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Ai cancelli del cielo

Con manone che parevano badili, e piedi che avrebbero potuto comodamente calzare valigette ventiquattrore, Lollo era di mezz’uomo più grosso degli altri. Il suo vero nome era Lorenzo, ma sin da bambino s’era presa l’abitudine d’usarne quel diminutivo e così, alla fine, quasi nessuno ricordava davvero come si chiamasse.

Adesso con un peso a tre cifre, e una statura che lo elevava d’una testa sopra la media, faceva un certo effetto vederselo venire incontro; ma nonostante la mole lo rendesse più simile ad un buttafuori, o al guardaspalle di un boss della mafia italo-americana, Lollo era un uomo mite e pacifico.

Quella mattina s’era alzato prestissimo: dopo mesi d’attesa s’ apriva la caccia al camoscio e ricominciava la sua sfida personale.

Lo zaino era già stato preparato la sera precedente, ma lui controllò nuovamente. L’ansia della vigilia giocava brutti scherzi e trovarsi in quota, a filo del cielo, senza il prezioso corredo, poteva essere molto pericoloso.

Anni prima s’era perso nella nebbia, calata improvvisa fitta e densa come zucchero filato. Solo a notte avanzata aveva ritrovato il sentiero che l’avrebbe condotto all’auto.

I telefonini erano ancora cosa da film americani, e i gps sconosciuti ai più, e così la fidanzata aveva già allertato i soccorsi. Quando lo riabbracciò era così felice che decise di festeggiarne il rientro…a modo suo!

Per lui, scosso per lo scampato pericolo, fu notte memorabile e molto più stancante dell’avventura montana.

Ora che la morosa era diventata moglie le conseguenze sarebbero state ben altre, di certo meno intriganti e piacevoli.

In punta di piedi entrò nella cameretta dei bambini per verificare che tutto fosse a posto; carezzò la bimba ma evitò d’avvicinarsi troppo al letto del maschietto. Paolo, così si chiamava il figlio, aveva il sonno leggero e si fosse svegliato avrebbe fatto il diavolo a quattro per seguirlo. Più in là nella stagione l’avrebbe portato con lui, ma l’apertura era un rito che andava consumato in solitudine.

In verità proprio solo non sarebbe stato perché Silvio, il suo compagno, l’aspettava fuori; anche lui avrebbe cacciato il camoscio, risalendo il monte da un altro versante. Giunti in cima, sarebbero tornati a valle insieme.

L’amico aveva un piano d’abbattimento per una femmina mentre a lui era toccato il maschio e aveva da risolvere una questione tutta sua, aperta da anni. E così i due non si sarebbero intralciati perché fin verso la stagione degli amori, ancora lontana, i becchi solitamente vagano isolati mentre femmine e piccoli, accompagnate da qualche giovane, stanno imbrancate tutte assieme, talvolta più in basso e al limite dei boschi.

Lollo frequentava quelle zone sin da ragazzo, ed era lì che aveva incontrato Silvio, un tipo magro e segaligno, piuttosto schivo, che su quei monti c’era nato e vissuto.

Vederli in compagnia era buffo, con l’uno che sembrava la custodia dell’altro.

L’amico conosceva tutti gli angoli e ogni singola pietra di quei posti: d’inverno ci lavorava agli impianti di risalita; in estate aiutava i suoi che gestivano un piccolo esercizio commerciale.

I due erano diventati inseparabili e Silvio, superata la naturale ritrosia delle genti alpine, l’aveva edotto sui segreti della montagna.

Era stato lui a portarlo la prima volta a vedere il nido dell’aquila, e sempre lui l’aveva condotto in una grotta segreta, usata dai partigiani nell’ultima guerra. Lì, raccontavano i vecchi, erano ancora seppellite molte armi sottratte ai tedeschi.

