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Un veterinario cacciatore

"Un veterinario che va a caccia ?!?"

E’ la domanda che Francesco si sentiva rivolgere da quando aveva solo espresso il desiderio di  diventarlo, perché quello di andare a caccia lo conoscevano tutti dalla sua tenera età di 6 anni. Oggi che di anni ne aveva più di trenta e veterinario lo era diventato, lo stupore che leggeva nelle persone che gli rivolgevano tale domanda  riusciva ancora a farlo sentire a disagio, non ostante era ormai certo che si trattasse solo di un vistoso malinteso. Quando nel suo studio infatti, si prendeva cura di un cane, la risposta era lì sul tavolo da visita, quell’insostituibile compagno aveva cominciato il suo sodalizio con l’uomo proprio per "questioni" di caccia, ma la civilizzazione e il "progresso" ce lo avevano forse fatto dimenticare. Francesco  si era interrogato anche sul tema del vegetarianesimo  e oggi che era un uomo maturo e un veterinario, era convinto che questa linea di pensiero fosse una falsa risposta alla problematica del rapporto dell’uomo con gli animali, e che la vera soluzione poteva trovarsi solo nel comportamento etico nei loro confronti, senza per questo snaturare l’essenza dell’essere umano. Quando provava però ad argomentare le sue motivazioni, trovare comprensione era una vera impresa. Sapeva perfettamente che in molti casi tutto ciò non era dovuto a cattiveria o a mala fede, ma probabilmente solo a disinformazione; fatto sta che il suo carattere sensibile risentiva non poco di questa condizione e provava che talvolta si trovasse in seria crisi la sua stessa identità, tanto da non arrivare più a capire se il voler fare il veterinario e la contemporanea passione per la caccia, non fossero il sintomo di qualche serio disturbo, come più di una persona, apertamente o meno, malignamente o in buona fede, aveva già ipotizzato.

La colpa e il merito della sua passione per la caccia erano stati di suo padre, che lo portò con sé per la prima volta all’età di sei anni; ricordava  ancora quel pomeriggio d’autunno passato in riva al fiume, giorno in cui per la verità si annoiò a morte e fu per lo più impegnato a  lanciare sassi nell’acqua, facendo allontanare qualsiasi cosa nel raggio di mezzo chilometro. Non avrebbe mai immaginato che da lì a 2 anni, la domenica mattina sarebbe stato in piedi prima del suo babbo, attendendo impaziente l’ora concordata per la sveglia.

Quel bambino era certo ancora troppo piccolo e inconsapevole per rendersi conto di tante cose, ma era abbastanza grande per fantasticare in ogni modo sul mondo venatorio e approfittare di ogni ritaglio di tempo per conoscere tutto ciò che potesse riguardare la caccia, dalle specie di uccelli a quelle di mammiferi, cacciabili e non, fucili, cartucce, regolamenti e cani , già, i cani; l’altra sua grande passione erano appunto i cani e se ce n’era uno alla portata della sua vista, ne era irresistibilmente attratto non potendo fare a meno di andare ad accarezzarlo o a giocare con lui.

Mentre la sua passione cresceva però, quella di suo padre cominciava a diminuire, e quella del 1988  fu l’ultima stagione in cui rinnovò la licenza. In quegli anni infatti, si cominciava già a parlare della "157", dell’istituzione dei parchi nazionali e dell’aumento spropositato delle tasse di concessione governativa, tutte cose che non tardarono a verificarsi e determinarono l’abbandono di tante persone, suo padre compreso; per non trascurare del tutto l’idea quindi, Francesco cominciò ad accompagnare qualche amico, anche molto più anziano di lui, per tentare di tenere vivo l’interesse per tale attività, ma le cose andarono diversamente.

