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La strada è ancora in salita

Del dissenso della gente comune verso i cacciatori ho già scritto altre volte. E’ un dato di fatto: anacronistici, incompresi, bislacchi e qualche volta sbruffoni, siamo una categoria che suscita scarsa simpatia.

Trovo che questo fatto sia naturale. E’ giusto che una persona sensibile e inconsapevole abbia un moto di stizza nel momento in cui viene in contatto per la prima volta con qualcuno che è dedito ad un’attività che implica l’uccisione di animali selvatici e innocenti. E’ giusto che, sulle prime, un uomo provi repulsione per un atto che appare di pura violenza. Le cose devono essere spiegate; il consenso verso il cacciatore deve essere fondato sulla consapevolezza e sulla comprensione.

In effetti devo ammettere di provare una certa diffidenza verso quelle persone che a primo acchito, senza saper nulla di me e senza avere approfondito in alcun modo la questione, si mostrano contenti del mio esser cacciatore. Bisogna essere dotati di un notevole cinismo o di una grande superficialità di fronte alla morte per riderci su una volta o fare spallucce. Qualcosa non funziona. Forse persino io stesso sarei anticaccia se non fossi nato cacciatore.

E non è uno scherzo. Capisco davvero chi si oppone d’istinto: perché approvino bisogna che qualcuno spieghi loro come stanno le cose.

Però quanta sofferenza e difficoltà in un confronto che quasi sempre è così duro da far apparire il reciproco rispetto come un miraggio, un obiettivo impossibile da raggiungere.

Il problema fondamentale rimane sempre la nostra oggettiva impossibilità di mostrarci in pubblico, di avere impatto mediatico, di trovare lo stratagemma per mostrare a un’ampia platea chi siamo e cosa facciamo. I cacciatori e i loro detrattori conducono esistenze lontane gli uni dagli altri, persino quando sono frequentatori degli stessi luoghi. Lo dimostra il disprezzo con cui alcuni alpinisti hanno commentato la settimana scorsa on-line l’inaugurazione del monumento al cacciatore di montagna nel comune di Usseglio: ci sono due mondi che non si parlano anche quando percorrono con diversi scopi i medesimi sentieri. I primi non hanno ancora trovato un modo davvero efficace di trasmettere e i secondi hanno ormai assimilato posizioni che li rendono incapaci di ascoltare e vedere.

Sì perché un conto è approcciare la caccia con scetticismo e cautela e un conto è avere invece giudizi preconfezionati e infrangibili contro cui non vale più alcuna argomentazione. Purtroppo il dialogo con queste persone è una strada tutta in salita e anche parecchio contorta. Un divario che nei momenti più negativi mi pare addirittura incolmabile.

Viviamo in un substrato culturale che ci penalizza in ogni circostanza: il bene, ciò che l’uomo comune cerca di perseguire e insegnare ai propri figli, è rappresentato dallo stereotipo del panda, dall’arcobaleno e dal cagnolino con la testa china. Il camoscio, la beccaccia o il setter sono simboli sconosciuti; le armi che maneggiamo sono uno strumento di morte tanto quanto quelle utilizzate in guerra. Sono finiti i tempi in cui il cacciatore buono, coltellaccio alla mano e schioppo in spalla, salvava nonna e nipotina dalle fauci del lupo. Oggi i cattivi siamo noi.

Una poesia di Natale di Anna Nocera, che i bambini imparano in questo periodo, insegna ai nostri piccoli a pregare Gesù Bambino perché porti tanto bene al mondo, perché faccia sì che i pesci siano felici nel mare e che i cani smettano di cacciare più le pernici. Si capisce che ai pesci basta l’acqua per prosperare ed essere contenti. Null’altro di più. Nessuno si domanda se non sia meglio pregare che finisca la pesca a strascico, che si smetta di riversare nei fiumi tonnellate di scorie inquinanti o che vengano risparmiati quintali di trote nei laghetti a pagamento. Silenzio sull’argomento, come se non esistesse attività antropica impattante sulla fauna ittica.

Invece per il benessere degli uccelli la faccenda è completamente diversa: non basta assicurare granaglia e rifugi sicuri, non bastano nidi di paglia e alberi fronzuti, ma la preghiera impone prima di tutto che qualcuno smetta di cacciarli.

Non me ne voglia questa squisita autrice di filastrocche natalizie per averla citata ad esempio, ma è proprio questo il nocciolo della questione. Avanziamo su un campo di battaglia come poveri derelitti contro un’armata roboante perché abbiamo una vera cultura contro di noi; un’enorme massa di persone, concentrata nelle grandi città ma anche sparsa per le campagna, che ci valuta negativamente senza neppure prendersi la briga di sapere chi siamo esattamente. Non sentono il bisogno di conoscerci prima di oltraggiarci perché ormai hanno interiorizzato un messaggio che dice che noi siamo gretti e dediti ad un’attività aberrante.

E’ dura, molto dura.  

La soluzione a questo problema io non ce l’ho e, come faccio sempre quando sono in difficoltà, posso soltanto infilarmi gli scarponi ai piedi e risalire questo irto sentiero. Non ho molti strumenti da utilizzare, se non quello del mio esempio di persona leale e che merita gli sia riconosciuta la dignità di essere un interlocutore. Chi vuole parlare con me è sempre benvenuto in casa mia.

Qualcuno sulle nostre riviste ogni tanto scrive che il consenso della gente è in aumento. Non ne sono sicuro e, col sospetto che queste statistiche siano un tantino autoreferenziali, spero sempre che non si proietti più su di noi l’ombra di un altro referendum. E ancora una volta dico di stare attenti a coloro che propongono di fare della caccia un’attività produttiva rilevante, una risorsa economica come lo è la pesca. Potrà servire a tutto, ma non a farci benvolere da color che già ci guardano con sospetto quando proponiamo iniziative culturali. Figuriamoci se cominciamo a parlare di soldi!  

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