Poi Lollo s’era sposato e Silvio aveva conosciuto una ragazza londinese; l’aveva seguita in patria e per un paio d’anni non s’erano visti e nemmeno sentiti.

Purtroppo la storia era andata male e lui se n’era tornato a casa, alla vecchia vita. L’esperienza inglese ne aveva smorzato l’asprezza caratteriale e Silvio era diventato un compagno piacevolissimo.

Quella mattina tutti e due erano d’ottimo umore.

- Senti Silvio, pensavo di lasciarti alla Baita del Fontanile, da lì puoi salire lungo il vecchio Sentiero dei Rododendri, costeggiando il bosco.-

- Va bene Lollo, i camosci l’altra settimana erano ancora alti, ma la nevicata li avrà certamente mossi - replicò l’amico.

In quel settembre il tempo era stato a lungo inclemente, ma infine s’era stabilizzato e le temperature risalite ai valori consueti.

La luna piena e una notte limpida ammantavano i monti d’uno scuro mantello, screziato di bianco dalle poche lingue di neve resistenti ai potenti raggi del sole.

I due conoscevano la zona a menadito, e su quei ripidi pendii avevano consumato parecchie suole di scarponi.

Arrivarono ad uno spiazzo erboso, cinto da un basso steccato; la strada moriva lì, riducendosi ad uno sconnesso sentiero. Sulla destra una fontana e poco dietro, illuminata dai fari della loro auto, una vecchia baita, piuttosto mal messa.

- Allora Silvio io tornerò sino al bivio e prenderò la pista che porta verso il colle. Dovrei riuscire a salire almeno sino alla capannina dei forestali. -

- Va bene - rispose l’altro – allora sintonizziamo le radioline sul solito canale, perché lassù il telefonino non prende più. -

Silvio si caricò lo zaino sulle spalle e, estratta la carabina dal fodero, s’incamminò lungo l’ aspra mulattiera.

Lui girò l’auto e percorse il breve sterrato sino alla deviazione, iniziando la salita.

Alla capannina non arrivò perché la strada era interrotta un po’ prima: uno smottamento del terreno aveva reso pericoloso il transito e i forestali l’avevano bloccata. Innestò la retromarcia e tornò indietro d’un centinaio di metri sino ad un punto dove la stradina s’allargava. Parcheggiò, controllò per l’ultima volta l’attrezzatura e partì.

Pare curioso, ma il momento più buio e freddo della giornata è immediatamente prima dell’alba.

Le previsioni promettevano una bella giornata di sole e lui s’era scelto un abbigliamento leggero. Aveva indumenti di scorta nello zaino e fu tentato di estrarne uno particolarmente caldo.

Poi ricordò l’ammonimento di suo nonno : - Dal freddo ti puoi sempre riparare, dal caldo no - e così rinunciò.

La salita sarebbe stata lunga e faticosa, meglio evitare un’abbondante sudata e stringere i denti.

Era ancora buio ma la luna piena garantiva illuminazione sufficiente e così la piccola torcia elettrica, che si portava sempre dietro, rimase spenta.

Non aveva certo un fisico da montanaro, e faticò non poco a rompere il fiato e prendere il ritmo giusto.

Marciò un’oretta filata prima di fare una sosta. Allora si ricordò del suo compagno.

Silvio doveva essere quasi al Pian del Sole, dove c’era l’alpeggio ormai deserto. Una volta raggiuntolo, sarebbe risalito lungo un piccolo corso d’acqua, cercando il riparo delle piante che l’incorniciavano ai lati.

Nelle settimane precedenti, quando c’erano ancora i margari con il bestiame, sui pendii erbosi che s’impennavano più in alto, avevano avvistato alcuni branchi di camosci.

Guardò l’orologio. Erano da poco passate le sette e di lì a poco a casa sua sarebbero iniziati i guai.

Paolo si sarebbe svegliato e, non trovandolo, avrebbe capito scatenando l’inferno. La mamma un po’ avrebbe retto, per chiudere poi la discussione con uno scapaccione. S’accese una sigaretta.

