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Il piacere della caccia

Chi avversa il mondo della caccia è spesso portato a definirla come un’attività crudele in cui degli uomini provano divertimento nell’uccidere animali selvatici.

Il motivo di questa convinzione non è affatto superficiale, per quanto un’analisi più attenta non possa che dimostrare trattarsi di un’affermazione riduttiva e semplicistica. Lo scopo della caccia è sempre stato quello fondamentale di procacciare cibo, di catturare la maggior quantità possibile di prede per assicurarsi una buona fonte di proteine. Ovviamente l’abbattimento è sempre stato il momento culminante dell’azione di caccia.

In un’epoca come la nostra, in cui la fonte principale di nutrimento è ben altra e lo sappiamo tutti, la caccia ha assunto l’aspetto di un’attività superflua, fatta per gioco e divertimento. L’uomo moderno non si interroga granché sull’origine dei prodotti che stanno nel suo piatto, ma viene scosso profondamente dal fatto che un animale possa morire per puro divertimento. E’ un punto di vista assolutamente legittimo, ma è sintomo della costante carenza di informazioni sul nostro mondo e costituisce oggi uno degli scogli più ardui da superare. Qualche mese fa lo scrivevo su Sentieri di Caccia: l’uomo metropolitano, che non ha contatto con l’ambiente naturale, che nella sua vita di tutti i giorni è preso da altri impegni ed altre impellenze, dal lavoro, dalle scadenze e così via, di primo acchito valuta la caccia soltanto come un gesto di pura violenza, eseguito oltretutto per diletto. Continua a porre al centro dell’attenzione l’abbattimento, ignorando tutto il resto. E il senso della caccia si riduce quindi alla domanda, spesso posta in toni provocatori: che divertimento c’è ad uccidere? Perché proprio il divertimento, che nella società di oggi è visto come principale alternativa al dovere imposto dal lavoro, aggiunge un tocco osceno ad un atto che appare già di per sé macabro. Non a caso il binomio caccia-divertimento è stato lo slogan principale nella promozione del recente tentativo di referendum contro l’attività venatoria in Piemonte.

Eppure io sono sicuro che il senso della caccia non stia nel sangue dell’animale che alla fine riuscirò a riportare a casa e sono anche certo che mai come in questo caso la parola divertimento sia stata usata impropriamente.

Ciò che amo fondamentalmente della caccia, che mi rende irrequieto, che mi spinge ad agire è un’idea e un’ambizione: l’idea delle lunghe camminate in solitaria sulle montagne; il sogno della ferma statuaria del bracco tra le foglie autunnali; il desiderio degli scenari spettacolari che mi riempiranno gli occhi. Quello che ricerco ogni volta è il contatto palpabile con l’erba che odora di paglia e con la terra umida di rugiada. Gli elementi che danno significato alla mia stagione di caccia sono anche le lunghe attese prima che venga l’alba, l’affardellamento di quello zaino un po’ sporco sul cui fondo sedimentano pezzi di giornale che stanno là da anni, la preparazione di quegli abiti laceri che uscita dopo uscita perdono la loro letale battaglia contro i rovi. Ciò che mi tocca davvero l’anima è sentire l’impazienza del cane che, inspiegabilmente, sembra sapere già la sera prima che il giorno successivo lo porterò lontano. Ciò che mi emoziona sono le telefonate per preparare una spedizione che forse fallirà a causa del maltempo e poi tutte le chiacchiere fatte su quel camoscio abbattuto o quei dieci camosci sbagliati. L’emozione della caccia sono gli odori, i colori, le fatiche e le frustrazioni, magari inseguendo una beccaccia che si intuisce ma che non si riesce mai a vedere. Per ultima, ma non per questo meno importante, la schioppettata tirata da quel ferro vecchio che odora di olio. E se tutto va bene qualche penna da aggiungere al cappello. Il tutto ripetuto meticolosamente volta dopo volta e anno dopo anno in un rituale in cui la cattura dell’animale diventa alla fine il completamento dell’opera, più che lo scopo. E in cui l’animale smette di essere la vittima di un atto violento per assumere una dignità del tutto diversa.

Quante volte è capitato a noi cacciatori di ritornare a casa senza carniere dopo una lunga giornata di corse e inseguimenti? Quante volte siamo ritornati a mani vuote, ma con lo spirito colmo di immagini ed emozioni, tanto da non riuscire a staccarci la mente per tutta la settimana successiva?

No, si inganna chi riduce la caccia al gusto di uccidere. Lo crede chi non ci conosce (e forse lo crede anche qualche cacciatore). Escludere dall’azione venatoria tutto quel corredo di usi, consuetudini e atteggiamenti, in altre parole da quella ritualità, che la completano significa ridurre l’abbattimento ad un inutile omicidio. Colui uccide un animale qualunque con un fucile o un bastone o una fionda, senza consapevolezza e senza questo pesante bagaglio di tradizioni sulle spalle non diventa automaticamente un cacciatore. 

Io invece sono profondamente convinto che il vero piacere della caccia non stia semplicemente nell’uccisione della preda, ma in quel corollario di gesti che fanno di noi dei cacciatori veri, degli evoluti predatori, da quando apriamo gli occhi la mattina a quando li richiudiamo, spossati, la sera. Il senso e il gusto della caccia stanno nella consapevolezza di esser parte di qualcosa di veramente importante, di essere persone che sanno guardare in faccia la morte, apprezzando al tempo stesso la bellezza della vita. Nella convinzione di esser parte integrante del mondo e della natura, in empatia con gli animali e con l’ambiente circostante, e di non esserne estraniati. Questo è il senso di essere cacciatori moderni.

Perciò, amici, auguro a tutti un felice anno nuovo, colmo di serenità ma anche di profonde riflessioni e di consapevolezza.

 

Marco Sartori

 

 

 

 

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