L'uomo e la preda
- Scritto da Marco Sartori
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Nutro una profonda stima per gli animali di cui sono consapevole predatore.
Essi suscitano la mia ammirazione e la mia curiosità, mi colmano di meraviglia perché riescono a sopravvivere a temperature che mi ucciderebbero in una sola notte, perché riescono a vivere e a proliferare in condizioni che a me non lascerebbero via di scampo. La loro forza mi lascia senza fiato, la loro capacità di mimetizzarsi mi fa palpitare il cuore. Gli animali selvatici riescono a seguire cicli naturali che a me, cresciuto in cattività, sfuggono. Vivono in armonia tra di loro, non senza qualche baruffa, e con l’ambiente che li circonda. Sono fusi con la terra che abitano; ne fanno parte per davvero. E proprio per questo prosperano in un tale stato di libertà che è una grazia.
Senza saperlo mi donano qualcosa di molto importante. Quando ai primi di maggio inseguo la coturnice al canto è come se anche io diventassi un po’ come lei: mi nascondo tra le rocce, risalgo i crinali ed emetto il richiamo in attesa che si avvicini un rivale. Quando osservo i camosci a metà giugno divento come uno di quei vecchi maschi che si siedono in alto sulle creste ed osservano i gruppi di giovani e madri che pasturano più in basso. Mi insegnano a comportarmi in base alla situazione in cui mi trovo. E non mi riferisco soltanto ai grandi selvatici, ma anche ai più piccoli, che sono in grado di donare meravigliosi tesori: penso al verzellino che rallegra i risvegli in baita in primavera o allo scricciolo che si nasconde tra i rovi fingendosi una minuscola beccaccia. Come si potrebbe vivere senza di loro, senza le loro voci e i loro colori? Senza ricerca, inseguimento, osservazione, fotografie, contatto. Impossibile. Qualcuno dice che un cacciatore non può provare affetto per gli animali selvatici. E allora questo che sento cos’è?
E sì, la caccia: questa grande passione e questo grande mistero!
Già perché se è vero che amo tutti gli animali, provo un sentimento ancora più profondo e più difficile da spiegare per quelli che sono oggetto della mia predazione: sento in qualche modo di essere in debito con loro. Tratto con rispetto le loro spoglie, concedo un ultimo pasto ai camosci e avvolgo le coturnici in rametti di rododendro, ma soprattutto assegno loro un posto privilegiato nella mia memoria. Mi impegno a non dimenticarli. Ricordo ogni pernice, gallo forcello o lepre contro cui ho rivolto la doppietta; mi sforzo di non dimenticare la corsa del cinghialotto o il capitombolo del capriolo. Persino l’odore delle due volpi prese nel dicembre di undici anni fa mi è rimasto nel naso. Per gli ungulati mi viene in aiuto la preparazione del trofeo, che deve essere dignitoso e gradevole. E le penne del pittore sono sempre lì a ricordarmi quelle giornate nei boschi, il profumo acre delle ghiande e gli occhi scuri del cane. Mi ricordano le beccacce a cui sono appartenute e allo stesso tempo mi ricordano chi sono io.
Questo è il più grande gesto di rispetto che posso riservare agli un animali che cadono sotto il mio colpo: di affidarne il ricordo alla mia memoria di essere umano per farne un microscopico frammento di quel grandioso universo che è la storia.
Perciò mi dispiace un poco per quei cacciatori che non ricordano con chiarezza ciò che combinano per boschi e campagne e diffido di coloro che trattano pennuti e ungulati come un gioco, un punteggio o un bersaglio.
C’è un legame tra il cacciatore e la sua preda: un invisibile filo che unisce ed intreccia le loro vite. L’incanto racchiuso nelle parole di un indimenticabile maestro:
…i boschi, le valli, i monti, le case, gli uomini, i selvatici sono come avvolti in un’aria misteriosa e insolita. Qualcosa di nuovo accadrà certamente domani: molti uccelli avranno stroncato il volo, molti quadrupedi la corsa. Sarà morte per tante creature; sarà la fine di canti, di danze, di fame, di gelo. Un colpo: un’ala che si stira, una zampa che si rattrappisce; poi nulla. No, non nulla. Dall’altra parte ci sarà un uomo che raccoglierà non solamente il capo di selvaggina, ma anche tutto quello che questo era da vivo: libertà, sole, spazi, tempeste. All’uomo, inconsciamente, servirà dopo, quando riprenderà il lavoro di tutti i giorni e più ancora quando sarà vecchio e sarà lui ad aspettare la morte…
Mario Rigoni Stern. Il Bosco degli Urogalli