Un ronzio giunse dalla tasca interna del giubbotto: la radio.

- Leo, Leo, mi senti? Sono Gemini .-

La legge ne vietava l’uso, la prudenza lo consigliava e così loro per evitare problemi s’erano scelti nomi di fantasia.

- Gemini, ti sento. Dimmi.-

- Ho camminato veloce e superato il pianoro. Salendo lungo il Bosco delle Fate più su, nei pratoni che prendono il primo sole del mattino, ne ho visti una dozzina.-

- Lontani? -

- Saranno quattro o cinquecento metri. Provo ad avvicinarli da sotto.-

- Ok, fammi sapere. La strada era bloccata e io sono in ritardo. Sarò in cima non prima di mezzogiorno. A dopo.-

- Roger, Leo.-

Spense radio e sigaretta e riprese la marcia.

Dopo il primo tratto fittamente alberato, mano a mano che si saliva, il panorama boschivo cambiava e faggi e betulle cedevano ora il posto a flessuosi larici e alti abeti rossi.

Il sole aveva fatto capolino dietro il profilo dei monti, e la catena dentata che si svolgeva di fronte a lui appariva in tutta la sua magnificenza.

Il pensiero corse alla settimana che stava finendo; la crisi mordeva e anche Lollo la stava patendo. Molti suoi amici avevano perso il lavoro e lui, piccolo artigiano, tutto sommato poteva ritenersi fortunato. Le banche gli stavano addosso ma la sua attività gli dava ancora da mangiare. Due collaboratori se n’erano andati in pensione e non li aveva più sostituiti. Rammentò la serenità degli anni di scuola, i sogni giovanili e i sacrifici dei primi tempi.

Quando s’era sposato sua moglie lavorava ancora, ma con la nascita dei bimbi lui le aveva chiesto di restarsene a casa; quello stipendio adesso sarebbe stato molto utile.

Cacciò dalla mente quei tormenti, cercando di liberarsi dall’ansia che l’aveva preso.

Superato un tratto infido, tappezzato da ontani bassi e contorti come serpi, il sentiero s’inerpicò in una serie di tornanti, stretti tra scoscese pareti rocciose.

Nonostante la mole imponente, Lollo sembrava a suo agio, muovendosi con la lestezza d’uno che pesasse una quarantina di chili in meno. Il lungo bastone, inseparabile ausilio in quelle occasioni, fungeva da timone, dando ritmo e sostegno alla sua scalata.

Giunto in cima si scaricò dal peso dello zaino e si godette lo spettacolo.

Davanti a lui s’apriva un ampio e profondissimo vallone, in cima al quale s’intravedeva, netto, il contorno di un edificio diroccato. Era una fortificazione, d’inizio novecento, eretta al colmo di valli confinanti con la Francia, nostra nemica di quei tempi.

" Bum! " Un boato non troppo lontano squassò il silenzio del monte: una fucilata, forse di Silvio.

Trascorsero un paio di minuti e attaccò l’atteso ronzio.

- Dimmi Gemini, sei stato tu?-

- Sì Leo, ho fatto il compito. Vado a vedere il risultato - e chiuse.

Lollo decise di fare un piccolo spuntino e diede l’assalto al panino preparato dalla moglie. Finito, cominciò l’esplorazione con il suo potente binocolo.

Riprese il ronzio.

- Leo, è andata bene! Se ti serve aiuto salgo ancora e ti raggiungo, altrimenti torno verso la baita e t’aspetto lì. -

- Non fare tutta quella fatica, il lavoro è pesante! Scendi pure, ci vediamo nel tardo pomeriggio. -

Quindi ripose la radio nello zaino e trasse un profondo respiro, per nulla dispiaciuto dal dover proseguire solo.

