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Letteratura venatoria

Nel nostro paese in questi anni abbiamo assistito al fiorire di una ricca produzione di testi che trattano tematiche venatorie: grazie a buoni organi di informazione e ad un’efficace divulgazione scientifica, i cacciatori si sono confermati lettori ottimi, attenti, avidi e capaci di crescere. La lunga tradizione letteraria della nostra terra ha dato i suoi frutti con la nascita di una moltitudine di racconti, valorizzati da concorsi letterari di varia natura, promossi da penne importanti e pubblicati in raccolte, su riviste e siti web.
Gesta e ricordi di cacciatori che descrivono pratiche, tecniche e disciplina di un popolo che ha molto da dire in fatto di boschi e di contatto con la fauna selvatica.
Racconti che contribuiscono a far crescere il livello culturale, che aumentano la conoscenza e la consapevolezza dell’individuo. Purtroppo racconti che hanno spesso il grande limite di essere indirizzati esclusivamente al pubblico dei cacciatori stessi, ma che ben poco riescono a trasmettere a coloro che cacciatori non sono.
Mi è capitato qualche tempo fa di imbattermi in una vecchia raccolta della Sadea Sansoni, tra le cui pagine mi sono perso per molte, lunghe ore, nella piacevole compagnia di autori del passato tra i quali Sir Henry Ridder Haggard, Paul du Chiallu, Francis Parkman, Luigi Ugolini, Italo Calvino e molti altri. Mi sono letteralmente perduto nelle descrizioni di quei paesaggi esotici, mi sono immerso nelle foreste incontaminate per riemergere nelle assolate lande americane, sognando ad occhi aperti come un ragazzino. E tra un’avventura nell’Africa Nera ed una battuta ai camosci sulle montagne piemontesi ho capito cosa differenzia quei grandi della letteratura mondiale dai molti, pur bravi narratori che oggi scrivono di caccia: quegli uomini, quei cacciatori, si rivolgono alla gente del loro tempo. Non parlano solamente di caccia, ma vanno oltre la caccia, testimoniando di un’attività venatoria fusa con la quotidianità e concepita come elemento abituale. Scrivono di caccia, ma al tempo stesso immortalano uno spaccato del mondo e della loro epoca. Soddisfano il gusto dei loro lettori contemporanei, lasciando per noi preziose informazioni sul nostro passato.
Una funzione divulgativa, un’apertura nei confronti della società, che la letteratura venatoria dei nostri giorni deve ancora riconquistare.
Leggendo Le beccacce di Guy de Maupassant non posso fare a meno di domandarmi se ciò che ho sotto gli occhi è un racconto di caccia. E’ un gioiello piuttosto, una perla. Nessuna azione particolare, niente cani da spettacolo o tiri strepitosi. Eppure lo stratagemma di una fuga da Parigi alla ricerca del prezioso scolopacide ci proietta nella campagna francese del IX secolo, trasmettendocene con straordinaria efficacia la povertà, l’ipocrisia e la sua brutale bellezza. E’ forse un racconto di caccia Breve la vita felice di Francis Macomber di Hernest Hemingway? La vicenda di un classico safari africano della prima metà del novecento ci parla di un amore mancato, di un matrimonio rovinato dalla convenienza e dalla difficoltà di rapportarsi di un uomo e di una donna in una società in cui i ruoli si basano più sull’apparenza che sulla sostanza e in cui si perdono valori fondamentali dell’esistenza.
E’ letteratura venatoria questa? Un cacciatore può senza dubbio godersi le belle scene, gli inseguimenti e le sfide con bufali e leoni. Ma anche un lettore lontano dal nostro ambiente può appassionarsi a un racconto con questo taglio, cogliendo l’arte e la sensibilità dell’autore, sentendo che con esso può creare un legame.
Questo deve tornare ad essere la letteratura venatoria: lo strumento per veicolare l’attenzione e l’interesse del grande pubblico su di noi. Questa era la grandezza del compianto e insostituibile Mario Rigoni Stern, unico cacciatore a cui i quotidiani del nostro paese abbiano mai concesso incondizionatamente voce su tematiche ambientali cruciali. La letteratura può essere il mezzo per acquisire autorevolezza. E fortunatamente, nonostante la grande crisi del settore, in Italia c’è ancora qualcuno che legge.
Quando pubblico un libro spesso mi chiedono se parla di caccia. Un tempo la domanda mi sorprendeva e non sapevo cosa rispondere. Oggi lo so: sono un cacciatore e anche il più fantastico e surreale dei miei testi contiene in sé un barlume di quella passione che scorre nelle mie vene e spero possa essere colto.
Forza allora con una letteratura aperta a tutti, quella che va oltre le descrizioni e gli eventi, quella in grado di mostrare alla gente come la caccia possa essere una cura contro tanti mali della nostra società; quella che può emozionare i bambini e che può far sorridere le mogli. Ben vengano Un angelo frangiato, Di nebbia e di ricordi, Natale pagano e Le uova della Lepre. Ben venga una letteratura davvero in grado di farci conosce, come persone prima che come cacciatori.
Marco Sartori.
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