Menu
RSS

facebooktwitteryoutubehuntingbook

I Gaher di Gabes

Tutti noi, quando osserviamo una fotografia, focalizziamo il nostro sguardo sul soggetto in primo piano facendo commenti sui colori, sulla nitidezza dell’immagine e sul luogo in cui e’ stato immortalato il fotogramma, beh oggi voglio raccontarvi una storia, la mia storia che inizia nella città costiera di Gabes.
Agli inizi degli anni 60 in pieno boom economico, diverse aziende italiane in forte espansione assumevano giovani lavoratori per inviarli nell’Africa Nord-Orientale per la costruzione e manutenzione di gasdotti.
Abbagliati da prospettive economiche vantaggiose, ben mille lire in più al mese (indennità di trasferta), molti giovanotti provenienti dal Nord-Est italiano partivano per questa avventura.
La sede del lavoro era a Baguel, località situata a Nord-Ovest della Tunisia dove si trovavano i maggiori impianti di estrazione di gas della regione.
La trasferta durava all’incirca dai quattro ai sei mesi e le condizioni di lavoro si presentavano dure e molto rischiose, infatti, si lavorava a temperature medie giornaliere di trentacinque - quaranta gradi centigradi con un tasso di umidità elevatissimo, e per il turno di notte le temperature toccavano i meno quattro gradi centigradi.
Il rischio maggiore era dato dall’instabilità del gas che fuoriusciva dal sottosuolo con una pressione fortissima convogliandolo in tubi rudimentali che si allacciavano alla condotta maestra.
Spesso però, alcuni fortunati erano scelti per andare nella piccola Gabes, località costiera della Tunisia situata nella parte Sud Orientale del paese, chiamata dagli abitanti del luogo "Syrtis Minor" (Piccola Sirte), qui si facevano operazioni di ispezione e manutenzione al gasdotto che costeggiava la linea Libico-Tunisina.
Gabes era una piccola località, abitata per lo più da pescatori, le sue abitazioni rudimentali si affacciavano sulla costa del Mar Mediterraneo e le piccole imbarcazioni colorate, navigavano a pochi metri dalla costa, gettando e recuperando reti logore e sdrucite, accompagnati dai versi incessanti dei gabbiani che veleggiando sopra le imbarcazioni dei pescatori, reclamavano piccoli pesci.
Qui, cosa strana e assurda mi sentivo a casa, io figlio di cacciatori da generazioni avevo dinanzi agli occhi il più grande spettacolo che la natura possa offrire a un seguace di Diana; immense distese di sabbia e acqua salmastra che formano piccoli ristagni alti poco più di dieci centimetri, con il caratteristico odore di palude, quell’odore che nasce dalla salsedine che decompone le alghe portate dal mare.
Qui si potevano trovare tutti i tipi di trampolieri: Beccaccini, Frullini, Pivieri di ogni specie, Pavoncelle e tanti altri, che tranquillamente e senza alcun timore verso l’uomo immergevano il loro lungo becco nel limaccio alla ricerca di piccoli molluschi e invertebrati, sarei rimasto per ore a osservare il tipico movimento a ciondolo della loro testa e i fischi emessi dalla loro voce, fantasticando su come avrei potuto cacciarli se si fossero trovati in zone adibite alla caccia.
Riuscivo a camminare a pochi metri da loro, avanzando lentamente tra la sabbia polverosa, con passo cauto, come fossi un felino che dinanzi vede la sua preda, per le mani non tenevo la vecchia doppietta Saint-Etienne lasciatami da mio zio Piero, ma i palmi li stringevo e li muovevo come se l’avessi avuta.
Ero talmente rapito dall’estasi di quel momento che avevo la sensazione di camminare nelle marcite della mia pianura, sentivo il freddo dell’acqua che solcava gli stivali, il rumore dei rivoli che scolano nel canale principale e riuscivo a sentire i passi del mio setter inglese che con la tipica andatura del galoppo provocava quel rumore sordo delle zampe nell’acqua; tutto ciò era pazzesco, mi trovavo in un ambiente a migliaia di chilometri da casa mia totalmente diverso, ma era come se avessi oltrepassato un porta del tempo, quella porta che albergava nella mia mente e che mi legava alle mie radici grazie all’Ars Venandi o ad un semplice Scolopacide.