La salita era stata impegnativa ma ancor più dura lo sarebbe stata la discesa se pure lui avesse fatto carniere.

Le lenti del binocolo restituirono solo l’immagine delle marmotte, messe in allarme dal fischio della prima che l’aveva avvistato; di camosci però, nemmeno l’ombra.

Si ricordò di quella volta che dopo una tremenda marcia li aveva incontrati.

Riposavano al fresco, nascosti tra sfasciumi di granito taglienti come lame, e fu un caso vederli. Li aveva avvicinati cautamente ed era riuscito ad uccidere una vecchia capra, priva di prole.

Anche quella volta era solo, e la discesa a valle, con l’animale alloggiato nello zaino, s’era trasformata in un incubo. Giunto all’auto, e scaricato il peso, aveva provato un sollievo indicibile, giurando a se stesso che non sarebbe mai più accaduto.

Mentiva, mentiva a se stesso e quello stesso giorno, in cuor suo, sperava di poter ripetere la faticosa esperienza.

Nel primo tratto il canalone era ancora piuttosto stretto, ma allargava addolcendosi verso la cima, dove si raggiungevano quasi i tremila metri.

Il sole era alto e il caldo si faceva sentire. Lollo si compiacque d’essersi vestito leggero.

Sembrava incredibile ma lui stava vedendo le stesse cose di chi nei secoli passati s’era avventurato in quei posti, uomo di monte o soldato di ventura che fosse.

Gli ultimi larici lasciavano il posto a resistenti arbusti alpini, e muschi e licheni si guadagnavano uno spazio vitale tra rocce aguzze e lucenti. Praterie spruzzate di fiori vivaci su un lato, chiazze di neve su quello risparmiato dal potente martellìo dei raggi solari.

Lassù era nel regno dei grandi delle vette: dei potenti stambecchi e degli agili camosci, dell’aquila maestosa che pittura il cielo i suoi cerchi perfetti e della mutevole pernice che frulla via, improvvisa come una bianca farfalla.

Com’erano lontane la città, gli affanni, le tensioni quotidiane.

S’accorse che tutto era perfetto, e lui un invitato di rango alla grandiosa rappresentazione della natura.

Che bello sarebbe stato avere lì, Paolo, sua moglie, la bimba.

Pensò pure a Dio. Non era un fervente praticante, ma a modo suo si sentiva molto religioso. Quando, salendo a monte, albeggiava; o mentre scrutava le cime infinite con il suo binocolo; infine quando ridiscendeva a valle con le calde luci del vespro ad accompagnarlo, allora Lollo non poteva far a meno di credere che tutta quella meraviglia fosse opera di un essere superiore, d’un grande architetto cosmico.

A quel punto trovare il camoscio, il formidabile animale che braccava da anni, era solo qualcosa in più.

 

Proprio in quel posto s’era imbattuto in lui, per la prima volta.

Si trattava di un maschio imponente, dotato del più bel trofeo che avesse mai visto.

L’animale, forte e furbo come nessun altro, gli si era presentato a poche decine di metri mentre lui saliva al colle per un’ escursione estiva.

Il becco l’aveva scrutato dall’alto, proprio come un re che superbo guardi i suoi sudditi. Poi, in segno di sfida, aveva soffiato aria dalle nari emettendo un lungo sibilo, simile al soffio d’un grosso serpe. Lui s’era bloccato per ammirarlo meglio. L’animale non era fuggito ma s’era girato tranquillo, rimontando imperioso un erto ghiaione. Quasi fosse apparizione diabolica era sparito tra le rocce, così velocemente com’era arrivato. A Lollo s’era gelato il sangue nelle vene e aveva deciso che quella magnifica bestia avrebbe dovuto essere sua.

Il Creatore ha concesso a quelle capre selvatiche un fisico eccezionale: polmoni capienti, garretti di ferro e il sangue, denso di globuli rossi, pompato da un cuore potentissimo. Quello, poi, tra i camosci era di certo il campione assoluto. Più volte era tornato su per lui, scorgendolo sulle vette ove regnava da anni.

