Menu
RSS

facebooktwitteryoutubehuntingbook

Il re gentile

 
 
Lupo era un uomo che faceva paura.
Era alto come un larice ed aveva spalle larghe un metro. Portava i lunghi capelli castani sempre sciolti e non proprio ordinati. Aveva la mascella larga e massiccia, un po’ ispida e storta, qualcuno diceva a causa di un cazzotto. Quasi sempre era vestito con un paio di vecchi jeans, una camicia e un maglione verde che si toglieva in estate per rimetterlo d’inverno. E non si lavava troppo spesso. Ai piedi portava gli scarponi che gli servivano per il suo lavoro di muratore, ma anche per fare legna e per andare a caccia. Viveva in una casa di pietra con una camera, una cucina in cui c’erano solo tavolo, lavandino e stufa ed aveva una piccola stalla vuota che usava da garage e riparo per la legna. Sulla recinzione del pollaio inchiodava le code delle volpi che catturava perché era convinto che servissero da deterrente contro quelle che ogni tanto gli portavano via una gallina. Ma era una convinzione fasulla perché le volpi continuavano a fare irruzione oltre la griglia e lui era costretto a continuare la sua personale guerra contro di loro.
Sapeva a malapena leggere, Lupo, ma i suoi occhi azzurri e strani vedevano molte cose prima degli altri; perciò nel bosco si muoveva come un animale selvatico, attento e scaltro come una faina. E in effetti aveva in sé qualcosa di ferino che spesso allontanava la gente da lui: quel suo aspetto un po’ da orco e un po’ da barbone incuteva timore nei bambini e non attirava certo lo sguardo delle donne. Intanto il tempo trascorreva e Lupo si avviava verso la mezza età, solo e molto spesso incompreso. Trascorreva le sue giornate tirando su muretti di pietra a secco come nessun’altro sapeva fare e riparando tetti di vecchie baite. Ed era anche molto ricercato come taglialegna per via della sua forza proverbiale: si diceva che una volta, tanto tempo prima, avesse portato a valle per scommessa un pezzo di faggio da due quintali perso da una teleferica, caricandoselo da solo sulle spalle. Non era vero, ovviamente, ma era noto a tutti che su quella schiena da bue poteva trasportare tutto ciò che voleva. La sera girava per birrerie e bar fino in città e molto spesso tornava a casa a quattro zampe; e quando aveva bevuto era meglio lasciarlo stare perché era lesto all’ira e aveva il pugno pesante come una mazza. Ma questo non avveniva se il mattino seguente aveva qualcosa da fare e se doveva alzarsi presto, perché allora sapeva tenersi. In quei casi beveva un caffè corretto, salutava quelli che giocavano a tarocchi e tornava a casa spedito, per buttarsi sul letto senza togliersi i vestiti.
Di solito erano in pochi quelli che avevano il coraggio di farlo arrabbiare perché i suoi occhi di ghiaccio e quella cortina di capelli sporchi facevano paura. Era come sfidare una belva e per questo lo avevano soprannominato Lupo.
Eppure era tutto un inganno: dietro quel suo volto truce e i modi sgarbati si nascondeva il cuore di un agnello, di uno che sapeva provare pietà per il prossimo come nessun altro. Lupo era un buono e voleva bene alla gente. Amava anche i bambini e, segretamente, avrebbe voluto farsi una famiglia.
Invece gli unici a fargli compagnia erano i suoi cani: quei tre piccoli beagle disubbidienti e riottosi, i cagnolini come li chiamava lui, che teneva in casa con sé perché non sopportava l’idea di farli dormire all’aperto. Per lui erano i figli e i migliori amici e per loro provava un affetto così profondo che neppure li portava volentieri a caccia, nel timore di poterli perdere.
