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L'incantatore di cinghiali

Questa è la storia del non facile rapporto tra un ragazzo curioso e il suo austero e schivo maestro di vita venatoria.

Una strana amicizia, scarna ma intensa, fatta più di gesti che di parole e nata grazie all’abnegazione dell’allievo ed alla profonda solitudine del "meistru".

Un’amicizia durata solo una stagione, conclusasi improvvisamente lasciando entrambi con molto ancora da dirsi.

 

"Ma com'è che fai mi domando io!?

Mi chiedo come cacchio è capace quello là ad essere sempre al punto giusto al momento giusto?

Mi domando poi come mai non gli capita mai di buttare via un’occasione che sia una?

Porcaccia zozza! mi fa una rabbia …..

Ma forse è ora il momento di piantarla lì di arrovellarsi e porsi sempre le stesse stupide domande.

Forse sarebbe il momento invece di provare ad andarci sotto, di vedere un po’ com’è che cova ‘sta gallina per fare sempre uova d’oro.

Ma tanto lo so già. A quello non riuscirò a tirargli fuori un bel fico secco. Ci vuole tutta che parli con i capi e a me che sono nuovo e un po’ pirla mi considera tanto quanto una schitta di piccione."

Così andavo per l’ennesima volta pensando mentre, dopo aver udito prima un paio di colpi e poi un’altro, dalla radio mi giungeva l’ennesima laconica conferma:

"sun mi … u Bertu. L’ho affermee … sun trei"

(sono io, Berto, e l’ho fermati. Sono tre)

Bon…basta. Nient’altro. Non una parola in più spesa a descrivere un minimo della scena appena consumata. Non un mezzo tono più alto nella voce a testimoniare una seppur timida ma umana eccitazione del momento.

Non un commento a delineare il peso o la possanza delle bestie appena cadute sotto i suoi colpi.

Ma d’altronde cosa ci si poteva aspettare da uno che la radio si era convinto controvoglia a comprarla per ultimo e dopo anni, solo a seguito dell’ennesimo e perentorio invito del caposquadra?

Cosa pretendere da uno che viveva da solo come un eremita nella casa più male in arnese del borgo, che rivolgeva la parola a malapena solo a quel suo cane vecchio, grasso e spelacchiato? Cosa pensare di uno di cui nessuno conosceva bene il passato, cosa mangiava o cosa faceva lassù tutto il giorno e tutti i giorni da oramai settant’anni suonati?

Per la verità le mie scoraggiate considerazioni derivavano dal fatto che ad avvicinarlo già ci avevo provato un paio di volte, ma senza successo.

Mi pare ancora di rivederli gli altri della squadra mentre si davano di gomito e ridacchiavano sotto i baffi osservando quei miei impacciati tentativi di attaccar discorso con Berto mentre lui a tavola si pelava silenzioso una mela o mentre in macelleria era impegnato a tirar giù la pelle ad uno dei cinghiali abbattuti nella mattinata.

Proprio in quella occasione avevo colto l’occasione per indirizzargli un commento sul suo oramai consunto coltellino tuttofare.

Si trattava di un vecchio temperino con la lama di ferro e col manico di legno miserrimo, reso oramai nero dall’uso.

Per la verità dire lama è un eufemismo. Anni ed anni di successive affilature con la pietra avevano ridotto la stessa a poco più che un mozzicone di quattro o cinque centimetri.

Ma Berto a questi particolari pareva non fare caso…anzi.

Tutto ciò che possedeva sembrava uscito dal banco di uno di quei robivecchi da fiera del due novembre che si fregiano indebitamente del titolo di antiquario.

I suoi scarponi erano ancora di quelli con la punta squadrata, portati via da chissà quale caserma e con alle spalle (anzi, sulle suole) tanti di quei passi e tante di quelle ingrassature che oramai di carro armato ai lati non ce n’era più e che la tomaia sembrava un calco fedele di quei piedi lunghi e bitorzoluti.

Le braghe erano sempre le stesse, di fustagno verde scuro, stazzonate, con più d’un rammendo fatto a mano e con gli orli storicamente neri e bisunti per il contatto con gli scarponi lucidi di grassa "sciunza" di cinghiale.

Un umile giaccone marrone di panno, di quelli che davano in dotazione alle acciaierie Italsider, per le giornate più fredde e un gilet di finta pelle nera sopra una consunta camicia di flanella a quadretti per tutte le altre stagioni.

