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Il vecchio alpino

Mio nonno, il vecchio reduce di Russia, uno dei pochi sopravvissuti alla neve ghiacciata e alla steppa del Don, se ne andò un tiepido mattino di maggio. Aveva perso la sua battaglia con il male dopo un lungo delirio fatto di frasi incomprensibili, di smorfie di stupore ed incredulità e ampi gesti delle braccia. Chiusi per sempre i suoi occhi mobilissimi nel letto di casa il suo viso era apparso subito più disteso. Il candore dei capelli e dei baffi, ingialliti solo sotto le narici dalle troppe cicche di trinciato forte, risaltava ora sui tratti più morbidi del volto scavato.

Io mi trovai quindi solo, affranto dal dolore e pervaso da un nitido senso di smarrimento. Ero a pochi mesi dalla mia prima stagione di caccia e senza di lui, senza quel nonno ruvido, ma grande maestro di natura e di animali, sarebbe stato tutto diverso. Ora la vecchia doppietta Pieper Liegi passava di diritto a me, così come la bracca Luna che - sorniona - mi osservava dalla sua cuccia sotto il portico. Presto sarebbe venuta l’estate: il vento avrebbe carezzato il grano sui campi, scompigliato le qualere di fieno, il sole a picco avrebbe arso le stoppie, addolcito le uve ed i fichi degli autin. E sarebbero arrivate le quaglie, mentre i fagiani avrebbero cantato il mezzodì dalle rive ombrose del Bronda con il gozzo gonfio di more e sambuche.

Attesi l’apertura di settembre con una mal celata ansia: tutto era diverso ora, con quell’assenza pesante da togliere il fiato. E l’appuntamento così tanto desiderato, sospirato da sempre, da quando bambino vedevo il nonno tornare dalla caccia sulla sua Vespa rossa fiammante, il fucile in spalla ed il cane tra le ginocchia, ora mi spaventava. Lui mi sembra allora un semidio, un cavaliere dell’antichità, bello come il sole, con la sua giacca di velluto che odorava di erba bagnata, di tabacco e di sudore. Poi veniva il magico rito di quando il vecchio artigliere alpino cavava con molta solennità dalla gaida una lepre, o un fagiano dalla lunga coda, per la gioia di noi bambini presenti. Solo dopo tutti avremmo esaminato in silenzio la bestia, ricomponendola e carezzandola a lungo, per poi cederla mal volentieri alla nonna per la spiuma tura e la lavorazione. Ed era una gara tra piccoli ad ottenere dal nonno le cartucce sparate in quell’ occasione: di cartone verde lucido, piene di un odore che trovavo sempre buonissimo, tanto da annusarlo a lungo, con gli occhi semichiusi.

Cose di un tempo. Ora c’era il presente con quella bracca testona che faceva gli affari suoi, che non rispondeva a nessun richiamo e cacciava per se’, apparentemente sorda. I fagiani si involavano lunghi e fuori tiro, lanciando il loro canto di sfida e derisione, mentre le quaglie era come inghiottite dalla terra riarsa. Il tempo passò.

Poco prima dei Santi, quell’anno, arrivò un dannato freddo. Un freddo che ingiallì d’un colpo l’erba dei prati e i gelsi, intristendo tutto il paesaggio. Le acacie perdevano sciami di piccole foglie ad ogni folata di vento, mentre i pioppi apparivano ancor più allampanati nella loro magrezza. Le mucche bianche ora dimoravano in tiepide stalle ed anche la neve aveva fatto la sua comparsa sulle vicine montagne.