Lupo era nato su quelle montagne aspre che stanno sotto il Gran Paradiso ed era cresciuto nei boschi seguendo il padre cacciatore, finché lui stesso lo era diventato. Era stata l’unica volta in vita sua in cui aveva dovuto metter la testa sui libri, ma alla fine c’era riuscito. E dopo un po’ di anni, a forza d’impegnarsi e di parlare con le persone giuste, era diventato addirittura bravo. Coi risparmi di un paio di stagioni di lavoro si era comperato una carabina usata in buono stato, con un’ottica importante che periodicamente provava in poligono. Ogni tanto la tirava fuori dall’armadio della camera e la puliva perché fosse sempre a posto; e ricaricava da solo le cartucce perché si era studiato una dose di polvere Norma che riteneva insuperabile. Aveva anche comprato binocolo, cannocchiale e telemetro, anche se quest’ultimo lo usava raramente perché possedeva l’abilità sovrannaturale di stabilire ad occhio le distanze.
Dal vecchio Garibaldi, che per primo in paese aveva studiato da accompagnatore, si era fatto spiegare tutto ciò che c’era da sapere sulla selezione e si era applicato nella caccia con incredibile severità: lui che amava così teneramente tutte le creature della montagna non poteva sopportare l’idea di ferirne una con un colpo maldestro: perciò con gli anni i suoi tiri erano diventati infallibili e la sua mira leggendaria quasi quanto la sua forza. I camosci erano la sua specialità e anche con i cervi aveva acquisito una certa dimestichezza. In una vallata come la sua, dai fianchi scoscesi e priva di strade in quota, non era cosa semplice cacciare i grandi ungulati. Era necessaria costanza, forza e una grande conoscenza del territorio. Tutte doti che lui possedeva. Qualche volta aveva preso anche caprioli, ma erano bestiole che non gli davano grande soddisfazione, sebbene ne apprezzasse la delicatezza delle carni: la signora del ristorante ogni tanto gli cucinava un arrosto col latte che era una prelibatezza. Tuttavia Lupo trovava troppo facile avvicinare un capriolo nel bosco e preferiva cercare le sue prede più in alto, tra rocce e praterie.
Di solito comunque usciva a caccia poche volte, a inizio stagione, e poi passava il resto dell’autunno dedicandosi ai funghi e al taglio della legna per l’anno successivo. I cacciatori della valle lo chiamavano spesso perché si unisse alle loro battute, ma lui non amava le grandi compagnie e dunque raramente accettava un invito. Novembre e dicembre erano un’epoca in cui c’era sempre molto da fare in montagna e il suo amico Roberto spesso lo arruolava quando bisognava abbattere faggi su versanti difficilmente raggiungibili. Allora dovevano lavorare con gli argani e i trattori e qualche volte mettevano su le teleferiche e impiegavano giorni interi a trasportare in paese il legname.
Lupo lavorava volentieri con la motosega e la roncola e dopo cena andava a rinfrescarsi la gola in osteria.
Una sera che aveva nevicato da poco, a fine dicembre, incontrò Luciano fuori dal bar, mentre fumava una sigaretta.
“Guardalo qui, il cacciatore” lo apostrofò l’amico in dialetto. “Allora? Vieni a fare un giro domani?”
Luciano era un uomo sulla cinquantina, anche lui buon taglialegna e grande esperto di cinghiali. Portava sempre un cappello a tesa larga che lo faceva assomigliare un po’ ad un cow boy ed era un uomo che sapeva ridere alla vita: raramente sotto i suoi baffi biondi non era dipinto un sorriso allegro. Parlava fumando e sotto il lampione la sua figura era avvolta da una nuvola di fumo grigio che si fondeva con la nebbia leggera di quella notte.
Lupo lo trovava simpatico e decise di dargli retta.
“Dove vuoi andare?” gli chiese. Fuori dalla sua bocca l’aria fredda si condensava in sbuffi bianchi e sembrava che anche lui stesse fumando.
“Lì, dietro le case” rispose Luciano indicando un punto imprecisato nella notte. “Stamattina era tutto girato. Ci sono poche castagne e i maiali vengono giù dalla riserva per mangiare. Ce ne sono diversi.”
“Ma tu non hai la squadra?” si informò Lupo.
“Sono tutti via per le ferie” rispose Luciano con quel tono accondiscendente, come parlasse di bambini o femminucce. “Domani è l’ultimo dell’anno e sono già tutti pronti per il cenone. E poi la mia cagna è in calore. Puoi portare i tuoi.”
