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E' nato un cacciatore

Il fodero del colore d’un frutto antica della Persia ammanta, a proteggerlo d’inattese collisioni, l’eburneo strumento a "fiato" pronto a scandire decise note ed impressionar il loggione.
Sul canterano, ben compatte e selezionate, schierate vicine come una Legione Romana, scalpitano le cartucce; armenti impazienti di sortir dal procoio e, libere, pascere l’erba fresca colma di rugiada sottile e verde speranza.
I calzari, morbidi scarponi con la tomaia di cuoio ed il carrarmato di pregiato intaglio, giacciono a lato della cassapanca, ingrassati e lucidati come dovessi attraversar l’Egeo e partire, vento in poppa, verso la città d’Alessandro per punire il suo sconsiderato ratto ed assediare d’Ilio le genti.
E’ presto, son sveglio ancor prima che l’alba ponga le sue lunghe ed affusolate dita di pianista sulle cuspidi canute delle giogaie cui dimorano l’eterne nevi; immobili sorelle perpetuamente sdraiate a serbare, con occhio irreprensibile, il moto di quel volgo che sogliono proteggere con la loro presenza dallo zefiro spietato che spira dalla prima notte di un tempo così remoto d’averne, da secoli, perso rimembranza.
M’affliggo nel giaciglio come fossi soggetto all’anatema posto da Poseidone a gravar sul più feroce dei suoi sudditi, quel cane infedele che, per mancanza di rispetto e ferina condotta, è costretto, dalla schiusa al trapasso, a vagare senza sosta per le immense acque del Creato; un dannato famelico senza riposo né tregua.
Nel cubicolo, insofferente alla mortale logica e al divino richiamo del padrone del sonno, irresponsabile nella mia giovane condotta, con le cateratte spalancate ad emular l’Empireo nel tempo dell’Universale diluvio, attendo, iracondo per timore del fio, lo squillo della sveglia; per me il lamento d’un corno da guerra che, riecheggiando nelle mie tube come nella più frastagliata e magnifica gola resa smeraldina da serie conifere imperturbabili, incendi il mio essere ed annunci l’inizio di questa mia prima Campagna.
La bocca è asciutta come mi fossi addentrato nella divulgazione di salmodiali litanie e provo un’irrefrenabile bisogno di scansare il leggero copriletto ed alzarmi a sfregio dell’allarme ma, resto per darmi un po’ di contegno e non destare i miei fratelli c’ancora trovano ristoro sotto il mantello di questa cheta notte Selenica.
Nelle mie froge, pian piano all’inizio e decisamente pochi istanti appresso, prende corpo un profumo antico; un ricordo completo d’estrema giovinezza riemerge di botto come un tappo di sughero gettato sbadatamente o con sconsiderata incuranza in uno stagno o laghetto altrui.
L’effluvio di quella patina bianca che adorna, inaspettata ed indesiderata, le pareti delle cantine e dei borghi costruiti con vermigli mattoni cangia nell’aroma inconfondibile della più nobile delle polveri, sita nella scala dei valori di un cacciatore.
Rammento in un momento l’odore acre che fluttuava nell’aria dopo ogni bordata esplosa; quell’impalpabile scia di bruma scura che, istantaneamente, effimera appannava la visuale dello sparatore, usta sottile che indirizza verso il selvatico.
Inconsciamente volgo, uncinate, le prime tre dita della mano destra verso le narici espanse, attente a saziarsi avidamente di quel rivolo fumoso che serba ogni bossolo brillato.
Nel cassetto del mio comodino ancor serbo, accanto ad una manciata di soldatini di stagno, quei feticci di cartone pressato ed istoriato o scheletri di plastica variopinta dall’ottone ossidato e ammantato d’infiorescenze ramate che rappresentano un bel tiro del mio maestro o la conclusione ad una azione palpitante ed adrenalinica.
Rievoco, pedissequamente, l’immagine di un bimbo attento all’occupar la posizione e a stare bene attento a non fare rumore per non svelare involontariamente l’intenzione del cane e del padrone.
Con lo sguardo leggero d’un infante, ripercorro di gran passo le mille vie tracciate tra l’erba medica e la stoppia per recuperar veloce quei canterini fagiani  che s’alzano fulminei e sfrecciano iracondi come strali del Dio che ha cara l’ospitalità.
Corse leggere e spensierate con partenze da centometrista per arrivare prima di Argo, fedele e parco amico a quattro zampe, instancabile frullatore d’incolti e distruttore di spinai e roveti, che, alla mia presenza restava impassibile, seduto a fissare il suo padrone ed ogni impercettibile cenno del capo atto a trasmettergli un comando che solo loro comprendevano.
Sento ancora le soffici piume di quei nobili uccelli accarezzarmi le minute mani quasi provocandomi il solletico; le piccola dita levigavano il velluto purpureo che copriva la pelle ed il cuore si riempiva di una gioia inspiegabile ed improvvisa come un ululato in una notte senza luna.
La voglia d’alzarmi era soverchiante rispetto ad ogni altro mio desiderio e, nonostante convinzione e sforzi, stavo per soccombere alla sua coercizione. Non so da quanto tempo fossi sveglio né se avessi mai preso sonno ed ero furibondo perché non volevo trovarmi stanco proprio per il mio debutto.
Sudavo come ogni costretto a fare ciò che non vuole, mi scoprii con uno scatto ma restai sdraiato stringendo i denti e ponendomi su un fianco. Lunghi minuti scanditi da tracciati di lancette opprimevano il mio travaglio antelucano. Lo strido di una civetta ghermì la notte che scemava lenta come sabbia in una clessidra, m’assisi d’impeto e protesi l’orecchio verso l’esterno.
Una fioca luce irruppe da sotto la porta chiusa della mia camera da letto e i passi di mio padre le davano vigore come tamburi da guerra a rincuorare i fanti. Sorrisi di gioia nel mentre s’apriva l’uscio e la figura del mio eroe si intagliava contro una luce non vera.
Guardò nella mia direzione, sorrise, reclinò di scatto il capo per accennarmi di seguirlo e, mentre scattavo in piedi e lui usciva dalla linea dello stipite, disse: " Stanotte è nato un cacciatore!"
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