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Cucciolo

 

Dei tre fratelli Giulio era l’ultimo nato, tanto che in famiglia tutti lo chiamavano  “ Cucciolo”.

Il padre aveva cominciato a  portarseli in montagna non appena ognuno di loro aveva imparato a reggersi in piedi, e quando furono cresciuti un po’ iniziò  a farsi seguire anche nelle sue cacciate.

Ben presto però i due più grandicelli avevano perso la passione, preferendo alla fatica delle dure marce alpine i campi sportivi e le prime uscite con i compagni di scuola.

Restava Giulio e con lui  tutto fu diverso.

Il piccolo trotterellava senza sosta dietro al padre, felice e curioso proprio com’è sempre ogni cucciolo d’animale.

E così facendo, tra quelle antiche selve, il bimbo imparò a riconoscere l’orma del capriolo, il bramito del cervo, il rugolìo del gallo o il volo regale dell’aquila, prim’ancora che a leggere e scrivere.

Quel suo figlio aveva in se l’anima del cacciatore, e il padre leggeva nei suoi occhi una profonda attrazione per il bosco e tutte le meravigliose creature che lo abitavano.

Memorabili erano diventate le liti con la madre tutte le volte che  decideva di farsi accompagnare dal piccolo  lassù, tra i suoi adorati monti.

“ Diventerà come te ! ” gli rinfacciava lei, ben sapendo che non l’avrebbe comunque spuntata.  Poi, rassegnata e stanca di discutere,  li salutava con un buffetto affettuoso e dispensando un sorriso nient’affatto stentato, conscia com’era che quei due erano uguali; ma a lei, che li amava profondamente, in fondo andava bene così.

Giulio cresceva sano e robusto, aumentando ogni giorno conoscenze e abilità, tanto che ormai il padre lo voleva con se anche nelle uscite più dure e impegnative.

Tra loro s’era creato un legame fortissimo, una relazione tra compagni d’avventura più che tra padre e figlio: Giulio lo cercava con lo sguardo o  la manina e anche lui traeva forza e sicurezza dalla sua presenza.

In famiglia, fino ad allora, non c’era mai stato alcun cacciatore ed egli stesso s’era scoperto quella passione solo in età adulta; ora guardava a quel vivace marmocchio e sentiva il dovere di trasmettere gli antichi valori che ormai aveva fatto suoi.

Con la mamma alla fine s’era arrivati alla tregua, stipulando un onorevole compromesso: se il rendimento scolastico fosse calato allora le uscite montane sarebbero state immediatamente sospese.

Giulio aveva preso molto seriamente quella minaccia ed era diventato uno studente modello.

Quando le mattine di caccia il padre s’avvicinava al suo letto per svegliarlo bastava solo lo toccasse. Lui, come una molla compressa e poi rilasciata, balzava su, stropicciandosi gli occhi e chiedendo preoccupato se fosse già tardi.

Nemmeno gli toccava insistere troppo perché facesse colazione o si preparasse velocemente, comportamento nient’affatto abituale quando invece doveva andare a scuola.

Una mattina Giulio s’accorse che il padre era molto diverso dal solito, sembrava turbato, e  nei suoi occhi non c’era più quell’allegria che solitamente l’accompagnava quando si recavano in montagna.

La sera prima poi l’aveva sentito parlottare con la mamma e aveva capito che qualcosa di serio preoccupava i suoi genitori.

Presero Febo, il giovane spinone  con cui cacciavano da un paio d’anni, e s’avviarono.

Il profilo dei monti spruzzati di neve spiccava sul cielo d’un blu scurissimo, quasi nero; la notte, gelida ed incredibilmente stellata, avvolgeva tutto in un’atmosfera magica e surreale.

Durante il viaggio il padre quasi non parlò, e quando arrivarono sul posto si limitò a controllare che Giulio fosse ben coperto dato che la temperatura era di molto inferiore allo zero.

Nelle prime due ore non accadde nulla ma, con il sole che aveva preso a scaldare l’aria, non appena entrarono nel bosco Febo cominciò a manifestare una certa irrequietezza.

Il cane rallentò la sua azione, bloccandosi brevemente a ridosso di un folto cespuglio di rododendri,  poi  cominciò a dettagliare frugando con il naso a terra sotto un larice secolare, contorto e maestoso come un dio delle foreste.

“ Zitto!” gli disse mentre con un braccio lo teneva cautamente indietro, “ Dev’essere un gallo che  è sceso dalle piante in pastura.”

Lo spinone, dopo una prima esitazione, rintracciò l’usta e rimontò con prudenza un piccolo canalino erboso tappezzato di mirtilli. Arrivato in cima s’irrigidì, quasi fosse una statua.  Subito s’udì il fragore d’un frullo improvviso.

Come un sasso scagliato con forza, il forcello si catapultò a valle, saettando veloce tra quell’intrico di rami.

Un colpo secco e l’uccello si chiuse sulle sue ali, precipitando al suolo.