Una volta intrapresi gli studi per diventare veterinario infatti, gli impegni e le disponibilità economiche non certo elevate, insieme alle campagne animaliste e all’opinione pubblica che ne veniva per forza di cose manipolata, fecero il resto e la caccia per un certo periodo della sua vita, divenne una cosa sostanzialmente estranea. Dopo la laurea poi, per arrivare ad avere un minimo di inserimento nel mondo lavorativo e di indipendenza economica, passarono altri anni, ma all’altro suo grande desiderio, che era quello di avere un cane, non seppe rinunciare. Quando infatti due clienti del suo studio decisero di far accoppiare i loro due animali, un maschio di cocker con tanto di pedigree e una meticcia incrociata con un cocker, decise che era il momento di adottare un cucciolo; ne scelse uno dal manto bianco-arancio, quello che per primo fra sei fratelli, riuscì a superare uno sbarramento due volte più alto di lui. 

Il nome lo scelse suo nipote Federico, che lo chiamò Whisky, perché somigliava a uno dei protagonisti di un cartone della Disney e sebbene inizialmente la convivenza presentò qualche difficoltà visto il carattere non troppo mansueto del cucciolo, Francesco riuscì a tenerlo, con una mezza idea di addestrarlo a cercare tartufi. Il progetto fallì poi miseramente vista la sua totale inesperienza in quel campo, per cui Whisky fu relegato al ruolo di cane di casa, da compagnia o giù di lì, con frequenti uscite per boschi e montagne dove poteva sfogare tutta la sua energia.

Il progetto caccia era dunque del tutto abbandonato, o almeno così sembrava. Proprio facendo il veterinario infatti, Francesco ebbe modo di rientrare in contatto con alcuni cacciatori, che con i loro racconti andavano a smuovere qualcosa di quasi completamente sopito; l’idea però che altre persone, magari clienti e con punti di vista differenti,  potessero avere una pessima opinione di lui se avesse preso la licenza, tendeva a spegnere e rimettere nell’angolo quell’antico desiderio.

Il suo carattere riservato infatti, lo portava a risentire molto dell’opinione degli altri, e temeva a volte di poterli deludere, ma aveva al tempo stesso un forte senso di giustizia e una visione equilibrata della realtà, per cui poteva impiegare molto tempo per prendere una decisione, ma quando lo faceva era perché la sua convinzione e le sue argomentazioni difficilmente potevano ancora trovare ostacoli; accadde infatti che dopo tanti anni di dubbi, ripensamenti, dopo tante persone che avevano reagito in maniera difforme alle sue argomentazioni sulla caccia, alla fine di un’estate caldissima, come una folgorazione, come guidato dall’istinto, decise di prendere la licenza e in meno di un mese la ottenne, indovinando fra l’altro 15 risposte su altrettante domande al test di abilitazione.

Cominciò così la sua "carriera" da cacciatore; la prima stagione fu tutta una scoperta, ebbe modo di conoscere amici che rimasero anche in  seguito suoi compagni di caccia e in alcuni casi anche clienti. La confidenza con l’arma all’inizio lasciava piuttosto a desiderare, per cui furono molte le "padelle" e poche le soddisfazioni in termini di carniere, ma con l’andare del tempo i miglioramenti non si fecero attendere e dopo tanti chilometri macinati a piedi, il fucile diventava via via qualcosa di meno estraneo. Nei primi mesi portava il suo cane raramente, un po’ perché non lo riteneva utile vista la sua vita trascorsa da animale da compagnia  e un po’perché si accontentava di vedere quello degli altri; successivamente invece, e un po’ alla volta, Whisky era sempre più spesso insieme a lui. Francesco vedeva infatti che sebbene avesse già 5 anni  e non avesse subito il minimo addestramento, il suo istinto era fortissimo, talmente forte che spesso lo portava però a esagerare e ad agire in modo disordinato, dando poco ascolto al suo padrone  e facendolo disperare. Quelli che sapevano del suo cane o che lo vedevano con lui, nella migliore delle ipotesi lo prendevano in giro bonariamente e più o meno apertamente gli consigliavano di prenderne un altro "più professionale" e di lasciarlo a casa sul divano o di darlo a qualcun altro; cosa che ovviamente non avrebbe mai fatto, ma certo sapere che il proprio cane non ha l’istinto della ferma, non riporta e non  dà molto ascolto non è confortante, pensava.  Con il passare delle uscite però, notava in lui dei miglioramenti evidenti; non aveva la minima paura dei colpi di fucile, ritrovava sistematicamente tutto ciò che cadeva e cominciava a dargli più ascolto, sembrava iniziare a capire quello che stessero facendo e come potesse aiutare il suo padrone.