Lupo fece una smorfia. Non gli piaceva portare i suoi cagnolini ai cinghiali, però sapeva che erano bravi. Un’ultima corsa prima del riposo invernale li avrebbe fatti felici! Senza darlo a vedere dall’altro, soppesò la moneta che teneva in tasca: non c’era molto da spendere quella sera. Grugnì un sì inudibile e poi sollevò lo sguardo.
“A che ora ci troviamo?” chiese.
“Alle sette a casa tua” rispose Ciano. “Vieni a bere qualcosa adesso. Offro io.”
Ma Lupo si stava già allontanando con le mani in tasca. Non beveva mai prima della caccia.
Il mattino dopo, mentre il cielo iniziava a schiarire, i cacciatori si incontrarono al limitare del bosco. Sulla neve si vedevano già bene le tracce di molti animali: sotto una macchia di giovani aceri, laddove i cinghiali avevano rivoltato il terreno alla ricerca di radici, la neve era sollevata ed ammucchiata disordinatamente. La terra era nuda e nera, infastidita di esser stata riportata alla luce. Valutando le piste e i segni contro gli alberi, Luciano decise che dovevano esserci una femmina grossa con un seguito di quattro o cinque cinghialetti nati a primavera. Aveva un occhio incredibile per queste cose. Lesse cosa c’era scritto nella terra e poi disse che c’era anche un maschio più grande insieme. Lupo era poco convinto e sbuffò: in mezzo a tutto quel trapestio non riusciva proprio a capire.
Luciano allora imprecò e gli mostrò con decisione le impronte larghe e ben distanziate.
“Guarda qui” alzò la voce indicando con la punta del bastone. “La femmina ha le spalle strette e mette i piedi vicini, uno davanti all’altro. Lui invece è spesso e ha il passo lungo. Vedi che orma? Ma non le sai queste cose? Ah, che cazzo di cacciatore.”
Lupo si lasciò scivolare quel rimprovero senza darci peso perché non aveva voglia di litigare e poi sapeva che l’amico non si arrabbiava mai davvero. A lui quelle impronte sembravano tutte uguali.
Ascoltò con pazienza le istruzioni del più esperto e poi cercò di immaginare il percorso fatto dagli animali quella notte. Luciano elaborò il piano per quella piccola battuta, spiegò tutto per filo e per segno e poi si infilò nel suo rottame di 4X4 per andare ad appostarsi nel luogo stabilito. Rimasto solo, Lupo tornò a casa a prendere i suoi tre cagnolini e li portò fuori. I birbanti tricolori erano eccitati e agitati e si misero a saltellare come folletti nella neve, tirando i guinzagli.
Lui li accarezzò con dolcezza e mise ai loro colli i campanellini che avrebbero segnalato il loro avvicinarsi a distanza. Quindi tornò sotto gli aceri bassi dove i cinghiali avevano pasturato e sbuffò di nuovo. Non era affatto contento. Sapere del grosso maschio lo metteva di malumore: aveva paura che i suoi beagle potessero farsi male. E poi, a dirla tutta, non provava alcuna entusiasmo nel cacciare il cinghiale.
Signore del bosco, lo chiamava qualcuno. Il re della macchia, la bestia nera. Per lui erano solo stronzate inventate dagli scrittori per colorare storie che di romantico non avevano proprio nulla. Ai cacciatori piaceva condire di retorica le loro avventure. La verità era che di tutto il regno animale coloro che venivano relegati all’ultimo posto erano senza dubbio i cinghiali: numerosi, prolifici, dannosi per le colture e persino per le automobili che li investivano lasciandoli miseramente morti sulla strada. Per le istituzioni erano una seccatura da far fuori ad ogni costo. Poco più che grossi ratti. A differenza degli altri ungulati erano goffi, brutti e neri al punto da non piacere neppure agli animalisti, che spesso si scandalizzavano di fronte a un cacciatore di caprioli ma chiudevano un occhio quando si parlava di cinghiali, considerandoli una minaccia persino per i comuni turisti che andavano a passeggio per la montagna. Lupo si raschiò la gola e sputò nella neve.
