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Il Cane da Montagna visto da.... Piero Frangini

Il Cane da Montagna visto da.... Piero Frangini

Mi sia concessa qualche riga di premessa. Credo che “Meo” Cavaglià abbia sopravvalutato le mie personali competenze in fatto di cani; qualche volta mi ha chiesto pareri che, per il suo bene, spero non abbia preso per buoni. Con una telefonata mi chiese di trattare l’argomento in oggetto; lo faccio a titolo di ringraziamento per la cortesia della sua richiesta, non certo perché ritenga di essere la persona più adatta ed autorevole per l’occasione. Ciò che leggerete è, pertanto, il mio personale modo di vedere; non vuole essere una lezione di cinofilia venatoria, né una regola da seguire. Son già troppi i rampanti che, appena arrivati, danno l’impressione di “saperne una più del libro”!

Per cane da montagna va inteso il soggetto che viene utilizzato, esclusivamente o quasi, in quella caccia che si svolge in quel particolare tipo di ambiente. E’ considerata una caccia specialistica, insieme a quella a beccacce e beccaccini. Di conseguenza godono dell’appellativo di specialisti i soggetti che emergono in quelle forme di caccia. Mi preme precisare che non alla trasmissione generazionale della specializzazione; quindi non condivido l’uso di stalloni o fattrici specializzati quando detto utilizzo sia praticato con la convinzione di ottenere prodotti facilmente specializzabili.

Intendiamoci bene: i cani che si rendono utili oltre la media nelle cacce specialistiche sono bravi.
Uso questo termine semplice e conciso per indicare soggetti che sono in possesso di tutte quelle doti che un cane deve possedere: passione, vigore, fondo fisico, senza i quali la passione non riesce a dare risultati pratici, capacità di usare a dovere la potenza olfattiva e intelligenza.
Alla luce di questo è chiaro che usare in allevamento i cani specialisti non è deleterio, anzi, soggetti con le caratteristiche suddette danno una certa garanzia di produrre cani con ottime basi genetiche, ma la specializzazione si ottiene con il costante utilizzo in attività venatoria specifica, sotto la guida di qualcuno che quella caccia conosce a fondo e sperando in una buona dose di predisposizione individuale.
Insomma: se tenessimo un cucciolone, figlio di specialisti, in un box, con qualche uscita in campi di medica, c’è da credere che non darà buoni  risultati appena condotto in montagna a cotorni, o nel bosco a beccacce. Se funzionasse la ricetta il mondo sarebbe pieno di specialisti.

Veniamo al punto, le caratteristiche del cane da montagna si possono sintetizzare in due parole: autonomia e metodo.
In questa coppia di componenti è assai difficile trovare il perfetto equilibrio; spesso l’autonomia sconfina nell’indipendenza con conseguente mancanza di metodo.
Non posso fare a meno di menzionare l’azzeccata definizione che Adelchi Bortot ha dato del metodo: è ciò che permette ad un cane di andare dove voi vorreste che andasse, senza la necessità di mandarcelo. Vi par poco?
Quanto sopra sottintende ragionata autonomia, coscienza del collegamento, raziocinio che permette al cane scelte continue, coordinate e pratiche. In montagna, e non solo lassù, non si può pretendere un metodo standard; ogni cane, forte del suo bagaglio di esperienze individuali, usa il suo metodo.
L’importante è il risultato finale del faticoso lavoro: aver esplorato il terreno a disposizione in modo tale da non lasciare nulla d’intentato per l’eventuale reperimento della selvaggina.
Capita di lasciarsi impressionare da certe prestazioni più spettacolari che utili, in special modo durante i tempi relativamente brevi di un turno di prova.  E’ un errore di valutazione che dovremmo evitare, tenendo presente la finalità di prove specialistiche: verificare la validità di cani che sono stati e saranno utilizzati in prove di caccia cacciata.
Sfoggiare un’andatura oltremodo spinta per poi crollare sotto il limite dopo dieci minuti, non è un bel biglietto da visita, sia dal punto di vista fisico che da quello mentale.
Un cane veramente forgiato in giornate di caccia, anche se allenato in tempi molto più ristretti, non dovrebbe abbandonarsi a scorribande….ad alta velocità, poiché memore delle lunghe fatiche.
Questo ed altri comportamenti fanno parte di ciò che prima ho definito intelligenza.
Mantenendo il discorso nell’ambito delle prove mi sembra giusto, invece, usare una certa tolleranza riguardo qualche “esagerazione”. Una cosa è sviluppare un’andatura alla lunga insostenibile e un’altra cosa è allargare, per avida volontà, l’esplorazione oltre il normale limite.
Qualche minuto di attesa, se pesa nell’economia di un turno, è ben sopportato, se non addirittura gradito, nell’arco della giornata di caccia. E della caccia, noi, non dobbiamo mai perdere memoria.

A questo punto vorrei toccare un altro argomento, piuttosto dolente: si tratta del comportamento di certi conduttori durante i turni delle prove in alta montagna.
Sono convinto che nessuno, o quasi nessuno, di loro vada a caccia con lo stesso sistema che usa in prova. Non ce la potrebbe fare. Fisicamente, intendo.
Vale anche qui il discorso fatto prima, circa le andature dei cani: dovrebbero essere ragionevoli.
C’è inoltre, la tendenza a puntare in avanti a passo di carica, quasi sempre con l’intento di ovviare al brutto vizio che molti cani hanno, di fare altrettanto.
Sembra logico che un cane bravo debba esplorare quelle porzioni di terreno utili che incontra sul suo percorso, che possono essere a valle o monte, non obbligatoriamente davanti. Sostare quelche tempo per seguire il lavoro di un cane che autonomamente batte una zona valida sopra e sotto di noi e, finito il compito, vederlo rientrare puntuale per scegliere un altro terreno, mi sembra sia una delle migliori dimostrazioni di intelligenza venatoria. Di tutti e due. Ma si vede un po’ troppo di rado.

Già stavate pensando che mi fossi dimenticato dello stile.
Brutalmente potrei affermare, forse anche condiviso da qualche altro, che lo stile, nel concetto di cacce faticose, potrebbe essere considerato superfluo.
Non è così, se il cane stilista è corredato da tutto il resto necessario. Intanto precisiamo che in questa particolare attività venatoria non va ricercato il pelo nell’uovo, bensì verificato il bagaglio di tipicità di razza, che serve a facilitare e migliorare il rendimento.
Un setter ben costruito e proporzionato svilupperà un galoppo fluido, composto, poco dispersivo in fatto di energie, dando quindi buone garanzie in fatto di durata in condizione avverse.
Gli atteggiamenti a contatto di emanazioni, sia che portino o no all’incontro, sono segno di distinzione, ma anche di sicurezza e concentrazione. Il manovale che ad ogni effluvio incontrato si mette a scodare, agitandosi tutto, non fornisce indicazioni utili a chi deve interpretare le sue mosse.
L’andare in ferma e guidare fino alla partenza del selvatico è manovra delicata e complessa; ne va del risultato finale e gli errori si pagano cari.
La prudenza, la sicura consapevole prudenza e gli atteggiamenti felini facilitano il disbrigo di manovre complicate, lasciando interdetto il perseguitato, che più facilmente si fa avvicinare.
Ma basta così! Penso di aver detto anche troppo e forse a sproposito, ma è quello che penso e dato che sarà ben difficile vedermi ancora in giuria, in prove in alta montagna, prendete il tutto come un condensato di convinzioni maturate in qualche decennio di scarpinate dietro ai cani da montagna…e anche dietro a quelli reputati tali!


 

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