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L'auro fai son vir

L’animale aveva passato la notte sotto una cengia, poco sotto il Longet. Il dorso di pelo folto che andava scurendosi appoggiato alla roccia. Tiepida compagnia che ben conosceva. Al riparo da quel freddo pungente di fine settembre, precocemente invernale e da quel vento sottile che aveva accarezzato con insistenza le cime addormentate, sibilando tra i massi e nelle gole. Al sicuro soprattutto dalle grinfie di quell’antico nemico: il lupo scuro che aveva visto più volte cacciare solitario da quelle parti, agile e flessuoso sulle lunghe zampe. La prima parte della notte, ruminando il pasto serale, gli aveva portato odori e rumori lontani. Il fumo della meira d’Arpiol e l’abbaio del vecchio cane che conosceva, guardiano dei pascoli del fondovalle e degli armenti. Il suo sonno di vecchio animale si era popolato di visioni confuse: della giovinezza passata, di neve profonda e gelida e di sua madre, la vecchia capobranco. Ormai vago ricordo. A tratti gli era giunto il lamento di una civetta persa nella notte, insieme al leggero mormorare degli alberi ben sotto di lui. I vecchi larici che ondeggiavano nella notte, infatti, bisbigliavano appena percettibilmente, esprimendosi con delicati scricchiolii e lunghe carezze dei rami. Più tardi, dalla balconata naturale in cui giaceva, lo avevano incuriosito fasci di luce che fendevano come spade la notte. In prossimità del giorno percorrevano il rio mormorante avvolto ancora dal buio. Il suo istinto gli disse che poteva essere solo l’uomo tanto temerario da arrancare lungo le pendici del monte a quell’ora. Forse era per il suo passaggio che quel cane aveva abbaiato ore prima. La bestia sentiva ora distintamente un presagio, qualcosa di funesto incombere sulla valle. Sentiva d’improvviso il volgere delle stagioni, sentiva i propri sensi assopiti e il corpo pesante come non mai. Qualcuno quindi saliva la sua valle, mentre le stelle andavano lentamente impallidendo nel cielo terso. La roccia era ormai fredda e l’animale, alzatosi, si scrollò e stirò. Presto dall’est sarebbe giunto il sole a riscaldarlo, a dargli ristoro, rendendo tributo alle cime più alte per poi scendere giù rapido nelle crode, lungo le immense pietraie e nelle forre, sino ai larici ed ai cembri verso il fondovalle. Il suo sguardo acuto spaziava ora lungo i fianchi del monte: i contorni delle cose prendevano forma. Le sconfinate praterie, più su le pietraie di roccia chiara e gli orizzonti verticali che si staccavano d’improvviso dalla sommità dei prati, apparivano ora nella loro rilucente bellezza. Un odore di fieno bagnato, di ultimi fiori lo colse. Lentamente si spostò dal suo riparo di roccia. Un brontolio del ventre gli imponeva un pasto accurato. Presto sarebbe giunto il rut con i suoi affanni amorosi e poi l’inverno, con i suoi stenti. All’erba grassa dell’estate trascorsa sarebbe passato a quella bruciata che il gelo seccava, sino al fogliame legnoso degli àvrus più in basso e a qualche corteccia insapore dei vecchi amici alberi in cui avrebbe trovato rifugio. Il branco numeroso delle femmine e dei piccoli fece la sua comparsa giù alla sua destra, ai margini della piana di Traversagn. Seppur lontani li vedeva nitidi, intenti a pascolare lentamente nella luce dorata del sole. Le grasse femmine, i giovani dal manto chiaro, i capretti prossimi alle madri. Qualcuno di essi era pure figlio suo, frutto delle battaglie che aveva condotto per la gerarchia, frutto di quell’istinto folle che lo aveva portato in passato a sfidare con baldanza i rivali. Lungo pendii ghiacciati, correndo a rotta di collo, pieno di vigore, impiastricciato di quell’odore odore acre che traboccava dal suo corpo. Signore incontrastato della valle. Ora questo tempo era passato ed erano le sue membra a dirlo. Non aveva più quel vigore, quel desiderio sfrenato che lo aveva fatto temerario in passato, sino a giungere - nella nebbia leggera di un novembre di anni prima - a pochi passi da quegli uomini e dai loro cani bianchi e inoffensivi. Si, era certo stata la volta in cui era giunto loro più prossimo. Bipedi lunghi ed esili, vestiti con i colori dell’autunno. Ne ricordava il chiarore del viso e l’odore pungente. Ricordava in particolare lo sguardo del più esile di tutti: lo aveva colpito così pieno di vita, così nero e penetrante. Di una nera lucentezza simile a quella dei grassi coleotteri che l’estate il suo sguardo alle volte incontrava, brucando nel folto delle erbe. I due si erano guardati per un lungo momento, a pochi metri l’uno dall’altro: il Re ed il ragazzo con gli occhi sgranati.

