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Un vecchio camoscio, un'aquila e i miei vent'anni...

Prima parte…(L’incontro!)
Tutti i miei coetanei, in quell’estate dei miei vent’anni, avevano programmato incredibili vacanze (viaggi esotici, luoghi "leggendariamente" mitici, mete mozzafiato): c’era chi finiva nelle arroganti e libertine coste spagnole, chi fuggiva in qualche zona remota e misteriosa del tanto decantato continente americano, chi pregustava l’acqua limpida e cristallina delle calde isole equatoriali, altri ancora che si preparavano per una spedizione nel selvaggio e incontaminato Tibet, uno andò perfino a finire all’estremità del mondo, nei gelidi e spettacolari paesi nordici. Per me la stagione più calda, nell’età più bella, fu totalmente diversa; il tutto fu segnato da un semplice e furtivo incontro. Uno scambio di sguardi frontale che finì per condizionare, in molti giorni futuri, il mio stato d’animo e mentale per diversi mesi. Erano i primi di giugno quando, dopo esserci ritrovati alla sera, mio zio ed io decidemmo di fare un’uscita in montagna. Gli scopi della giornata erano molteplici: quello di trascorrere del tempo assieme, immersi nella pace dell’alta quota, di iniziare a spolverare quelle gambe non più abituate a camminate lunghe ed estenuanti in territori ripidi e talvolta avversi, ma
soprattutto quello di scovare e spiare quei selvatici che tanto ci attraevano e che diverse volte ci avevano fatto emozionare entrambi. Il luogo prescelto era la "Valle dei Principi": ambiente caratterizzato da fitti e variopinti boschi di larici e abeti alternati a vasti e sinuosi pascoli che, via via salendo, si dissolvono in un’ampia conca delimitata in alto da ripide pareti rocciose, interrotte però qua e là, da canali e fossati coperti di ontano e pino mugo che consentono una sicura scalata verso l’altopiano sovrastante. A fare da spartiacque tra l’area boschiva e la pietrosa e inospitale conca vi è una  piana; una zona piena di larici deformi e di cespugli di cirmoli che, trovandosi al limite della vegetazione, trascorrono una povera vita. Il paradisiaco e selvaggio luogo pianeggiante ospita un idilliaco lago verde e una grande baita, ancora in discrete condizioni, che un tempo era la dimora estiva di rudi e solitari pastori. Fu proprio lì che quel giorno, dopo essermi seduto su un masso insieme a mio zio, avvenne la folgorazione. Più volte in seguito mi chiesi perché, fra l’immensità delle cose, i miei occhi guardarono proprio lì? In quel punto preciso all’ombra di uno scuro cirmolo comparve il Camoscio, immobile rivolto a me, suo nemico che forse non vide, ma sentì nel sangue sconvolto da terrore atavico. Stranamente in quell’attimo ebbi il cuore calmo, insensibilmente mi stesi sulla roccia, presi il lungo e lo appoggiai a un gradino foderato di lichene cercando di piazzare le possenti lenti sul tanto amato bovide situato a non più di duecento metri da me. Quando finalmente le limpide lenti, dotate di forti ingrandimenti, mi trasmisero l’immagine nitida dell’animale, tutta quell’innaturale calma, che stranamente aveva caratterizzato gli attimi precedenti, scomparve e lasciò il posto a un’enorme emozione. Davanti a me vi era il più grosso
camoscio che avessi mai visto sulle mie fantastiche montagne e che niente, neanche lontanamente, aveva a che vedere con quelli visti abbattere da altri miei amici cacciatori fino ad ora: un trofeo imponente, estremamente alto e con un’apertura che avrebbe smosso il più esperto e vissuto animo di ogni vecchio cacciatore.
Seconda parte…(L’ossessione!)
