemmeno alla sosta di qualsivoglia specie acquatica. Gli autunni piovosi, con precipitazioni continue e copiose, relegano le macchine agricole a riparo dai capannoni e le stoppie allagate diventano il regno dei beccaccini e delle alzavole, oltre che a costruire un polmone importante per tutti gli animali. La desertificazione delle coltivazioni il set-a-side faunistico stanno piano piano migliorando le cose, ma gli interessi dei coltivatori non sono quasi mai in sintonia con quelli degli ambientalisti (e nell’elenco di quest’ultimi metto in prima fila i cacciatori). È necessario trovare un punto d’intesa, un modo di sfruttamento agricolo del territorio che sia compatibile con il mantenimento di zone idonee alla sosta-riparo-alimentazione-riproduzione degli animali.

Dal punto di vista dei numeri sono tutt’ora, ove possibile e legale metterle in atto, decisamente più redditizie le così dette tese stagionali. Previo accordo con l’agricoltore venivano seminati appezzamenti più o meno grandi (2/3 ettari) col riso precoce che arriva a maturazione già intorno alla metà di agosto.  Dopo il taglio (tenuto accuratamente molto basso) e la raccolta della paglia, le cui balle a forma di parallelepipedo erano utilizzate come enormi mattoni per la costruzione dei capanni, il terreno veniva allagato. Solitamente (previo pagamento) si lasciavano in piedi strisce o macchie di riso che costituivano una pastura naturale, ottimale per tutte le anatre di superficie. In realtà queste enormi tese stagionali, se da un lato consentivano carnieri davvero importanti, dall’altro non soddisfacevano le esigenze di continuità che una tesa fissa è in grado di offrire (acqua perenne anche nei periodi di ripasso e di nidificazione).

Zone umide: un capitale che va gestito

Così come in montagna lo sfalcio in quota, le coltivazioni a perdere e il taglio del bosco sono opere indispensabili per il mantenimento per le popolazioni animali, anche le zone umide devono essere curate e gestite con interventi mirati e attuati da gente preparata. A nulla serve creare oasi di protezione quando l’impossibilità di effettuare qualsiasi intervento porta alla chiusura dei chiari e alla colonizzazione di specie animali dannose (nutrie e cormorani in testa, seguiti a ruota da tutti gli ardeidi: aironi cenerini, nitticore, garzette, ecc.).  Abbiamo trasformato importanti zone umide, indispensabili per il riparo e l’alimentazione delle specie di passo in enormi garzaie, con grande compiacimento per i creatori di tali orrori (gli aironi sono grandi e si vedono bene…), senza curarsi di mantenere le condizioni accettabili per tutte le specie minori che storicamente rappresentano un vero patrimonio faunistico di tali zone.

L’emozione della caccia in tesa trae nutrimento dall’imprevedibilità del carniere nonché della consapevolezza che tutto il lavoro antecedente, che come abbiamo visto non ha soluzione di continuità durante tutto l’anno, è stato svolto in modo corretto.

Caccia in tesa: emozioni antiche

Tirare a un’anatra "in passato", seduti sull’argine di un fiume o su una corda (sponda rialzata di risaia) ha un valore totalmente differente rispetto alla soddisfazione che deriva dal piacere di vedere un uccello che "crede al gioco", che "lo cura" e che  magari dopo una ventina di giri intorno alla tesa e dopo il lancio di 4/5 volantini (vedremo in articoli successivi il possibile utilizzo di richiami vivi), finalmente si decide a "chiudere", e sulla "stratta" dei richiami vivi in acqua, ad "entrare" nello spazio di cielo che lo porterà a tiro dei nostri pallini. Tante volte, durante il magico momento dell’aurora, quando piano piano i contorni delle cose vengono dettagliati dalla luce che aumenta, la stretta violenta dei richiami (tutte le anatre da richiamo disposte in acqua esplodono in un concerto di voci, denunciando il passaggio sulle loro teste di un consimile) ci ha riempito il sangue di adrenalina! Gli occhi si sforzano di bucare il buio alla ricerca di quelle piccole croci nere, di ombre fugaci che scivolano sull’acqua silenziosa. Orecchie tese nelle ricerche del battito ritmico dei germani o della violenta folata del ciuffo di alzavola (il colpo d’ala di quasi tutti gli anatidi, tanto che molte volte si sente il loro arrivo o il loro passaggio ancor prima di vederle). E poi la caccia in tesa vuole anche dire perfetta sincronia e grande fiducia nei propri compagni. L’affiatamento e l’ottima conoscenza sia dell’appostamento stesso che delle abitudini delle varie specie porta dei momenti intensissimi di condivisione venatoria. Il risultato finale è dato dalla somma delle capacità individuali, oltre che dalla corretta preparazione dell’appostamento, e questo non lascia spazio a invidie e gelosie: l’avidità dello sparo, magari fuori tempo (uccelli non ancora "entrati" come si deve, sciupati perché tirati lungi e/o male), non ha nessun riscontro positivo in questo tipo di caccia e si disimpara molto in fretta.

Personalmente avendo ormai da decenni scelto di dedicarmi a un solo tipo di caccia, cosa che mi ha portato a dedicarmi agli acquatici in modo esclusivo, ormai ho dei magnifici ricordi legati ad essi. Ancor ora non so dire cosa possa emozionarmi più di un branchetto di fischioni che fanno ala, e curano il gioco.

Un cordiale nel becco dell’anatra

Vito.

 

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