L’ aveva insidiato nella stagione degli amori quando i maschi sono più belli, già vestiti dal nero e folto mantello invernale su cui spicca il bianco accecante della maschera facciale. In quel periodo la tempesta ormonale li rende imprudenti e sfrontati come uomini pazzi d’amore per una bella donna. Pur se protetti dalle molte paia d’occhi del branco, i becchi si lasciano avvicinare dal cacciatore, che per loro è solo un rivale di cuore.

Cauto, raggiungeva gli animali ormai riuniti e compatti, ma del suo camoscio non v’era mai traccia.

Poi quando imboccava la strada del ritorno lui, beffardo e irriverente, si faceva vedere sulle frastagliate creste, accompagnandolo nella discesa come un pellerossa che segua a cavallo i soldati nemici lungo l’infido canyon.

Una volta, esasperato da quel comportamento, gli aveva persino sparato da distanza impossibile. Se n’era subito pentito, ma il re non s’era scomposto, e nemmeno l’aveva degnato della fuga.

Lollo si fermò, asciugando con il braccio il sudore che gli colava abbondante dalla fronte. Lo zaino era diventato greve come un macigno e si sedette su una roccia, appoggiandolo su un piccolo rialzo per alleviarne il peso dalle spalle.

Il sole era forte e lo colpiva proprio sul viso. Portò su la mano, a riparare gli occhi, e li vide subito.

Duecento metri sopra, sul lato in ombra, un branco di camosci pascolava tranquillo.

Prese il cannocchiale e lo puntò sugli animali. Erano femmine e piccoli che stavano cercando la frescura al riparo di quelle lisce pareti. Lollo li osservò curioso per alcuni minuti poi, recuperate le forze, riprese l’ascesa alla sommità del vallone.

Chissà se Silvio era già alla Baita del Fontanile? Beato lui, che aveva terminate le sue fatiche. E Paolo, s’era calmato ? Il pensiero volava leggero mentre continuava la marcia.

Attraversò una piccola conca, protetta da imponenti massi trascinati giù da antichi ghiacciai e dove il sole non aveva ancora fuso l’ultima neve. Misurava una spanna, troppo poco per costringere quelle bestie a scendere di quota. Il suo maschio di certo era più in alto.

Il profilo dei monti sul cielo carico d’azzurro, l’aria limpida e pura di quel pezzo di paradiso dove si potevano baciare le nuvole, gli offrivano in dono la più bella delle giornate di caccia. L’indomani in città sarebbe ricominciata la vita tribolata di tutti i giorni.

Che meraviglia poter fermare il tempo, cristallizzando per sempre quegli attimi.

La sagoma del forte appariva ancor più vicina: neanche una mezz’ora e sarebbe giunto in cima, adesso bisognava procedere con prudenza perché il becco poteva essere vicino.

Sulla sua destra due camosci lo stavano osservando. Puntò il binocolo. Erano maschi.

Uno, più vecchio, aveva un buon trofeo mentre l’altro, il giovane scudiero, non meritava le sue attenzioni.

Erano entrambi a tiro e pensò che avrebbe potuto chiuderla lì, sparando al più bello.

Ma no, lui non era salito sin lassù per un camoscio qualunque; a guidarlo era un filo invisibile e poco gli importava delle corna, ancor meno della carne; la sfida: solo quella contava !

Sapeva che l’avesse ucciso subito si sarebbe pentito; l’avrebbe voluto destare rianimandolo per farlo correre ancora tra quelle balze rocciose. Forse avrebbe anche pianto: di gioia e dolore.

Guardò la vecchia costruzione e s’interrogò sulla sua storia. Chissà, magari lì ci avevano combattuto e s’erano immolate giovani vite per difendere la patria. O invece s’era ridotto così solo per l’abbandono degli anni.