Da quel momento il camoscio divenne la mia inseparabile ossessione, tanto che gli assegnai perfino un nome:"Charlie". Quasi ogni giorno, al mattino presto prima di andare al lavoro o alla sera tardi dopo aver finito, m’inerpicavo per quei mille metri di dislivello che separavano il rumoroso e caotico paese montano, al culmine dell’affluenza turistica, da quel fantastico Paradiso che, per me, non poteva essere definito in altri modi che il "Regno di Charlie". Ogni volta, arrivato in cima a quell’erto sentiero che sbucava sulla piana, come un monumento storico lui era lì ad attendermi;
benché avvertisse il mio arrivo già con largo anticipo, la mia presenza non gli arrecava alcun timore anzi, impettito e regale, il Camoscio sembrava sfidarmi. Ma durante le brevi ore trascorse sull’altipiano, dopo le veloci e stancanti ascese, il "Re" non era mai solo e non era nemmeno l’unico protagonista della mia permanenza lassù. Assieme a lui vi era, sempre, anche la "Regina": una vecchia e maestosa aquila, ricoperta da un piumaggio marrone lucente e dotata di apertura alare che andava ben oltre i due metri di larghezza. I due erano inseparabili, tant’è che passarono giorni in cui mi divertivo, dopo aver visto uno dei due, a cercare l’altro che, sovente, si trovava a breve distanza dal primo. Un mattino dopo essere arrivato nella fatidica zona, situata oltre i duemila metri d’altezza, ancora con l’oscurità, mi accadde un fatto che difficilmente dimenticherò. Attendendo l’alba ero intento a fare una piccola colazione quando, con l’arrivo delle primi luci, vidi la "Regina" appollaiata su un larice secco, a non più di trecento metri da me, che si stagliava contro il cielo. Presi il lungo e restai un bel momento estasiato ad ammirarne la bellezza poi, ad occhio nudo, vidi a non più di trenta metri da lei, sopra un blocco di pietra piatto, dei lievi movimenti. Inquadrai con il lungo il blocco di pietra e, emozionato, constatai che era "Charlie": disteso come un re sul suo trono, assaporava le prime luci del mattino e mostrava a tutto il regno quel suo smisurato e autorevole trofeo. Mi dissi:"ecco sulle loro sedie regali i sovrani della Valle dei principi"! Questo fu l’inizio della mia estate da ventenne, non vi era settimana che non salissi almeno tre volte a vedere il "mio Charlie" e la sua "Regina", mi capitava molto spesso di incontrarlo a distanze ridotte, tant’è che una volta mi avvicinai ben sotto i cento metri e questo mi permise, oltre che di ammirarlo
ulteriormente, di apprezzarne il grande accumulo di anelli annuali di crescita alla base degli astucci e di scattare numerose foto che custodisco ancora gelosamente. Mi piaceva salire nel suo regno accompagnato "solo" dal mio fedele Setter "Miller", amavo essere sommerso nella solitudine, andarmene come in sogno fra le cose bagnate dalle prime luci dell’alba e le stanche ombre rassegnate della sera senza pensieri. Questi momenti unici, resi speciali dalla presenza di questi due maestosi esseri, andarono avanti fino a metà luglio, più precisamente il quindici del mese,  quando dovetti partire a Cervinia per partecipare a un modulo, della durata di una settimana, del corso annuale di formazione dei maestri di sci. Il giorno prima ero ancora salito a vedere "Charlie" e lui, come d’abitudine, non si era fatto attendere, era là in tutta la sua imponenza. Partii con negli occhi il Camoscio, me l’ero portato con me nelle pupille, e nella valigia la stampa di una foto che lo raffigurava.
Terza parte…(Dubbi e disperazione)
Non ci fu giorno, in quella settimana sciistica, che non pensassi al "mio" vecchio becco e, perché no, alla sua "compagna" alata; quasi tutte le sere, prima di dormire, mi soffermavo, guardando la foto che avevo con me, su quell’impressionante trofeo e, inutile negarlo, quei pensieri durante la notte si tramutavano in sogni perturbati. Arrivato l’ultimo giorno della settimana, una domenica in cui sciammo solo al mattino, sul ghiacciaio a oltre tremila metri, feci le valigie alla velocità della luce, andai a lavorare al parco avventura, dove ero assunto, dalle due alle sei e poi, anche se stravolto, sentii il bisogno di andare da "Charlie". Inutile dire che la salita, sia per il gran caldo che per la stanchezza, fu tutt’altro che facile, ma la quasi certa possibilità di vedere il "mio" Camoscio mi motivava a non tornare indietro. Arrivato alla piana, estremamente speranzoso, iniziai a "sbinocolare" in lungo e in largo, vedendo molti altri camosci, ma ne’ del vecchio maschio ne’ della "Regina" non vi era traccia. Restai in quota fino a quando non sopraggiunse il crepuscolo poi, deluso ma non rassegnato, tornai a valle pensando ottimisticamente che l’assenza del "Re" fosse solo dovuta al caldo giornaliero. Da quella domenica salii, consecutivamente, per molti giorni seguenti sia al mattino che alla sera, ma l’esito delle giornate fu sempre lo stesso. Dapprima la Sua assenza l’apprezzai e la percepii come la massima espressione di quello che rappresentava, e rappresenta tutt’ora, per me la caccia. Infatti ho sempre