Cominciò così la seconda stagione, che però non regalò nulla all’apertura e ancora meno nel mese di ottobre, uno dei più scarsi degli ultimi anni in termini di migrazione, tanto che in Francesco nascevano nuovi dubbi e cominciava a chiedersi se avesse ancora senso andare a caccia in questo modo,  con un  cane che serviva a poco e con la solita folta schiera di persone che ogni tanto gli ricordavano il ruolo che secondo loro avrebbe dovuto avere nella società e cioè di una sorta di missionario che curasse tutto, dalle lucertole agli elefanti, e aborrisse la caccia con indicibile orrore; i dubbi di un tempo stavano riaffiorando e la cosa non gli piaceva affatto. Il suo disagio cresceva quando invitava qualcuno a mangiare selvaggina e molti rifiutavano accampando scuse più o meno credibili; in compenso, suo nipote di 9 anni, trovava i tordi molto gustosi, il che gli suggeriva che la beata innocenza e la sincerità di un bambino, valessero molto più di astruse teorie pseudo ambientaliste.

Un pomeriggio di ottobre di quella stagione avara, uscì per l’ennesima volta insieme al suo cane e decise di andare in uno dei soliti posti vicino casa, da solo, sulle colline dell’entroterra marchigiano, ma la situazione era chiara da subito; tante cornacchie, tante gazze, gheppi, ma ben poco di altro. I venti da sud disturbavano e avevano seccato la terra in maniera innaturale, tanto che gli scarponi sembrava toccassero  fili di metallo quando urtavano l’erba medica, le zolle dei terreni arati non si deformavano minimamente al suo passaggio e anzi ostacolavano il cammino perché erano dure come pietre.

Il tempo era stato strano quell’anno, la primavera aveva stentato molto a cominciare e anche il caldo era arrivato in ritardo, ma adesso sembrava quasi non se ne volesse andare; persino le zanzare  davano ancora molto fastidio e si vedevano ancora parecchie rondini. Pensava a questo mentre camminava e osservava il cielo con la speranza di vedere qualche migratore, ma anche il passo, forse come le stagioni, era irregolare e non ostante fosse già cominciata la seconda metà del mese di ottobre, gli avvistamenti erano stati molto scarsi fino a quel momento.

Attraversò terreni coltivati e fossi, prati di medica appena sfalciati e boschetti di vegetazione spontanea, per poi infine addentrarsi in calanchi quasi inaccessibili, ma non trovò nulla. Dopo circa due ore di cammino, cominciava ad avvertire stanchezza, oltre che fisica anche mentale, il peso del suo "301" e delle cartucce si faceva sentire. Si mise a sedere e rimase fermo forse un quarto d’ora, ma non pensò a qualcosa di definito, ascoltava e osservava le colline intorno a sé, guardava il cane che di abbattersi non ne voleva sapere e continuava a frugare ogni angolo. Francesco si chiedeva chi di loro due avesse ragione. Sebbene gli piacesse stare lì da solo insieme al suo cane, lontano per qualche ora dalle gioie e dalle miserie del mondo, a un tratto avvertì un senso di isolamento e di solitudine, si cominciò a chiedere cosa stesse facendo lì, se non avessero ragione "gli altri" e se la caccia non fosse una cosa ormai superata e da dimenticare. Ricordava però anche l’entusiasmo che da bambino non lo faceva dormire la notte prima di un’uscita a caccia e sapeva che quel sentimento non era morto, tutt’altro, si era trasformato solo in ragione dell’età, ed era anzi sopravvissuto a prove durissime, come nella vita può succedere solo con gli amori veri, siano essi per una donna o per tutto quello che può salvare la vita di un uomo. Pensando a questo si rialzò, chiamò il cane e decise di tornare verso la macchina, ma la strada era lunga e lo aspettavano ancora diverse salite e discese; era quello uno dei momenti peggiori delle uscite a caccia, quando cioè dopo qualche ora di cammino, si decideva a tornare a casa, a mani vuote, ma soprattutto senza aver visto nulla. Ripercorse a ritroso la strada fatta all’andata, ma impiegò meno tempo visto il dislivello complessivo favorevole, per cui si ritrovò ai piedi dell’ultima salita forse in un’ora e non facendo caso agli abiti impregnati di sudore, decise di raccogliere un attimo le forze e di tentare un’ultima scacciata nei roveti sulla destra, che di solito offrivano riparo a qualche tordo. Chiamò il cane e cercò di indirizzarlo lì dove aveva pensato, ma non ostante gli ultimi progressi che aveva notato in lui, quel giorno aveva proprio deciso di deluderlo, sembrava agitato, non voleva dargli retta in nessuna maniera e all’improvviso scomparve nel boschetto che aveva invece alla sua sinistra.