Il cinghiale era come lui: faceva paura. Sul suo conto erano nate leggende tenebrose, quasi sempre prive di senso, e la gente lo riteneva un pericolo. Secondo qualcuno il cinghiale era un animale che attaccava l’uomo. Lupo invece vedeva in lui un suo simile: una creatura forte e coraggiosa, perseguitata a causa del suo aspetto. Perciò non amava cacciarlo. A lui il cinghiale piaceva: ammirava la forza delle sue spalle, la potenza del suo collo e di quel muso in grado di sollevare la terra. Lo trovava un animale indifeso, inconsapevole delle proprie forze, uno che quasi sempre scappava di fronte ai cani, anche quando avrebbe potuto farli fuori in quattro e quattr’otto. Secondo Lupo il cinghiale era un ingenuo.
Non fosse stato per quei suoi adorati cagnolini che avevano bisogno di sfogarsi e ci mettevano tanta energia in ciò che facevano, non si sarebbe neppure alzato quel mattino.
Quando per radio sentì l’avviso di Luciano, portò la muta dove le piste dei cinghiali convergevano in un unico solco e li liberò. I tre piccoletti fecero alcuni passi con le code bianche sventaglianti e poi partirono all’assalto. La canizza echeggiò nel vallone e lui caricò il combinato. Faceva tanto freddo che non riusciva neanche a tirar fuori le mani dalle tasche dei pantaloni. Si incamminò dietro la pista di cani e cinghiali mentre le voci dei suoi piccolini gli giungevano ormai da lontano. Il bosco era sommerso dalla neve e stritolato in una morsa di ghiaccio. Come sempre, Lupo si sorprese ad ammirare gli animali selvatici che riuscivano a sopravvivere in un ambiente così ostile e si sentì un po’ un intruso in quel mondo fatto di pietre aguzze e tronchi d’albero. Passò sotto un alto rovere dal tronco nero e scivolò su un ramo spezzato sepolto dalla neve. D’istinto mise una mano a terra per riprendere l’equilibrio e quella polvere congelata gli si strinse intorno al polso, pungendolo come mille aghi. Scosse la mano e la infilò di nuovo in tasca.
Quando raggiunse il torrente si fermò un minuto ad osservare l’altro versante perché da là avrebbe potuto vedere qualsiasi cosa muoversi a molte centinaia di metri. Il mondo lassù era fatto di roccia gelata. Un po’ più avanti un rigagnolo che correva verso il basso si trasformava in tanti candelotti di ghiaccio trasparente. Sembrava di essere su un altro pianeta.
All’improvviso il silenzio fu rotto dall’eco di due colpi di fucile, in alto. Luciano.
Con un grugnito, Lupo si mise all’inseguimento dei suoi cagnolini. Quando camminava spedito era veloce quasi come un camoscio e nessuno riusciva a stargli dietro. I lunghi capelli gli ricadevano in avanti ed il suo sguardo corrucciato diventava spaventoso. Giunto sotto una grande parete a strapiombo, si accorse che le impronte dei cinghiali lì erano molto più fresche e che i passi erano distanziati come se si fossero messi a correre. I beagle dovevano averli scovati lì.
Percorse ancora qualche metro in salita, si addentrò in un’insidiosa pietraia coperta di neve e incontrò Rambo, il suo cagnetto più minuto, che stava tornando indietro. Probabilmente non era riuscito a star dietro ai fratelli maggiori su quel terreno così accidentato. Non sapendo che altro fare, lo afferrò per la collottola e lo infilò nello zaino, gettandoselo sulle spalle come fosse stato privo di peso. Proseguì di corsa e si fermò ansimante alla base di un enorme faggio, prima di svalicare nel vallone da cui aveva sentito provenire lo sparo. Mentre era lì in attesa avvertì un rumore alla sua destra. Accigliato, voltò in quella direzione il suo sguardo da predatore e vide cinque cinghialetti rossi uscire da sotto una capanna di rovi coperti di neve. Erano attenti a ciò che succedeva alle loro spalle e si fermavano sovente per ascoltare le voci degli altri due cani che li stavano inseguendo. Non badavano a lui e gli stavano arrivando dritti in bocca.