percepito l’essenza di questa nobile arte in quest’ansia dubbiosa, in questo spremersi di desiderio, in questo preludio consapevole e insieme incantato. Ho sempre percepito la morte del selvatico come un episodio di materialità comune e forse anche malvagio, se non sorretto da questo spirito e permeato di fatica e difficoltà. Ma con lo scorrere del tempo il non riuscire più a vedere "Charlie" si tramutò in nervosismo; correvo per la montagna come un forsennato, quasi a voler essere contemporaneamente in tutti i luoghi, senza che la fatica potesse in alcun modo frenarmi, nel bello e nel brutto tempo, pur di rimediare anche solo un breve incontro con il tanto sognato becco. Alla fine di agosto chiesi addirittura il permesso di finire quattro giorni prima di lavorare, al contrario di come si potrebbe pensare, quelle "ferie" anticipate non furono per me fonte di riposo. Passai quelle ultime quattro giornate di fine agosto in quella vecchia e malandata baita che racchiudeva, sotto la polvere accumulata da anni, un’atmosfera
mitica e alquanto misteriosa. Credevo fortemente e fermamente che, in quella sosta prolungata nel suo Regno, sarei riuscito a vederlo; feci infinite camminate, salendo in cresta e abbassandomi fino al limitar del bosco, a forza di usare quel dannato binocolo arrivavo alla sera alla baita con gli occhi che bruciavano , ma il tutto non produsse alcun risultato. Il maschio sembrava inghiottito dalle verdi montagne, introvabile, probabilmente stava già vagando per distanti, segreti passaggi e chissà, data l’èta già avanzata, poteva anche essere deceduto.
Quarta parte…(Apertura!)
Tra giorni di trepidante attesa e giorni di sfrenata e incessante ricerca, arrivò settembre e con esso si avvicinò il fatidico giorno d’apertura della caccia, il quale mi rese nervoso e irritabile: non pensavo ad altro e ne soffriva persino il mio sonno. Fin da bambino avevo scorrazzato per boschi e montagne, in compagnia di mio nonno e di mio zio e, a poco a poco, mi ero impregnato anche io della stessa passione e dell’amore per l’inizio della caccia. Come penso sia per ogni "camosciaro", questa lunga attesa rappresentava per me un lentissimo tempo saturato di fantasie, di manie e d’ansie; tanto da ridurmi stremato, dopo un’ultima notte insonne, ai bagliori di un’alba troppe volte immaginata. Ma quell’aurora fu totalmente diversa da quelle vissute negli anni precedenti, non mi svegliai sotto il caldo piumino del mio letto, non trovai mio nonno e mio zio ad attendermi, non vidi nemmeno il mio amato "Miller" uggiolante e felice pronto per una nuova avventura: ero di nuovo là, solo, in quella vecchia malga abbandonata, mi svegliai dentro al classico umido del sacco a pelo
che era ancora buio, mi alzai dal pagliericcio, mi vestii e partii ancora una volta alla ricerca, stavolta però con l’amata Weatherby in spalla. Benchè quel giorno la ricerca fu vana, la giornata fu comunque emozionante; vidi due bei maschi di capriolo, una vecchia femmina sola di camoscio con trofeo notevole e un maschio, anch’esso vecchio, non con un trofeo eccezionale, ma con un’apertura e un uncino particolari. Nonostante la bellezza degli animali e nonostante avessi il permesso di prelevare sia un maschio di camoscio che uno di capriolo, non mi passò neanche lontanamente per la testa di effettuare l’abbattimento; io ero lassù per un solo scopo, scovare e "vincere" il vecchio becco. In quell’autunno, che tardava ad arrivare, trascorsi molto tempo nella "Valle dei Principi" e col passare delle giornate, anche aiutato dai commenti e dai consigli altrui, iniziavo a convincermi che "Charlie" sarebbe stato semplicemente uno splendido ricordo, un sogno proibito, una mitica leggenda. Arrivato ottobre, decisi di frequentare altre zone e per un po’ abbandonai l’idilliaca valle. In quella prima metà di ottobre sparai un bel maschio di camoscio in medaglia di bronzo che però, anche se apprezzai molto e che rispettai nel migliore dei modi, non
fece che crearmi un ancor più grande vuoto; inconsciamente mi sorse spontaneo paragonarlo a "Charlie" e, inutile negarlo, con lui non aveva niente a che fare! Con l’inesorabile e imperterrito scorrere del tempo arrivò anche il tredici ottobre, il mio ventesimo compleanno, e durante quella sera mi venne in mente la frase di una storica canzone popolare che diceva "voglio ritrovare, voglio ricordare i miei vent’anni e i sogni". Sicuramente un posto enorme, tra i miei sogni di ventenne, lo occupava anche lui, ma ormai rassegnato e senza speranze non credevo più di rivederlo. Questi cupi pensieri, per diversi giorni, arrivarono perfino a far vacillare le mie certezze sulla caccia: quella passione che era sempre stata la mia vita. Non avevo spesso affermato che un’esistenza senza passione di caccia era come un cielo senza stelle? E non avevo anteposto la caccia praticamente ad ogni altra cosa della vita, irriducibili camminate di altissime giornate solitarie, geloso innamorato d’ogni riposto fascino dell’alpe? Dubitar della caccia voleva dire rinnegare me stesso, rinunciare alla vita.