Quando Febo lo riportò il padre, raggiante come sempre in quelle occasioni, lo consegnò delicatamente a Giulio:

“ Vedi Cucciolo, a volte gli adulti hanno dei problemi che sembrano loro insormontabili. Quando mi è capitato io sono sempre venuto quassù, tra questa natura, al cospetto di queste immense montagne. Per me è come rinascere, ed è successo anche oggi ! ”

Detto ciò lo prese per mano e insieme tornarono all’auto.

Poi venne quel giorno, quella terribile notizia. Terribile e violento com’era stato il male che s’era portato via il suo papà.

Il dramma piombò su tutta la famiglia, ma fu Giulio che reagì in maniera imprevista: non versò nemmeno una lacrima, trincerandosi in un silenzio assoluto. Sembrava avesse smarrito tutto il suo spirito vitale, serrando le porte al mondo esterno.

La madre dovette superare l’iniziale fase di sbandamento, ma si diede molto da fare e  prese in mano le redini dell’azienda di famiglia, aiutata dai figli maggiori che nel frattempo s’erano iscritti all’università.

Passarono gli anni e Giulio, ormai non più “ Cucciolo”, sembrava ancora non aver accettato quella nuova realtà.

S’era fatto un ragazzone ma nulla lo interessava davvero: non più lo studio e nemmeno gli amici; la caccia poi l’aveva completamente rimossa dai suoi ricordi.

Mamma e fratelli le avevano provate tutte: invano!

Quel  maledetto giorno, a lui, s’era spento per sempre il sorriso.

Una mattina che si trovò solo in casa uscì nel giardino e s’avvicinò al serraglio dove, ormai vecchio e  un po’ imbolsito, riposava Febo.

Da quando il padre era morto lo spinone era stato condannato ad una vita sedentaria, interrotta saltuariamente da qualche corsetta nei prati circostanti. Anche lui appariva sempre triste e svogliato.

Quando il cane lo vide cominciò a guaire speranzoso e a Giulio, questa volta, scattò come una molla improvvisa.

Corse in casa e uscì di lì a poco,  vestito alla bell’e meglio e con il fucile che era stato del padre sotto il braccio.

Prese il fuoristrada e caricato Febo, che aveva capito e s’agitava come un pazzo, s’avviò verso quelle montagne che da allora non aveva più voluto rivedere.

In cuor suo sapeva  di commettere una follia.

L’avessero scoperto la madre o i fratelli sarebbero stati guai; se poi fosse stato fermato dalle guardie allora avrebbe avuto seri problemi anche con la giustizia, dato che era privo di licenza e porto d’armi.

Abbandonata la statale s’inerpicò sul ripido sterrato che conduceva alla baita ov’era solito fermarsi con il padre. Il bosco dei galli era proprio lì sopra.

Fece scendere il cane che s’avviò ciondolando attraverso l’alpeggio.

Era ottobre inoltrato ma faceva insolitamente caldo.

L’autunno aveva acceso di tutti i suoi fiammeggianti colori i monti, e a Giulio parve d’essere tornato indietro nel tempo; sgomento per la situazione si guardò attorno, ansioso come fosse ancora alla ricerca del  padre.

Anche per Febo gli anni erano passati ma il cane non aveva smarrito la passione di un tempo. Entrarono nel bosco.

Tutto sembrava proprio come allora e lo spinone si ricordò del suo antico terreno di caccia.

Guidato dal suo istinto, e senz’alcuna esitazione, si diresse verso il fitto macchione  dove tante volte aveva scovato i fagiani di monte. Giulio lo seguiva, ansimando per l’emozione.

E accadde che subito il cane accennò ad una ferma, rotta immediatamente dall’involo di un forcello disturbato da quell’inattesa azione di caccia.

Giulio fu colto impreparato e si vide sfilare davanti quel diavolo nero vestito di piume.

Si girò e, quasi cadendo, esplose le due schioppettate senza nemmeno vedere dove andassero.

Poi, come liberato da un peso insopportabile, si gettò a terra e scoppiò a piangere disperato, riversando tutte quelle lacrime che negli anni s’era tenuto dentro.

D’improvviso avvertì un tepore che lo avviluppava come in un soffice mantello e, tra la luce diafana del sottobosco, gli sembrò di vedere una figura che s’avvicinava a lui. Pareva fosse suo padre e che gli dicesse:

“Ehi Cucciolo, raddrizza le canne: quel gallo è morto per la paura ! ”

Un sorriso rischiarò il volto ormai segnato dalle lacrime  e Giulio si asciugò gli occhi.

Accanto a lui c’era il vecchio Febo, che forse aveva compreso la situazione e gli leccava insistentemente la mano. Ai suoi piedi aveva deposto un superbo gallo.

Giulio lo raccolse e sentì che era ancora caldo.

Accarezzò quel morbido piumaggio dai riflessi nero bluastri e sospirò, come sollevato. Capì che sarebbe tornato tra quei monti molte altre volte, e che  non sarebbe stato più solo.

Il giorno seguente la mamma ricevette una strana telefonata dal custode del cimitero: la informava d’aver trovato sulla tomba del marito un magnifico uccello nero,  d’un tipo che lì  non s’era mai visto.

(Racconto segnalato alla VI edizione del "Premio Giacomo Rosini", Concorso Letterario internazionale per racconti venatori organizzato dall'Ars Venandi)

 

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