Il Cane da Montagna visto da... Gianfranco Grosso
- Scritto da Gianfranco Grosso
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Scrivere il proprio pensiero su come deve essere un setter da montagna è un’impresa apparentemente facile, ma in realtà ardua e rischiosa. Ardua e rischiosa perché si rischia di esprimere delle ovvietà, delle banalità, senza arrivare al nocciolo del problema.
Un setter è un cane da caccia e allora verrebbe normale affermare che un setter deve saper cacciare e deve saper cacciare in stile setter. La montagna è faticosa e allora verrebbe da dire che un setter da montagna debba essere ben strutturato fisicamente e in taglia per poter affrontare le asperità del terreno.
Tutto bene, l’articolo potrebbe finire qui, se non fosse così facile intenderci sulla locuzione “ saper cacciare” e se io non avessi visto dei gatti con la coda da setter tenere in montagna ritmi eccezionali per giornate intere, in barba alla struttura e alla taglia.
E allora vorrei soffermarmi su questi due concetti, che non appartengono necessariamente solo al setter ma che ritengo fondamentali per un qualsiasi cane da caccia: “Il saper cacciare” e “l’avidità finalizzata alla prestazione”, concetti che peraltro interloquiscono.
Quando 50 anni fa mio padre cacciava con i suoi setter il concetto “saper cacciare” non era certo frutto di disquisizioni romantiche, per mio padre sapeva cacciare il setter che alla sera gli aveva fatto sparare più degli altri e non solo casualmente, ma sistematicamente.Quel cane doveva necessariamente cacciare dall’alba al tramonto, con qualsiasi tempo e su qualsiasi terreno, certo in parte facilitato da un’alta presenza e concentrazione di selvatici, ma comunque spinto da quella indomabile forza d’animo che caratterizza il grande cane da carniere. Se qualche dubbio si poteva muovere allora era forse legato alla tipicità di razza, spesso sacrificata in nome della concretezza.
Con l’avvento della cinofilia agonistica nelle prove specialistiche come quelle di montagna, il concetto “saper cacciare” ha forse bisogno di qualche rispolverata se è vero come è vero che non tutti i cani che partecipano a tali prove, pur bravi stilisticamente e ordinati sul terreno come cinofilia vuole, dimostrano di essere dei grandi incontristi, vuoi perché sono drasticamente diminuite le possibilità di cacciare in montagna come una volta, vuoi perché si preferisce troppo spesso dare contezza all’estetica piuttosto che all’utilità di un’azione.
Per me esistono, tra i bravi cani, due tipi di cani da caccia: quelli che per trovare la selvaggina hanno bisogno di un metodo e di un’impostazione sul terreno che spesso gli è data dall’uomo, perché hanno come istinto primario quello di cercare e nel cercare bene trovano meglio; quelli che sul terreno di caccia non hanno bisogno di alcun metodo umanamente insegnato, perché il metodo loro ce l’hanno già in testa, perché nascono predatori con lo scopo unico e primario di trovare ancor prima di cercare. Questi ultimi sono quelli che alla fine della giornata di caccia fanno sempre la differenza, che ti lasciano stupito, che come un bel film o una bella canzone ti lasciano un messaggio da interpretare, una domanda a cui non è mai facile rispondere e, per questo, difficilmente monotoni. Sono i cani che hanno quell’inafferrabile ed incomprensibile “istinto del selvatico” che Giulio Colombo riteneva “qualità non apprendibile in un cane da ferma”. Con questi ultimi cani difficilmente arrivi a valle senza aver provato almeno un’emozione. E quando parlo di un cane che in barba ai nostri metodi e alle nostre elucubrazioni mentali ha l’autonomia di andare sempre sul selvatico non intendo un cane privo di collegamento, ingestibile o fuorimano, parlo di un cane che non perde tempo a disegnare la montagna come i manuali vorrebbero, ma che sulla base del proprio inafferrabile istinto, nonché della propria esperienza e intelligenza venatoria costruitasi sul campo, individua i possibili luoghi in cui potrebbero trovarsi i selvatici e là li trova, li ferma e li tiene sfruttando quella dote che si chiama concretezza, cioè la capacità di trovare nel minor tempo possibile il maggior numero di selvatici presenti sul terreno (dote oggi ancora più apprezzabile).
Per capirli bisogna averne avuto almeno uno, poterlo paragonare in tutte le sue azioni ad altri bravissimi cani, grandi battitori, grandissimi atleti, pennellatori indiscussi della montagna che però, loro malgrado, gli devono cedere il passo nei ricordi, perché cacciare non significa solo correre, solo cercare, ma soprattutto significa intuire, riconoscere, percepire, soffrire ed osare… e solo i numeri in questo campo esprimono verità assolute.
Per questa stessa ragione credo che la struttura fisica di un settersia importantissima per la razza e per la sua selezione, ma non sia direttamente proporzionale alla sua capacità di “stare in campo”, se vogliamo usare un termine calcistico, perché l’avidità finalizzata alla grande prestazione, alla capacità di soffrire, sta nella sua psiche, nel suo cervello.
Secondo me il grande cane da montagna, così come il grande cane da caccia in genere, nasce tale dentro la testa, dove si annidano quelle inspiegabili capacità di interpretare luoghi, di memorizzare esperienze e odori, di equilibrare la grande avidità di cerca con la grande correttezza sul selvatico. Sono profondamente convinto che se vogliamo migliorare la nostra razza setter dobbiamo lavorare su cani profondamente equilibrati, che dimostrino in caccia di saper riflettere, ponderare e, talvolta, anche controllare l’istinto in nome del risultato finale (ma in maniera naturale e non indotta), sempre senza andare mai a discapito della prestazione, dell’avidità, che è la voglia smisurata di selvatico.
Questo lo dico perché una cosa è fare un turno di 20’/30’ minuti su un terreno di montagna e dover dimostrare in quel turno le proprie capacità, talvolta pagando anche lo scotto della eccessiva brillantezza con l’errore fatale, il trascuro piuttosto che lo sfrullo, un’altra cosa è cacciare 9/10 ore in montagna non potendosi permettere di sbagliare per non vanificare un’intera e faticosa giornata dedicata alla ricerca dell’unica brigata presente in loco, magari dovendo risolvere l’emanazione fatidica alle 16 del pomeriggio, con la stanchezza di una giornata di caccia che grava sulle gambe e sull’olfattoe un selvatico pronto a involarsi. Questo è il caso in cui si vede il grande cane, quello che non sbaglia perché ha sempre la testa concentrata e il naso collegato al cervello.