Quinta parte…(La rivelazione!)
Poi una sera, più precisamente il venticinque ottobre, accadde in me qualcosa di particolare:difficile tradurre in parole ciò che mi passò nell’anima, anzi anche solo a ripensarci mi pare ancora impossibile. Ero solo a casa, avevo appena finito di cenare, e mi venne voglia di leggere un racconto di caccia in montagna, più in particolare sentivo il bisogno di leggere una storia riguardante una giornata "a camosci". Cercai nella mia piccola libreria venatoria qualcosa che potesse saziare la mia voglia di lettura e, quasi subito, la mia scelta cadde su "Splendore e solitudine dell’alta quota" di Erwin Hofer. Non feci in tempo ad aprirlo che, mentre lo stavo sfogliando, venni risucchiato sin da subito, come in un vortice, da un racconto riguardante un vecchio maschio di
camoscio. Non ricordo come fosse intitolato ma ricordo esattamente, come se fosse ieri, un passaggio che mi colpì:"A volte i nostri sogni di cacciatori sono popolati di bellissimi maschi di camoscio. Ed è come per tutti gli altri sogni: non si avverano quasi mai, o forse solo quando uno meno se lo aspetta e non ci crede quasi più. A volte la selvaggina sembra essere a portata di mano e già si pregusta un bell’abbattimento, quando improvvisamente la preda sfugge e quel vecchio maschio di camoscio diventa inavvicinabile e invulnerabile. E vaga per anni, come un fantasma nelle nostre fantasie di cacciatori di camosci..." Quella semplice frase sciolse dentro di me, qualcosa
che era rimasto incomprensibilmente incagliato in chissà quali remoti meandri dello spirito, dilagò avvampando come fuoco nel sangue, mi riportò fremente al fascino antico della mia più bella passione. Quella fiammata, ardente e incontenibile, fece svanire tutte le mie insicurezze: quello era il mio camoscio, quel becco unico doveva divenire la più grande soddisfazione e il più bel ricordo di quei miei spensierati e liberi vent’anni. L’agitazione, generata da quella lettura, mi fece passare una notte totalmente insonne, tanto che mi alzai e mi preparai che erano solamente le quattro di
mattina. Ero pronto a partire, fucile a spalle e, soprattutto, tanta tanta motivazione; ma quando stavo per uscire di casa vidi arrivare "Miller", che con quegli occhioni grandi, tipici dei setter, ma per me espressivi come nessun altro essere, mi disse che avrebbe voluto venire anche lui. Tutti sanno che un cane da ferma a camosci, oltre a non giovare alla caccia, molte volte rischia di comprometterne l’azione; ma poi pensai ai giorni in cui, noi due soli, dimenticammo il mondo sperduti nelle valli più solitarie, inseguendo i nostri sogni che credemmo eterni e alle lunghe e gelide nottate trascorse fuori in cui dormimmo accanto. Era, da anni, nella mia semplice vita e ritenni giusto che, quel giorno, lui fosse al mio fianco. Salii lungo il sentiero, mentre "Miller" balzava avido incontro alla nostra avventura, immerso in quella solitudine tipica delle mie lunghe camminate in montagna e avvolto da quel silenzio che solo nei boschi ancora addormentati si può trovare; queste condizioni mi consentirono dei "ritrovamenti" impensati. Avvertivo una chiarità d’animo nuova, una facile pace, e sentivo la felicità essere una cosa non più utopica ma possedibile.