All’imbrunire, quando anche le onde del mare sulla battigia rallentavano il loro impeto, si assisteva al rientro delle anatre, mi sedevo su una duna di sabbia in riva al mare, possibilmente ne cercavo una con delle sterpaglie secche per potermi mimetizzare e per non disturbare il volo di rientro dei migratori.
Si scorgevano all’orizzonte gruppi di Mestoloni, con le loro sagome nere e  tozze , Germani reali con il loro tipico collo allungato e la classica formazione in volo a V, Morette Tabaccate e Moriglioni che spesso volavano in gruppi misti radenti il mare; la panacea per la mia stanchezza arrivava quando all’orizzonte scorgevo delle piccole sagome, eleganti, filiformi e velocissime, arrivano le mie alzavole o come si dice dalle mie parti, arrivano i "ghaer". (ghaer : alzavola in dialetto bresciano).
Piccoli gruppi formati da tre o quattro individui spiegano le ali al vento che arriva dal mare verso la costa, il sole cala lentamente all’orizzonte lasciando il cielo terso di arancio e rosso fuoco, la striscia di mare illuminata dal riflesso del tramonto funziona da pista di atterraggio per questi nobili palmipedi, la loro eleganza in volo e il sibilo delle ali che provoca rumori metallici sembrano una sinfonia di Mozart, eccole stanno arrivando, il crepuscolo della sera non rende omaggio al loro piumaggio colorato, la banda verde sull’occhio e le striature bianche sulle ali non si distinguono bene ma non importa, mi basta vederle che virano sopra la mia testa, spiegano le ali e incominciano a scendere formando semicerchi fino a quando con leggiadria poggiano sugli acquitrini della terra ferma.
I ghaer, i miei ghaer che tanto mi hanno fatto palpitare a caccia, le storie di zio Piero su questi uccelli affiorano in un istante alla mia memoria, l’infinito rispetto che provo per loro va in contraddizione su ciò che faccio quando imbraccio la mia doppietta, ringrazio chi mi ha trasmesso passione per la caccia, per l’ambiente e per saper apprezzare il semplice volo di un anatide sul mare, per saper emozionarmi guardando la sagoma di un palmipede che plana su una distesa di acqua alla fine di una giornata di lavoro dura e faticosa.
Mi alzo lentamente dalla duna di sabbia e m’incammino verso l’acquitrino dove si sono posate le alzavole, cerco la loro sagoma con lo sguardo ma non le vedo, sono sempre più vicino a loro e come sempre la gola palpita e il respiro si fa più affannoso, improvvisamente si sente un forte rumore d’ali che sbatte sull’acqua, mi giro e le vedo già lontane che imboccano lo specchio del mare volando radenti le onde quasi a voler sfuggire alla mia vista, lontane come lo sono io da casa mia, dai miei affetti più cari e dai miei luoghi abituali. 
Domani dopo una notte di volo estenuante, planeranno in qualche ansa di fiume dell’Italia settentrionale, scendendo silenziose ed eleganti tra la nebbia e l’aria fredda della pianura, sfruttando le correnti di tramontana che fanno cadere le ultime foglie ingiallite dei pioppeti, adagiandole sull’acqua come si conviene alle principesse quando si gettano petali prima del loro passaggio.
Ora che avete solcato mari, spiagge e terre a voi sconosciute portate la mia storia sino ai confini del cielo con il suo carico di emozioni, colori e ricordi e se vi capita di scorgere una sagoma di un vecchio brontolone con una pipa fumante, ditegli che siete i "ghaer" di Gabes, lui capirà; con un gesto lento toglierà la pipa dalla bocca, rimetterà la sua doppietta Saint-Etienne a spalla abbozzando un piccolo sorriso, perché voi siete le alzavole che hanno fatto sentire a casa suo nipote e se non chiedo troppo fate sentire il rumore metallico delle vostre ali che fendono il vento, per lui sarà come dirigere una sinfonia di Mozart portando con sé un piccolo ricordo di casa nell’infinito suo vagare.
Altro in questa categoria: « Cesare e Gino La cagnara e il silenzio »
Torna su

Normative

Ambiente

Enogastronomia

Attrezzatura