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Colombaccio: scuole di pensiero

Colombaccio: scuole di pensiero
SPARARE A VOLO O A FERMO? NELL'IMMAGINARIO COMUNE LE TRADIZIONI UMBRA E LIVORNESE SI RISOLVONO AD UNA STERILE CONTRAPPOSIZIONE. MA C'è DELL'ALTRO: SALIAMO SUL PALCO PER SCOPRIRE DIFFERENZE ED ANALOGIE TRA QUESTI ANTICHI APPROCCI. CI ACCOMPAGNANO DUE DECANI CHE NE HANNO FATTO LA STORIA E NE CUSTODISCONO LA MEMORIA
 
Hanno il viso buono e gli occhi luminosi di chi ne ha viste di tutti i colori e conosce vita, morte e miracoli della migrazione. I colombacci popolano i loro racconti, le parole scorrono leggere e staresti ad ascoltarli per giorni interi. Allora non si può iniziare che da qui, dalle storie che prendono forma e ti portano in un mondo lontano.  Gino Saltarelli, livornese doc con settanta licenze sulle spalle, e Oliviero Bocchini, classe 1946, tuderte verace. Non si conoscono di persona:  tra le due città sono meno di 300 chilometri, ma c'è un mare di Appennini in mezzo a dividere valli e pensieri. Lo stesso paesaggio che disegna il volo degli animali e le relative attitudini. 
 
Così, intorno alla propria terra, ognuno ha sviluppato il proprio credo venatorio.
Insidiare i colombi diventa differente non tanto per scelte fideistiche (una caccia è meglio di un'altra) quanto per  adattarsi alle caratteristiche del loro comportamento in determinati contesti e fasi di transito. «Prima la migrazione era tutta spostata sull'adriatico, poi dal secondo dopoguerra la situazione si è capovolta», afferma Gino e già solo a sentir parlare di questi ricordi ti vengono i brividi. Evoca un luogo mitico come il Tombolo Pisano, quando si andava a caccia in bicicletta, la pineta era immensa e con pochi capanni. La situazione è mutata anche in Umbria, nell'ultimo decennio: "Ma io non mi arrendo e coltivo ogni giorno la meraviglia di un poso vero di palombe", sorride Oliviero.
Gli spazi si sono ridotti ovunque, già. Allora perché ognuno continua ad insistere sulle proprie tecniche? Se esaminiamo il flusso migratorio, ecco il motivo: i colombi che passano sul versante livornese si sono ben rifocillati prima di iniziare la traversata del mare,  e quindi sono più freschi e meno intenzionati a fermarsi per un pit-stop immediato, per cui vengono attirati sino ad essere portati a distanza di tiro utile. Quelli dell'entroterra hanno esigenze fisiologiche più marcate quindi possono essere invogliati a posarsi sugli alberi. 
 
Sono due sistemi validi ed ambedue antichi, ma sulla data di nascita c'è grande lotta per la primogenitura. Anche qui la storia si presenta come un intreccio di tasselli. Oliviero, nelle sue numerose ricerche, ha scoperto una pagina illuminante sul vecchio testo di Antonio Valli da Todi (Il canto de gl'augelli, 1601). Uno dei libri più belli dedicati alla fauna selvatica, segue di qualche secolo il  De ars Venandi cum avibus, scritto da Federico II nella vicina Montefalco (che proprio alla passione per i rapaci del sovrano svevo deve il suo nome). Qui si legge: "è necessario scegliere un albero ben invischiato, si mette in cima alla sua chioma un colombaccio da richiamo vivo e si aziona quando i colombacci passano in vicinanza, stando ben coperti sotto l'albero". Un testo che testimonia come la caccia alle palombe sia praticata da almeno cinque secoli in Umbria, anche se i più attenti avranno notato che si parla di cacciatori in attesa nel basso. 
 
«La caccia è nata a Livorno e da qui si è diffusa in tutta Italia», rintuzza Gino. Ci narra la storia di un portuale, tal Morino, che nei primi anni del secolo ebbe un'intuizione geniale: issarsi con un corbello (la cesta con cui veniva scaricato il carbone dalle navi) su in cima agli alberi. Lo stratagemma permise di insidiare quegli animali che altrimenti non si sarebbero visti dal basso. Così all'inizio, fu vittima delle beffe da parte degli altri cacciatori che, passando da sotto, gli gridavano: «Morino!Cosa fai, dici la messa dal pulpito?». Ma quando iniziarono a vedere carnieri fenomenali, decisero di imitarlo e di innalzare i propri capanni. Da qui il nome della caccia dal pulpito. 
Sul pulpito, come dicono i toscani, o al palco, alla maniera degli umbri, è comunque il lavoro di azzichi e volantini a farla da padrone: è essenziale il ruolo della femmina che, muovendosi sulla racchetta, richiama i maschi. Il loro volo deve essere preciso per calamitare l'ottima vista dei colombi. Ma quando il branco si avvicina ed inizia la discesa, ecco che si arriva al punto di contrasto principale: tirare a volo a fermo? Davvero non si può schematizzare: i detrattori del tiro a volo, affermano che in tal modo la curata sia eseguita solo a metà, che i tiri risultino sempre più lunghi (con l'utilizzo crescente di strozzature full e cartucce magnum) e i carnieri  non più sostenibili. Per contro, gli altri sostengono che lo sparo sincrono sulla buttata sia meno spettacolare e più "facile". La realtà è che sono appunto scuole di pensiero, ognuna con i suoi pro e contro. Ovvio che se nessuno si sforza di capire la bellezza e la dignità dell'altra caccia, il dialogo non evolve. 
 
Certo, se uno esamina lo stato di salute delle due tipologie, come sottolinea Gino, vede come «la caccia livornese abbia dilagato e contaminato molte altre regioni». Mentre siano rimasti pochissimi i capanni per il tiro a fermo: anche in Umbria molti sono stati scoperchiati e riadattati. Questo anche perché la tecnica dello sparo sincrono richiede grande pazienza ed un affiatamento perfetto con i compagni al momento della conta, oltre che una conoscenza capillare dei tempi. Richiede, forse più dell'altra, una maggiore tutela proprio perché risente dei cambiamenti ambientali (disboscamento e maggiore diffidenza colombi) e legislativi (riduzione distanza dei capanni) in atto. 
Ma proprio qui nasce il dialogo, si registrano delle aperture, come auspicato in mille occasioni dal presidente del club del Colombaccio, l'avvocato Francesco Paci. 
Oliviero ci dice che le due forme di caccia sono del tutto compatibili, - "evitando però sovrapposizioni" - mentre Gino riconosce che quella umbra ha il merito di disturbare meno gli animali.      
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