Sesta parte…(Il grande giorno)
Arrivai in cima al sentiero, dove il bosco tende a diradarsi e iniziano ad aprirsi le vaste praterie alpine, che era ancora fortemente buio. Decisi allora di fermarmi, ad aspettare il giorno, su un crinale che avrebbe garantito poi una buona vista sulla "famosa" piana e sui pendii che la contornavano. Ingannai l’attesa mettendomi dei vestiti asciutti e riscaldandomi con il thè caldo del thermos; mi coricai sull’erba con "Miller" accanto e, in quella solitudine tipica delle altezze che gli uomini hanno abbandonato, attesi l’alba subendo un distacco tale d’ascoltar me stesso come un eco
lontano e percependo la vita come un provvisorio allontanamento dalle cose vere. L’alba arrivò mostrando in tutta la sua bellezza, come capita soltanto in tardo ottobre, una giornata soffusa d’oro e d’azzurro: le rocce brillanti nel sole, i canaloni segnati d’ombre violette, i pascoli solitari e il mormorar sommesso dell’acque fluenti. E’ un amore caparbio, da vent’anni, per la montagna. In quell’atmosfera, quasi trascendentale, vidi stagliata nel cielo a non molti metri da me la "Regina" che, facendosi portare dalle correnti ascensionali, planò verso l’orizzonte per poi sparire dietro una cresta. Quella visione mi fece pronunciare spontaneamente e ad alta voce, rivolgendomi un po’ a "Miller" e un po’ a me stesso: "Ora sarebbe bello vedere anche il re"! Non ebbi quasi tempo di finire quelle parole che, a occhio nudo, mi parve di vedere la sagoma di un camoscio su un pendio di fronte a me; puntai immediatamente i dieci ingrandimenti del mio binocolo su quella macchia nera che riconobbi, senza la benché minima esitazione, essere un camoscio ma che, poiché intento a brucare e non girato verso di me, non riuscii subito a stimare. Continuai ad osservarlo fino a quando, con il più naturale dei movimenti, si girò e fu proprio in quel momento che, vittima di un’emozione indescrivibile, esclamai più volte: "E’ Charlie, è Charlie"! Trovare in quel luogo, frequentato con estrema assiduità da luglio ma senza risultati, il vecchio becco, sparito per più di tre mesi, sembrava totalmente irreale; invece lui era là proprio come se quel tempo, per me infinito, non fosse mai trascorso. Ma non era quello il momento di porsi inspiegabili domande ne’ tanto meno di filosofeggiare, così caricai l’arma e tentai di portarmi "a tiro"; l’impresa, sia per la
conformazione della zona, priva di avvallamenti e di eventuali elementi naturali che mi potessero coprire, sia per il fatto che , preso dall’euforia, caddi con tutta una gamba dentro un insidioso e stretto rigagnolo d’acqua nascosto tra l’erba, fu tutt’altro che scontata.
Settima parte…(Sogno realizzato!)
Nonostante le varie difficoltà riuscii a ridurre notevolmente la distanza tra me e il becco e attraverso il mio bino-telemetro tentai di quantificarla e di valutare la possibilità di un eventuale tiro. I metri che mi separavano da quel fantastico animale si aggiravano all’incirca sui trecentocinquanta, tiro lungo ma fattibile per l’estrema radenza del 240 Weatherby Magnum, però pensai che "vincere" il "Re" in quel modo non sarebbe stato nient’altro che una vigliaccheria. Decisi allora, non senza timore, di tentare sempre con "Miller" a fianco, un’ulteriore avvicinamento rischiando di farlo
fuggire, forse per sempre. Sfruttando una schiena di rododendri riuscii a "rubare" ancora più di un centinaio di metri ma, rimanendo nascosto dalla vista del becco, fui totalmente ignaro della sua posizione. In quei momenti che mi parvero interminabili, arrivai finalmente in un posto che ritenni idoneo per effettuare l’uscita, ma quando mi sporsi dalla schiena vidi il becco già fortemente allertato che, al di sopra del suo trono di pietra dove l’avevo visto l’ultima volta, continuava a emettere fischi d’allarme. A quel punto venni pervaso da un’agitazione ancor più forte, rapidamente mi coricai a terra e appoggiai la carabina a una pietra piatta vicino a me, non ebbi bisogno di usare nessun telemetro la grandezza dell’animale visto a occhio, faceva chiaramente capire che la distanza non superava i duecento metri. Benché il cuore battesse a ritmi impazziti, riuscii a portare il reticolo "ballerino" sull’imponente corpo nero, tolsi la sicura, tirai lo stecher e, quasi sorpreso, lasciai partire il colpo. Il camoscio non fece alcuna reazione al colpo e nemmeno, come spesso capita, rotolò giù per il pendio, aveva vissuto una vita regale e da re se ne andò: cadde e immobile restò inanime su
