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Il Pennino della Beccaccia. Marco Sartori

"Le radici non gelano"
Qualche tempo fa ho scritto il racconto Le radici non gelano. Il titolo non è farina del mio sacco, ma l’ho preso in prestito da un importante saggio di letteratura fantastica ed antropologia letto qualche anno fa e  che mi aveva molto affascinato, lasciandomi come un segno addosso.
Un titolo straordinariamente eloquente che già di per sé spiega tutto: ogni uomo possiede, proprio come un albero, delle radici che vanno giù in profondità nella terra. Può capitare, qualche volta, che ce ne dimentichiamo, che ci convinciamo di essere spiriti liberi, senza legami con case o persone, individui puri fino all’osso. Ma non è così. Le radici rimangono e ci tengono ben saldi ad un passato e a una terra, anche quando noi stessi lo ignoriamo. Riconosciamo simboli che qualcuno ha tracciato per noi migliaia di anni fa, reagendo a determinati suoni, profumi e colori senza saperne il motivo. E per quanto ci spostiamo, traghettati qua e là attraverso il mondo dalle vicissitudini della vita, c’è un solo posto che possiamo chiamare casa perché ad esso ci lega una radice invisibile e dritta, come il fittone del tarassaco che scava giù fondo anche nell’asfalto per trovare un po’ d’acqua.
Viviamo in tempi strani ai miei occhi e strano è anche il mondo che vogliamo lasciare in eredità ai nostri giovani, fornendo loro come massima opportunità proprio quella di andare a cercar fortuna all’estero. Li prepariamo per questo, mettendo in opera una vera e propria formazione: dobbiamo essere cittadini del mondo, imparare le lingue, studiare per inserirci in un ambiente a cultura globalizzata. Già oggi, molti di coloro che nell’industria hanno fatto o stanno facendo  carriera sono costretti a spostarsi attraverso i continenti, viaggiando per lavoro dal Sud America all’Estremo Oriente. Sempre più spesso, parlando con altri genitori come me, sento dire che il futuro dei nostri figli sarà in un paese con più risorse e meno burocrazia, dove ci sia benessere economico e tranquillità sociale. I miei due nipoti più grandi pochi anni fa, dopo il conseguimento del diploma, sono migrati in Australia dove sono effettivamente riusciti a costruirsi una posizione e una famiglia che l’Italia non avrebbe certamente permesso loro. Laggiù basta aver voglia di lavorare, qui nemmeno un santo in Paradiso, sembrerebbe.
Bisogna prepararli bene i nostri figli, farli studiare, infiocchettarli e poi spedirli via. Dei migranti felici e ben vestiti. Già perché a me sembra che le cose stiano un po’ così: l’opportunità di costruirsi una bella vita in un paese lontano è lo stesso sogno che inseguono anche quelle centinaia di migliaia di migranti asiatici e africani che attraversano continuamente il mare, qualche volta morendoci, per stabilirsi qui da noi. La speranza di una vita migliore è la stessa. Ma se guardiamo i volti di quella gente, quella perbene intendo, ci accorgeremo che sono tutt’altro che felici: quelli hanno ancora radici forti e ben visibili e si rendono conto di ciò che perdono salendo su un barcone: la famiglia, il profumo della terra, la luce del tramonto che è un riflesso unico in ogni punto del pianeta. Non hanno nessuno che per anni ha lavorato per nascondere le radici, per tagliuzzarle e sminuzzarle con la bugia che non esiste valore più alto che un buon tenore di vita e la tranquillità. Scappano dalla guerra e dalla fame con amarezza, ben consapevoli della ricchezza che si lasciano alle spalle: quella ricchezza che scorre nel sangue ma che non si può mangiare e non accumula interessi in banca.
I nostri figli invece sì che li stiamo intortando ben bene, staccandoli dalla terra e dalla Natura un po’ alla volta, facendoli crescere nei centri commerciali o attaccati ai videogiochi, insegnando loro che il capriolo è un bamby ed evitando accuratamente di spiegare che anche l’hamburger in precedenza era un animale vivente. Ai nostri figli insegniamo che devono essere felici e che un luogo vale l’altro, magari lasciando che nel vecchio e inutilizzato orto del nonno cresca la boscaglia o vendendo quel rudere di pietra ereditato da chissà chi, che tanto stava venendo giù e non interessava più a nessuno.
Il protagonista del mio racconto è un uomo che torna dall’America dopo un fallimento lavorativo per ritrovarsi solo e straniero nella terra dove è nato e che non sente più sua. E’ un puntino senza identità sospeso nel vuoto. Sarà un ricordo d’infanzia a salvarlo e a far nascere in lui il desiderio di lanciare un ponte attraverso il tempo: ritroverà i boschi dove il padre lo portava a caccia, ritroverà l’amicizia di un cane e incontrerà per caso una beccaccia, d’autunno in mezzo ai frassini. E solo allora, grazie a quel fortuito incontro, capirà che lì, su quelle colline che aveva messo da parte e dimenticato, c’è ancora qualcosa per lui che gli appartiene davvero e che nessuno può portargli via, qualunque cosa accada: il suo passato non è dimenticato e gli sta parlando. Solo allora capirà davvero che ognuno di noi  possiede legami invisibili che non scompaiono e radici profonde che non gelano. Ci sono molte cose importanti nella vita, priorità che ad un certo punto possono anche farci partire e allontanarci, e la storia insegna quante volte è successo, ma non dobbiamo dimenticarci che noi abbiamo bisogno della nostra terra quanto lei ha bisogno di noi. Anche questo credo sia un valore fondamentale che abbiamo il dovere di trasmettere ai nostri figli.   
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