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Cesare e Gino

Erano le quattro e mezza del mattino di un novembre freddo e piovoso, Cesare, operaio pensionato ormai da quindici lunghi anni, era lì, nel letto accanto alla moglie. Non riusciva a dormire, i dolori causati dall’artrite l’avevano accompagnato per tutta la notte, senza sosta, martellanti, a cadenza perfetta come il rumore che produceva l’orologio a pendolo di cucina. Perfino la dentiera gli dava fastidio, eppure per meglio abituarsi a questo apparecchio proprio il dentista gli aveva consigliato di portarla anche a letto! Nei giorni passati Cesare aveva sofferto per riuscire a mangiare, colpevole l’aggeggio infernale nella sua bocca, non riusciva più neanche a fischiare, si, come fischiava una volta per chiamare Argo, quando andava a caccia, nel bosco. Proprio questo impedimento, questo non riuscire a compiere un gesto così banale, gli portò alla mente le passate uscite di caccia e da quell’ istante un turbinio di ricordi invasero la sua mente, ricordi meravigliosi, di anni passati, in novembre, col freddo e la pioggerellina fitta e lieve. Ricordava in quegli istanti l’amico Gino, compagno inseparabile di battute di caccia alla Beccaccia, oramai passato a miglior vita da diversi anni, vedeva perfettamente la figura di quell’uomo vestito con la stessa, sempre la stessa cacciatora maremmana di pilor marrone chiaro, sdrucita e vecchia ma talmente piena di ricordi da farne un cimelio da museo, Cesare la conservava nel suo armadio come una reliquia di un santo, gli era stata donata dalla moglie dell’amico scomparso qualche giorno dopo la morte. In particolare ricordava un giorno di novembre del 1971, non tanto per il notevole carniere ma per come si svolse, all’epoca, l’intera giornata. Gino e Cesare si davano sempre appuntamento al cimitero, si, al cimitero di Colognole, un paesino arroccato sulle colline livornesi e da lì, dopo aver parcheggiato le loro rispettive fuoriserie, una Renault 4 ed una Citroen Diane 6, si incamminavano con i loro cani e gli schioppi a spalla verso la carbonaia, per esattezza il famoso “Carbonaione”, così era chiamata la zona da tutti i cacciatori livornesi che la frequentavano; era una pineta grandissima invasa e circondata da sottobosco di stipa e ginepri, lecci e marruche, a tratti pianeggiante e ricca di marcite e carbonaie dove sopra nasceva solamente muschio ed erbetta verde e fina, così amate dalle Regine come rimessa dopo il pranzo notturno. Quella mattina di novembre, nonostante la pioggia, era un giorno particolarmente importante, Gino utilizzava per la prima volta un nuovo fucile, una doppietta ricevuta in dono, a scambio di alcuni favori, da un vecchio conte francese di stazza a Livorno e tornato in patria per terminare i suoi giorni di vita terrena là dove era nato, aveva il calcio all’inglese di noce scuro, di calibro venti, quel che più la impreziosiva erano le batterie, le famose Holland & Holland, le canne di 71 tre stelle ed una stella per la seconda, un po’ troppo strinte commentava Cesare! Vedrai che padelle!!. Anche Gino era consapevole che il fucile, se pur prezioso, non era adatto per la caccia nel bosco, ma tanta era la voglia di portarlo con sé che non si curava minimamente delle eventuali brutte sorprese che potevano esserci al momento del tiro. Cesare tuttavia, aveva pensato giorni addietro di preparare all’amico una decina di cartucce “dispersive”, così le chiamava, riportavano sopra la borra Purgotti in feltro grassato, in mezzo alla carica di pallini, una croce di plastica tagliata a misura adeguata utilizzando una guarnizione per infissi in alluminio, Cesare aveva letto sulla rivista Diana un articolo di Giannetto Corsi che parlava di questo tipo di caricamento per aumentare il diametro della rosata, le aveva provate il giorno prima nell’orto su di un pezzo di cartone ed erano risultate veramente eccellenti, era orgoglioso delle sue creazioni come lo era del resto di tutto quello che possedeva, un orgoglio importante visto che ogni cosa gli era costata e gli costava sudore e fatica. Gino armò il nuovo schioppo con le cartucce dell’amico, soddisfatto del pensiero che aveva avuto per lui e si avviarono giù per il viottolo che portava alla piazza dei ginepri, il luogo ideale per fare l “aspetto”. Era una pratica, quella della posta mattutina alla Beccaccia, vietata ma molto diffusa ed anche la polizia provinciale non vi faceva caso più di tanto, lasciando correre. L’”aspetto” era importante per i cacciatori con il cane da penna, non tanto per incarnierare più selvaggina, quanto per capire e comprendere se la mattinata poteva essere proficua di incontri oppure magra, lo si giudicava dal numero di schioppettate che, rimbombanti, giungevano alle orecchie anche dai monti vicini. Mentre camminavano, ancora nel buio, Argo, sempre legato al guinzaglio di Cesare, si fermò di schianto! Statuario e irrigidito non voleva proseguire, i due si accorsero poi che davanti a loro, proprio nella pozzanghera piena di morbida fanghiglia mista a sterco, resa tale dal passaggio dei muli che portavano la legna verso il paese, una Beccaccia stava ancora sbeciando tranquilla, disturbata dall’arrivo dei cacciatori volò via veloce e scomparve immediatamente nelle ombre del bosco. Gino commentò, dopo una grassa risata visto lo strattone che il cane aveva dato a Cesare all’involo dell’animale, tanto ti ritrovo “beccona !”, e rivolgendosi alla sua cagna, setter come Argo, vero Diana !! diglielo anche tu che