quella pietra che tante volte lo aveva ospitato. Dapprima restai incredulo e alquanto intontito poi, quando l’eco dello sparo si perse oltre i canaloni, oltre le grandi rocce, l’emozione prese il sopravvento e non potei che condividerla pienamente, ancora una volta, con un forte abbraccio dato al mio più fedele amico "Miller". Non esitai nemmeno un momento e, preso dall’entusiasmo, gli tolsi il guinzaglio e insieme corremmo verso il nostro becco; gli ultimi metri, su quell’erto pendio, furono i più difficili non tanto per la fatica quanto per l’emozione e la voglia di giungere al cospetto
dell’animale. Arrivato sul trono di "Charlie" vidi il becco che era rimasto con le corna nascoste tra i rododendri, quando gli alzai la testa dal cespuglio uscì un trofeo che andò oltre ogni mia aspettativa:altissimo, con basi grosse, armoniosamente divaricato e con un uncino fortemente marcato che, a valle, venne poi valutato ampiamente in medaglia d’oro. Mentre ero intento ad ammirarne la fattezza da sogno, non potei fare a meno di quantificare quel grande accumulo di anelli di crescita che mi suggerì che il camoscio aveva quindici anni. Ciò significava, con mia grande soddisfazione, che quando io ero ancora all’asilo lui correva già in quei fantastici luoghi.
Ottava parte…(Il rientro!)
Mentre ero intento a contemplare il camoscio , lisciando la sua forte criniera, mi sentivo veramente appagato nei meandri più profondi e irrazionali del mio spirito e guardando "Miller" lo ringraziai di esistere e ripetei più volte, a lui e a me stesso, che non poteva esistere ricchezza più grande.
Non feci storie con il destino, lasciai in pace i santi, mi stesi al suo fianco e, guardando il cielo, m’imbevvi di serenità. In quel momento fui certo, più che mai, che la felicità di quel giorno, io e "Miller", l’avremmo posseduta per sempre. Dopo questo lungo momento d’introspezione e di sogno "reale", durato un’ora abbandonante, vidi che erano già le nove e sentii il bisogno di comunicare a casa la mia "vittoria"; non ebbi alcun dubbio su chi chiamare, digitai il numero del mio Eroe d’infanzia e quando mi rispose fu sufficiente solamente dire:"Nonno ho preso Charlie"!
In seguito alla telefonata, insaccai il mio vecchio becco all’interno del mio capiente zaino curando di lasciare fuori la testa e le possenti corna e, non senza fatica, mi incamminai con "Miller" al fianco, gioioso e saltellante, verso la strada del ritorno. Arrivato a casa, inutile sottolineare l’enorme stanchezza, vidi che mio nonno era davanti alla porta ad attendermi, col cuore gonfio di soddisfazione e negli occhi una gioia, persino più grande della mia. "Charlie" era lì davanti a lui: il risultato di una cacciata che aveva il sapore epico delle avventure che tante volte, facendomi
sognare, mi aveva raccontato. Lo osservò e lo accarezzò con occhi estasiati, con rispetto e grande riconoscenza. Ricordo che proprio in quel momento il mio sguardo ricercò il suo, esprimendo una sincera e profonda gratitudine per tutto quello che, da quando ero piccolo sino a quel giorno, in tanti anni aveva saputo trasmettermi. Durante quel pomeriggio diversi cacciatori, anche molti anziani, vennero per ammirare il "famoso" becco e per brindare in suo onore; fu così che la giornata passò all’insegna dei festeggiamenti, proprio come negli epici racconti di mio nonno che,  indubbiamente, visse una caccia d’altri tempi, quando il successo venatorio era fonte di ammirazione, rispetto e soprattutto di una sincera e leale condivisione.
Son convinto che quella fu soltanto un’illusione di poche ore, ma ciò che più conta, per me, è che rimase, rimane e rimarrà sempre in fondo al mio cuore.
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