- Domani farò qualche ricerca per saperne di più - disse a voce alta, senza nemmeno pensare che nessuno lo stava ascoltando. Era solo, e voleva esserlo.

Molto più vicino al cielo di quanto fossero le genti che, industriose formichine, popolavano le pianure.

Bisognava affrettarsi, e raggiungere il colle che affacciava sull’altra valle, altrettanto bella e selvaggia.

Appoggiò malamente un piede, scivolando su una roccia resa viscida da una bava d’acqua che stillava dal fianco del monte. Imprecò, e si sedette a lato del sentiero per massaggiarsi la caviglia.

Mentre compiva quest’operazione un fischio acutissimo, quasi stridulo, tagliò l’aria.

Un camoscio s’era accorto di lui e gridava il suo allarme. Lollo cercò d’individuarlo tra le rocce e quando lo inquadrò ebbe un sussulto: era il suo, il Re !

Il maschio doveva averlo visto da un pezzo e l’aveva lasciato salire. Adesso invece lo sfidava, battendo violentemente lo zoccolo sul terreno. Il cacciatore rimase pietrificato.

L’animale si presentava di tre quarti, spuntando da una roccia che sembrava esserne il trono e non servivano moderne diavolerie per capire come la distanza lo rendesse facilmente sparabile. Lentamente tirò su il binocolo e le lenti gli rimbalzarono, nitida, l’immagine del "camuss", come lo chiamavano i suoi vecchi.

Il manto ancor estivo, più rado e chiaro, non ne sminuiva affatto l’imponenza, e l’occhio umido e bruno rendeva fiero lo sguardo del monarca assoluto.

Il Re portava per splendida corona due corna che, scure e fortissime, s’alzavano lunghe ben sopra le orecchie appuntite, chiudendosi in cima con un formidabile uncino, un’ arma di lotta che tanti rivali in amore aveva sconfitto e probabilmente ucciso.

Lollo sfilò cautamente lo zaino, lasciandosi scivolare dietro. L’altro, sempre immobile, osservava.

Con studiata lentezza vi appoggiò sopra la carabina e tolse i tappi che coprivano l’ottica. Nel tubo vide l’immagine della nobile capra, grande e vicina come mai avrebbe sperato d’averla.

Il camoscio ruotò il capo verso la sommità del monte, come a cercarsi una via di fuga, ma non si mosse e tornò a fissare solenne il cacciatore.

I secondi scorrevano, lenti e senza succedesse nulla.

Lollo tremava e sentiva il battito salire, l’emozione serrargli la gola.

Deglutì, trasse un profondo respiro, infine decise.

Tolse la sicura. Al centro del reticolo una croce indicava il punto d’impatto del proiettile e lui l’allineò appena dietro la spalla dell’animale.

Il dito sfiorava il grilletto: ormai era suo!

Ciò che il camosciò udì non fu il tuono spaventoso della fucilata mortale, ma un secco rumore metallico, seguito dal tintinnio di un bossolo d’ottone che rimbalzava sulle rocce.

Lollo scaricò la carabina, s’ alzò, prese lo zaino e, con un breve inchino verso il Re, si tolse il cappello.

Si girò, inspirò tutta l’aria di cui erano capaci i suoi polmoni, e s’avviò; Silvio l’aspettava alla baita per onorare la sua camozza.

Il maschio in quegli attimi eterni era rimasto calmo, e continuò ad osservarlo come nulla fosse accaduto.

Quando lo vide incamminarsi verso valle emise un sibilo fortissimo, l’urlo ferino della battaglia conclusa per sempre.

Quel giorno, ai cancelli del cielo, avevano vinto in due.

 

Racconto segnalato alla VII edizione del Premio Letterario "Giacomo Rosini", concorso internazionale aperto alle lingue dell'arco alpino organizzato e promosso dal circolo Ars Venandi

 

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