Lupo sollevò il fucile ed allineò il primo sopra la tacca di mira. Erano piccoli e coperti da un buffo pelame fulvo, più lungo sopra la schiena. Ma al suo occhio attento non sfuggì quanto fossero magri e di taglia ridotta rispetto a ciò che avrebbero dovuto essere. La mancanza di castagne e ghiande quell’anno aveva reso loro difficile la sopravvivenza. Procedevano in fila indiana e ogni tanto uno metteva il muso nel culo di quello che gli stava avanti, incalzandolo a procedere. Sembravano disorientati e così spaventati che, senza che se ne rendesse conto, le canne del fucile si abbassarono un po’. Sparava senza indugio ai camosci e ai cervi che pascolavano all’alba, eppure la fucilata addosso a quei piccoletti in fuga dal pericolo gli sembrava improvvisamente un gesto sbagliato. Un tradimento. Quando tutta la fila gli fu passata davanti lasciò andare un colpo del 12 senza puntare e i cinghialetti si lanciarono di corsa per scomparire nel bosco come non fossero mai esistiti. Rambo si agitò dentro lo zaino e lanciò un latrato da stordirlo. Allora lui lo tirò fuori da quella sua insolita cuccia ambulante ed il cagnolino, libero, si scatenò sulla scia dei piccoli ungulati.
Lupo rimise il fucile in spalle e riprese a camminare con lo sguardo basso finché raggiunse il compagno di caccia. Luciano era seduto su una pietra e fumava una sigaretta con quel suo sorriso beffardo dipinto sulla faccia.
“Li hai sbagliati eh?” disse con l’aria di uno che ha già capito tutto. “Succede. Si vede che ti emozioni. Guarda un po’ là invece!”
Indicò con il bastone. Davanti a lui, a poca distanza uno dall’altro, c’erano il grosso maschio con le zanne ben sporgenti e un cinghialetto rosso, fratello di quelli che aveva lasciato andar via poco prima. Erano ancora nel punto in cui li aveva colpiti, coricati nella neve fresca.
Lupo sospirò e non disse nulla. Tirandosi indietro i capelli si avvicinò al grosso maschio, si inginocchiò e gli accarezzò il pelo del collo, poco sotto il foro della palla. Provava sempre ammirazione e compassione per le bestie abbattute. Ma cos’altro avrebbe potuto fare? Ora che lo guardava capiva di aver avuto ragione: quel verro era stato davvero un re gentile della montagna: un signore umile e senza corona che con la forza dei muscoli e quei denti affilati avrebbe potuto imporsi su tutti gli altri animali. Un sovrano che avrebbe potuto combattere oppure dileguarsi molto prima che il nemico gli fosse addosso. Invece era rimasto insieme al branco e con gli altri aveva cercato la salvezza nel silenzio del bosco.
No, si sbagliavano coloro che ritenevano il cinghiale un animale sporco, rozzo e pericoloso. Dicevano così perché non lo avevano mai guardato negli occhi. Lupo lo accarezzò teneramente. Non era bravo a parlare, ma dentro sentiva un terribile subbuglio, come se avesse appena perduto un amico.
Davanti a lui c’era il corpo di uno da cui avrebbero dovuto imparare i potenti tra gli uomini: un capo serio, rigoroso e mite. Uno che non era ricorso a stratagemmi e trabocchetti per speculare su affari redditizi, che non si era perso dentro inutili giri di parole, vivendo con poco, circondandosi di gente rustica e genuina. Lupo non poteva vedersi ma sentì che la sua faccia diventava rossa.
Luciano se ne accorse e si mise a ridere, ma il grosso uomo non gli diede retta. Per lui nel bosco in quel momento non contava più nient’altro e quando i suoi occhi azzurri si puntarono sul compagno, questo capì che era meglio tacere. Trascorsero attimi di solenne silenzio.
Poi Lupo prese il coltellaccio e pulì accuratamente i cinghiali, asciugandone l’interno per ricucire tutto col fil di ferro. Non gli faceva senso il sangue. Luciano avrebbe voluto aiutarlo ma non ci provò neanche. Non gli era piaciuto lo sguardo dell’altro. Quando il lavoro fu finito Lupo mise la fascetta e assicurò una corda intorno al grugno del re gentile. Poi se l’avvolse intorno alle spalle larghe e iniziò a tirare. E in quel momento riprese a nevicare.
Torna su

Normative

Ambiente

Enogastronomia

Attrezzatura