la ritroviamo! Nella piazza dei ginepri stettero tutti e due fianco a fianco ed iniziarono a scrutare il cielo in direzione del mare, i cani, sempre legati, facevano lo stesso, guardavano per aria con le orecchie dritte, anche loro sapevano che a breve sarebbe passata e che, forse, potevano fare un bel riporto. Cesare non caricò il suo automatico, gli interessava più osservare come si sarebbe comportato il fucile dell’amico, la doppietta del Conte, armata con le sue munizioni. Il pettirosso canta, tre secondi, tre, la Regina del bosco passa davanti ai due mostrandosi in penombra con ali di farfalla, cercava il suo posto, sempre lo stesso, ogni anno. Gino la incannò, Cesare attese il colpo, lo stesso i cani, lo sparo non arrivò,” Gino!! Dormi??, no Cesare, rispose tranquillo, siamo soli stamani, non c’è anima viva in tutto il carbonaione, meglio divertirci coi cani, questa era troppo facile! Meno male Gino, pensavo che la cartuccia avesse fatto cilecca!” Passarono ancora tre quarti d’ora, le fucilate nelle zone limitrofe erano state abbondanti e tutto faceva presagire al meglio, appena il giorno e la luce si fecero sufficienti, armarono di campanelli i due setter e diedero il via alle danze. Affiatati come i loro padroni i due cani perlustravano il bosco senza tralasciare alcun che, con metodica esperienza e conoscenza evidente della zona. Diana rimase subito ferma nei pressi del vecchio capanno ai tordi, abbandonato da diversi anni, non era la prima volta che la Regina apprezzava quel luogo, anzi, era diventata una rimessa certa, Argo di consenso rispettò le fortune altrui, i due cacciatori si posizionarono rispettivamente sul cane e cinquanta metri più a valle, la ferma continuò per almeno un minuto ed il cuore di Cesare avrebbe voluto abbandonare la sua sede, tra le costole, per uscire a prendere una boccata d’aria, ma una botta secca mise pace agli animi, ancor di più la tranquillità per Cesare fù data dalle parole porta ! porta ! che Gino insistentemente pronunciava rivolgendosi ai cani. Gli amici si riunirono, doverosa stretta di mano e continuarono, camminando i commenti furono di rito: “che fucile ho!” esclamò Gino fiero della buona prestazione, e Cesare a ruota: “puoi ringraziare le mie dispersive altrimenti col cavolo che la facevi tua!”. Ridevano e, appagati dal buon inizio e dalla tanta passione, continuarono sprezzanti del freddo e dell’umido come fossero due ragazzini in cerca di pischelle, era proprio in quei momenti che la mente riusciva a liberarsi da tutti i problemi che solitamente ogni giorno si presentavano puntuali come orologi svizzeri. I campani avevano un suono differente quella mattina, nella valle umida e nebbiosa, un armonia che si interruppe nuovamente ai margini del piccolo fiume che attraversava il carbonaione. Si portarono verso destra, l’alba aveva lasciato il posto ad un fievole solicchio annacquato, debole, ma si faceva sentire, l’odore inebriante di ginepro e mirto, miscelato sapientemente con quello del pino marittimo eleggevano madre natura ancora una volta a miglior cuoca del mondo. Questa volta fu Argo a tenere fermo il suo bubbolo, Cesare non riusciva a vederlo ma si ricordava bene dove lo aveva udito l’ultima volta, fece cenno a Gino per il giusto piazzamento e si addentrò nella folta macchia cercando di far meno rumore possibile, quasi in ginocchio, bagnato fradicio lui ed il fucile, scorse a venti metri il cane seduto, immobile, con le labbra scoppiettanti, si avvicinò ancora , riuscì a vedere gli occhi del cane spalancati e vivi rivolti verso la Beccaccia che se ne stava tranquilla posata a tre metri proprio davanti. Cesare si inginocchiò, questa volta sul serio, non ce la faceva più a stare chinoni, se almeno potesse vedere anche Gino, pensava dentro di sé! Uno spettacolo indimenticabile. Si preparò al tiro, Argo rivolse lo sguardo verso il padrone accertandosi della sua presenza, fece volare la Regina che sbattè le ali tra le schioppettanti frasche di stipa, il cacciatore la bloccò con un colpo ed in meno di due secondi il cane fu già ai suoi piedi mendicando la saporita crosta di parmigiano, premio dovuto ad ogni riporto. Il compagno accorse per informarsi subito su come si era evoluta la scena, si strinsero nuovamente la mano e continuarono. Fino a sera, con una sosta di mezz’ora per consumare un cantuccio di pane toscano con la coppa di cinghiale regalata dall’amico “Soffio”, seduti sul tronco di un pino addormentato dall’ultima libecciata, un sorso di vino rosso rigorosamente 13 gradi, unico nel suo genere per togliere i brividi di freddo dalla schiena sudata. Sei furono le Beccacce prelevate, ognuna di loro consacrò sempre più l’amicizia tra i due. Una voce ed un colpo di luce improvviso riportarono Cesare tra i comuni mortali, svegliati dormiglione!! Urlò la moglie che già aveva fatto colazione. Quanto vuoi stare a letto ancora!! Continuava noiosa la donna tormentando senza sosta l’uomo che aveva rivissuto per qualche ora uno dei giorni più belli della sua vita. Cesare si alzò dal letto, traballante, come si fa con uno zaino pesante si sistemò i suoi ottant’anni sul groppone, si affacciò alla finestra, diede uno sguardo verso il bosco respirando quell’aria simile a quella dei ricordi appena passati, cercava Argo in giardino pur sapendo che non lo avrebbe veduto, pensò a Gino e, con tranquillità, certo di tornare nuovamente a caccia con l’amico, attese il prossimo appuntamento al cimitero.
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