La delusione a quel punto sembrò quasi sopraffarlo, una delusione che stava diventando sconforto; cominciò a pensare che andare a caccia oggi, nel ventunesimo secolo, fosse una follia e andarci con quel cane poi, fosse da autentici matti. Fu l’ultimo pensiero prima di avvertire un rumore improvviso, fragoroso, di ali possenti che cercano di sollevare da terra un corpo pesante e muovono tanta aria. Un istante dopo, un "co-co-co" ripetuto gli fece alzare la testa e vedere un fagiano che gli stava passando davanti da sinistra verso destra; trattenne il respiro, imbracciò, mirò e sparò nel giro di un secondo. La spiumata gli fece capire che l’aveva centrato e infatti cadde una decina di metri più in là.

La prima espressione che gli venne in mente fu "non ci credo", era il primo fagiano, preso con il suo cane, centrato al primo colpo. Un attimo prima voleva lasciar perdere, un attimo dopo era come entrato all’improvviso fra i cacciatori veri, fra quelli che parlano col proprio cane, che macinano chilometri in posti impossibili, fra quelli che in un giorno sparano una sola cartuccia, ma quella giusta, e che tornano a casa soddisfatti del carniere e consapevoli di aver rispettato tutte le regole.   

A distanza di qualche mese, dopo che il fagiano era stato degnamente cucinato e mangiato, ripensava talvolta a quell’istante di caccia perfetta, ripensava a come tutto potesse cambiare nel giro di un secondo e quando rivedeva nella memoria il cane, il suo cane, quello che tutti prendevano in giro, saltargli addosso festoso, tutto gli diventava improvvisamente chiaro e i dubbi svanivano; quanto tempo perso dietro inutili ripensamenti solo per piacere a qualcun altro !

Da quel pomeriggio di ottobre, vide il suo animale in un altro modo; fino ad allora era stato "solo" un cane da compagnia, ma era bastato dargli un po’ di fiducia  e l’aveva ripagata nel migliore dei modi, sebbene nessuno lo avesse addestrato da cucciolo. Il senso di riconoscenza che provò quella sera per il suo Whisky, era sufficiente per chiarire ogni dubbio passato, era come se in quel momento si fossero ricongiunte due strade vicine, ma che avevano corso parallele per tanti anni; gli piaceva  pensare che quel giorno, in quel posto dove erano passati tanti altri cani e tanti altri cacciatori senza trovare nulla, qualcuno degli amici che oggi non c’era più, avesse voluto dargli una mano dal cielo.

Qualcosa era cambiato, ogni volta che vedeva lavorare entusiasta il suo cane, tendeva tutti i sensi per percepire ogni inezia, e questo era più che sufficiente per sentirsi appagato; se non fosse successo nulla, sarebbe andata certamente meglio la prossima volta.

Gli dei, dal computo degli anni di vita concessi agli uomini, sottraggono tutti i giorni passati a caccia.

Da una tavoletta assira del 2000 a.C.

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