Che strano ricordo. C’era anche lui in quel sogno notturno, rammentò. Era un puntolino lontano vestito d’autunno, che compariva dal margine del Traversagn lungo il sentiero: saliva, inesorabile, lento ma nello stesso tempo implacabile, sin sotto la sua cengia, con un bastone lucente a spalla. E saliva, saliva, sin nel cuore del suo regno, sino a poche decine di metri da lui, nella luce del sole. E il vecchio animale non scappava, mentre il ragazzo lo guardava a lungo, appoggiato ad un masso, nei vetri luccicanti. Sentiva il suo sguardo percorrergli il fianco, le pieghe del collo possente ed il trofeo uncinato...

Strappò un ciuffo d’erba fresca per scacciare questi strani pensieri di vecchio animale. Non c’erano particolari ragioni per inquietarsi si illuse: la stagione della caccia sarebbe stata breve, il lupo cercava prede più facili di lui e solo l’inverno lo preoccupava, con la sua neve profonda e silenziosa. Ma ecco che dal fondo della valle salì come un onda, sino a lui lassù il rumore del tuono. Un rumore secco che poi, echeggiando lungo le pendici della valle, correndo lungo i pascoli e rimbalzando tra le pareti di roccia, ingigantiva a dismisura. Quel tuono dannato, che veniva con il cielo sereno. Il vecchio animale vide senza stupore che il branco più in basso si stava muovendo: a trotto sostenuto lungo la piana, fuggiva quel rumore sordo dirigendosi verso le pietraie sconfinate della Tour Real. Qualcuno di essi era forse caduto ed ora scalciava nel vuoto, insanguinando le erbe gialle dei pendii. La bestia restò calma. In un’altra stagione si sarebbe anche lui rifugiato tra i grandi massi della Tour. Ma ora sapeva che qualcosa di antico doveva compiersi: l’auro fai sun vir bisbigliava il vento tra i massi, mentre lui brucava lento. Tutto sarebbe avvenuto presto, forse quella stessa luminosa mattina. D’un tratto nell’unico canale ancora nell’ombra, al quale la luce orizzontale del giorno ancora non giungeva, gli parve di scorgere un movimento. Poi più nulla per un tempo lunghissimo. D’improvviso l’aria più calda salì da sotto, portando ai suoi sensi l’odore dell’uomo. Smise di brucare e, levato il capo, emise un lungo leggero sibilo verso quel pericolo invisibile. Pochi istanti dopo sentì una puntura acutissima al petto che lo fece saltare d’istinto sulle zampe: poi venne il tuono. Il cielo si offuscò piano piano - anche se il cielo restava terso - mentre il vecchio animale si accucciava in quel giaciglio d’erba, che a tratti brillava scarlatto. E non ebbe paura quando l’esile figura dell’uomo gli si avvicinò. Era quel giovane esile che veniva, con i suoi occhi nerissimi velati di pianto, brillanti come i coleotteri nel folto dell’erba dell’estate.

 

 

 

 

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