Quel mattino di brina decisi di spingermi oltre i prati di Traversagn, di inoltrarmi nei boschi lungo il Po nella speranza di incontrare una beccaccia, lasciandomi alle spalle quelle distese di steppa infeconda che poco mi avevano fruttato. Luna mi parve stranamente più affettuosa, più vicina a me. Sembrava che, dopo quella breve sosta sull’argine del rio Tagliata per una frugale colazione - in cui lei mi aveva guardato a lungo con occhi intelligenti e profondi - qualcosa tra noi fosse cambiato. Che avesse capito, finalmente? Che avesse ritrovato forse il suo equilibrio perduto di cane con un nuovo padrone? All’ingresso del bosco del Paracol avevo messo alla bracca un campano arrugginito, ripescato al fondo di un vecchio cassetto e cambiato cartucce. Era tutto ciò che potevo fare con poca visibilità per seguire i movimenti di Luna. Ed ora il tintinnio animava le rive dei salici e dei rovi, delle gaggie e lo strato scricchiolante di foglie morte davanti a me. Su e giù, incessante. Il sentiero si snodava lungo l’argine del fiume in secca: rovi e sterpi ricoprivano tumuli di ghiaia e grosse pietre, dove all’inizio del ‘900 c’era stata una vecchia cava ora dismessa. L’aria era tersa e il freddo pungente. Decisi ugualmente di tenere il fucile tra le mani: non volevo farmi sorprendere dall’eventuale frullo della Regina dei boschi. Luna tagliò in diagonale dinnanzi a me, poco oltre tre esili quercioli, chiaramente attratta da qualcosa. Seguendo un odore invisibile, rallentò il suo trotto, dimenando la coda mozza. Il mio cuore cominciò invece a battere più forte. Poco oltre il posto chiamato il Bacias, dove con il nonno avevo atteso tante sere le anatre e che ora era una lastra ghiacciata, le acacie ed i salici si infittivano, lasciando rari spazi di pulito. E fu da li, infatti, che Luna cominciò a guidare prudente, fermandosi pensierosa due, tre volte. Entrata in un fosso ricoperto di rovi lo percorse tutto in su ed in giù, sparendo brevemente dalla mia vista, poi uscì sulla riva opposta. Il campano tacque finalmente. Intravidi la cagna ferma dinnanzi a me, proprio ai bordi di una piccola radura invasa di brina. Oltre a lei, a pochi metri, iniziava l’intrico del bosco del Vescovo, da sempre nella mia fantasia un luogo incantato, regno di misteri ed ombre. Con passo leggero mi portai alla destra del cane, che guardava con grandi occhi ed un leggero tremolio del muso, un punto tra le foglie morte. Aguzzai lo sguardo su un ampia porzione di terreno, ma non vidi nulla, pur con tutto il mio impegno. Accarezzai Luna sulla groppa umida con la mano sinistra, bisbigliandole parole affettuose, pur con il cuore a mille. "Dai prendila, prendila…". La cagna fece un passo e avvenne allora una cosa straordinaria e magica. Le minuscole foglie delle acacie, quelle più grandi dei quercioli e dei rovi, tutti gli elementi del sottobosco, insomma, anche minutissimi come i cristalli di gelo, i ramoscelli, le pagliuzze, i muschi, si raggrumarono ad una velocità grandissima in un unico punto: in un solo istante presero vita e forma e si fecero carne piume ali e si innalzarono dal suolo in un palpito di vita. Sorse dalla terra la beccaccia. Si levò morbida e saettante verso l’azzurro infinito, in quell’istante lunghissimo, a pochi metri da me. Mi guardò con quei grandi occhi neri, penetranti, già velati di morte. Il desiderio di possederla prevalse sull’emozione. Le braccia, le mani, il cuore, si fecero arma e il colpo risuonò secco nell’aria del mattino. La beccaccia, in quel susseguirsi di fotogrammi, rimase un istante ancora immobile, colta all’apice del volo. Cadde dolcemente, senza alcun rumore al suolo, come cadono gli alberi. Luna corse ad abboccarla e tornata da me gongolante, me la porse con estremo garbo. Carezzai a lungo, commosso, il testone del cane. Poi ricomposi la Regina con estrema cura: ne carezzai le piume, la annusai a lungo con le mani che mi tremavano. La luce nei suoi occhi scuri si affievolì sino a spegnersi. Un pezzetto di scottex mi servì per fermare il sangue rosso vivo che le usciva dal becco a piccole gocce. La riposi nella tasca anteriore del pile, proprio sopra il cuore. Ed il suo tepore mi entrò nell’anima, come una specie di dolce sortilegio. Ancora oggi, dopo tanti anni (Luna non c’è più da tempo ed anch’io ho i capelli bianchi ormai), il ricordo di quella prima beccaccia, di quel tepore sopratutto, mi emoziona nel profondo.

 

 

 

 

 

 

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