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I camosci di Dario - Prima parte

I camosci di Dario - Prima parte

di Alessandro Bassignana

Ogni stagione la scelta per il cacciatore alpino del CATO1 (Valli Pellice, Germanasca e Chisone) è sempre tribolata: capriolo, cervo, camoscio o muflone?
Eh sì, perché il mio Comprensorio Alpino predispone piani di prelievo selettivo per tutti questi ungulati, ed entro luglio ogni cacciatore che voglia praticare quel tipo di caccia deve decidere a quale di questi magnifici selvatici dedicare giornate d’ appassionata ricerca.
Quando cominciai a cacciare in alta montagna, quasi vent’anni fa, subito chiesi l’autorizzazione per il capriolo, in quegli anni frequentissimo e di facile incontro; il folletto rosso lo si cominciava a cacciare a settembre e lo si poteva agevolmente incontrare anche a quote molto elevate. A me piaceva insidiarlo alla cerca, esplorando alpeggi e lariceti come uno scout dell’ottocento, prudente e silenzioso, pronto a cogliere ogni segnale della sua presenza.
Ora di caprioli lassù ne sono rimasti molto pochi, un po’ per le formidabili nevicate del nefasto inverno 2008, ma molto per…l’appetito sempre più robusto di Ezechiele e i suoi fratelli! Sì amici, proprio il lupo, che giunto da noi chissà come e chissà perché (la tesi della migrazione spontanea dall’Appennino è contestata da molti), si è diffuso molto velocemente, divenendo il più efficiente dei cacciatori alpini, con la piccola differenza che per lui la stagione di caccia dura 12 mesi e può…allenare la sua potentissima dentatura anche su greggi e bestiame domestico.
Tornando alle mie scelte venatorie, dopo il capriolo volli provare l’esperienza del camoscio, ma in quegli anni il CA ne concedeva solo uno ogni due, a volte persino ogni tre cacciatori. Lo scelsi per alcune stagioni, senza molta fortuna perché una volta mi capitò di ferirlo senza poterlo poi recuperare e terminai la stagione in bianco, l’altra lo prese il mio compagno, mentre al terzo tentativo la dea bendata finalmente mi baciò, regalandomi una femmina abbattuta dopo una marcia di quasi cinque ore e un rientro…ancor più lungo, gravato dal peso della camozza nello zaino.
Quella faticosissima giornata m’insegnò quanto fosse straordinaria quella caccia, praticata a volte al filo dei tremila metri, tra praterie ripidissime, sfasciumi di granito, neve e ghiacci, seracchi da paura e creste ove ti sembra vi possa essere solo ospitalità per una croce, o la statua d’una Madonna messa lì a proteggere alpinisti e cacciatori.
Il camoscio entrò nel mio cuore, e a parte l’esperienza d’un paio d’anni con il cervo, da allora ha rappresentato la mia scelta venatoria…aurea.
Di quella caccia dunque sono molte le cose che affascinano coloro che la praticano: gli ambienti d’una bellezza che toglie il fiato, gli animali che paiono esseri sovrannaturali, sudore e fatica che accompagnano il cacciatore in un’esperienza sempre diversa, unica, e che talvolta cela rischi mortali anche per l’uomo.
Si comincia a salire prestissimo, con zaino a spalla e carabina a tracolla, talvolta quando è ancora buio e sono le stelle ad indicare il cammino. C’è da respirare a pieni polmoni quell’aria frizzante e lieve, assorbire ogni odore che arriva dai boschi o scende dalle cime, udire ogni rumore della natura che comincia il suo lento risveglio.

spalla
Quando poi il sole fa capolino oltre le creste, dopo averle incendiate dei gialli oro dell’alba, dei rossi e gli arancioni che diluiscono il cielo blu inchiostro della notte, colorandolo come fosse la tavolozza d’un pittore, tu spesso sei già su, puntando le lenti del tuo binocolo verso quelle praterie baciate dalle prime luci, o esplorando canali che tagliano il monte con ferite profonde come le rughe sul volto d’un vecchio alpigiano.
I camosci a volte appaiono subito, lontani centinaia di metri, o magari pure più vicini, ma comunque difficili da raggiungere senza correre il rischio d’essere avvistati. In quei casi iniziano lunghissimi avvicinamenti che fanno di quella, una caccia dal fascino unico, la caccia alpina per antonomasia.
Allo scoperto in conche immense, o seguendo ripide mulattiere, il cacciatore si trova costretto ad aggirare gli animali, cercando di non allarmare i loro sviluppatissimi sensi.
Negli ultimi anni s’è presa la pessima abitudine, ovviamente non da parte di tutti, di sparare loro da distanze iperboliche, di molto superiori a quei 250 metri che un tempo sembravano essere il limite massimo di tiro dettato del buon senso.
A favorire queste prestazioni da “snipers” l’uso di calibri sempre più tesi e potenti, oltre ad ottiche a 24 ingrandimenti, veri e propri telescopi in grado di sostituire lo stesso “lungo”, lo spektive, il cannocchiale da osservazione.
I camosci hanno però imparato a difendersi, regolando la loro distanza di fuga e divenendo molto più diffidenti e prudenti.
E’ una caccia che richiede la perfetta forma fisica, dovendo spesso l’uomo superare dislivelli di mille e oltre metri, magari più volte nella stessa giornata; camminare su terreni infidi con tutta l’attrezzatura che a quelle altezze deve essere completa, nulla lasciando al caso. Un chilo in più, alla fine, può pesare quanto un quintale, e lo sanno bene coloro che affrontano le Alpi con un peso corporeo da lottatore di sumo piuttosto che da fantino!

Continua....

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