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Il riposo del cacciatore

Da qualche tempo mi mancavano gli argomenti su cui scrivere. Forse, a ben vedere, non avevo poi neanche granché a cui pensare. Succede, a volte, di vivere periodi così piatti e monotoni, in cui ci si fa trascinare dalla corrente della quotidianità, vivendo per inerzia.

Ma da questo torpore mi ha risvegliato bruscamente, qualche giorno fa, la notizia di una scomparsa improvvisa: di un vuoto che tutto a un tratto è venuto a riempire la mia testa con un ronzio che non accenna a spegnersi. Danilo Liboi se n’è andato.

Un fatto così strano che persino a scriverlo non mi sembra vero: la mente non accetta ciò che non riesce a capire.

Conobbi Danilo soltanto pochi anni fa, in occasione di un censimento ai camosci. Lui era già il grande cacciatore, editorialista, deus ex machina di note riviste nazionali. Io ero alle prese con i miei primi racconti. L’avevo visto di persona in poligono, alle esposizioni canine, in comprensorio e avevo letto i suoi articoli, ammirando la sua storia, che era quella di un uomo come tanti altri, cresciuto nella mia stessa città, che un po’ alla volta era riuscito ad affermarsi come scrittore, facendo addirittura della sua passione una professione. Cose importanti per un uomo: colui che fa una lavoro che ama è uno che non lavora neanche un giorno nella vita.

Oggi non so più se questa regola valesse davvero per Danilo, credo che forse qualcosa nel meccanismo avesse cominciato a grippare, ma all’epoca la pensavo così. Lui era quello affermato, il cacciatore leggendario, la penna sferzante ed io, fondamentalmente timido e poco propenso agli ossequi in genere, neppure osavo salutarlo e rivolgergli la parola. Perciò fin da subito mi stupì parecchio la sua spontaneità, il suo rivolgersi a me con la confidenza di uno che si conosce da sempre. Quella mattina di giugno, trascorsa in Val di Viù con lui e suo figlio Federico, contando non solo camosci, ma anche cervi, caprioli e cinghiali, fu l’inizio di un rapporto alquanto buffo, che definire epistolare sarebbe oltremodo scorretto. Lettere all’inizio gliene scrissi, ma vista la miseria delle sue risposte la nostra comunicazione si ridusse ben presto a mail sintetiche e qualche messaggino, pochi incontri, sempre strappati al lavoro (il suo) e occasionali strette di mano. Compensava poi telefonandomi la sera, mentre era a casa e spadellava per preparare cena, spiegandomi perché aveva scelto di scrivere una certa cosa oppure raccontandomi la sua giornata in montagna. Non perdeva occasione per spingermi a scrivere, mi prometteva pubblicazioni e mi chiedeva racconti sul lupo, sul camoscio e sulla beccaccia perché sapeva che sullo sfondo delle mie storie c’erano sempre quelle montagne che lui tanto amava. Un sabato pomeriggio d’autunno mi chiamò per dirmi di aver visto due galli forcelli nel Vallone d’Ovarda, poco sotto il Pian del Gioco, e che questi gli avevano fatto venire in mente me. Piccoli eventi, tracce impresse nella memoria, che mi fanno pensare che un’amicizia spesso è fatta di poche parole e di molte sorprese, che alla fine sono la ricetta della felicità.

Su Danilo in questi giorni hanno scritto in molti e sembrano aver detto tutto: aveva amici che gli erano molto più vicini di me e collaboratori che avevano avuto tutta la vita per approfondire la sua conoscenza. Io non ho avuto il tempo per farlo e avrei voluto averne di più: avevo ancora tante cose da dirgli, ma soprattutto oggi più che mai sono convinto che lui avesse molto da tirare fuori.

Ieri mattina eravamo in molti a salutarlo sulle scale della Gran Madre di Torino, mentre si avviava lungo un sentiero che noi non possiamo (ancora) percorrere al suo fianco. Io però ho idea di sapere dove trovarlo, se un giorno dovessi mai aver voglia di parlare con lui, perché fu proprio Danilo a indicarmelo: su uno di quei pendii che tanto gli stavano a cuore, dove l’erba gialla fa da casa alle coturnici e a guardar giù dalle rupi un po’ gira la testa. Lassù, in una cuccia che sembra quella di un camoscio, sono sicuro di trovare un alto uomo con la barba incolta e il berretto verde, placidamente disteso al sole. E magari vedrò un cane scuro al suo fianco che ne custodisce il riposo, come quella prima volta in cui ci incontrammo e io, di nascosto, gli scattai l’unica foto che conservo.

Allora lo saluterò, come facevo sempre in piemontese: “Ciao Casador!”.

Marco Sartori

  

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