In cima a tutto un cappello di lana fatto a maglia da chissacchì, floscio,e perennemente pendente da un lato, con un mucchio di fili tirati e di semi di fieno infilati tra le maglie.

Tutto li. L’armadio di Berto pareva limitarsi a questo. Mai in sette anni di seppur rada frequentazione l’avevo visto vestito differentemente.

Un’unica concessione fuori dai margini di questa sua vita all’apparenza così austera. Le cicche.

Non di certo le gomme da masticare, ma bensì quelle mezze sigarette fatte a mano con le cartine e portate ad un angolo delle bocca per un tempo indefinibile prima di accenderle e di bruciarle con quattro tirate.

Il ciccare (così si dice dalle nostre parti) era un vizio che si portava dietro da chissà quali tempi e quali vicende.

Ad osservarlo mentre si confezionava l’ennesima smilza sigarettina sembrava di assistere ad un antico rito. Prima prendeva con delicatezza tra due dita la cartina. Poi cavava dalla borsetta blu una pizzicata di tabacco bruno. Poi una sommaria rollatina tra i due pollici e i due indici ed una leccata fugace al lembo per completare l’opera.

Quella cicca storta e sperleccata passava almeno una decina di minuti tra un angolo e l’altro delle labbra prima di essere accesa, forse a centellinare il gusto del tabacco crudo. Poi Berto cavava di tasca una scatola di cerini e dava fuoco alla punta della cartina con le mani rugose a coppa a proteggere la fiamma e gli occhi strizzati sotto le folte sopracciglia grigie.

Due, tre, quattro tirate ed altrettanti sbuffi di mefitico fumo azzurrognolo e tutto era finito.

Questo era l’unico vizio che si concedeva e che dava in pasto a chi gli stava attorno.

Nessuno aveva mai avuto notizie di donne nella sua vita, se non di una sorella più vecchia di lui che abitava in toscana, deceduta oramai da una decina d’anni.

Viveva in una malandata casetta di pietra e intonaco cadente. Tre stanzette su due piani, una cantina, un pollaio con sei galline e un gallo, due gabbie con una decina di conigli, una botte a mò di cuccia per Pirri, un nero, grasso ed incazzoso bastardino dall’età indefinita che però disdegnava quella scomoda sistemazione e svernava perennemente in cucina.

Tutto lì, queste poche cose sembravano essere le uniche a delineare lo scarno perimetro della vita di Berto. Non aveva nemmeno la macchina. Si spostava a piedi o, per le trasferte fuori paese e per venire a caccia, tirava fuori da sotto una tettoia di pali di castagno e lamiere ondulate una vecchissima Ape grigio topo, dalla vernice opaca e con il cassone arrugginito e cigolant con gli angoli ingombri di residui di fieno e legna tagliata.

Una vita schiva e ridotta ai minimi termini, frutto di chissà quali scelte, di quali vicende familiari e personali.

Anche a caccia quel vecchio misantropo manteneva immutato il suo modo d’essere.

Silenzioso, dedito alle sue poste tradizionali, nessun commento se non indispensabile, poche cartucce nella ventriera di cuoio imbrunito dal tempo e dal fumo di stufa, una vecchia doppietta in spalla. Già, quella vecchia doppietta, sembrava ricalcare con il suo stato la figura del possessore. Il calcio di legno oramai inesorabilmente opaco perchè mai oliato, la bocca delle canne affilata dalle migliaia di rosate sputate, lo scatto secco della chiusura che si udiva nel bosco solo all’ultimo momento prima di mettersi in posta.

Ma sotto i colpi del Berto le zampe dei cinghiali si piegavano quasi sempre.

Le uniche padelle che mi ricordo le fece parecchi anni prima perché aveva anche lui il vizio, comune a tanti vecchi cacciatori passati controvoglia all’ungulato dopo anni gloriosi spesi in altri tipi di cacce, di usare i pallettoni invece che la palla.

Pare infatti che chi ha per tanti anni tirato ai tordi di passo o alla lepre, male si adatta a separarsi dalla munizione spezzata, anche se la preda da abbattere è magari un cinghialone da un quintale e più.

A nulla vale spiegare a questi anziani che la "gragnöa" (grandine) poco rende in questo tipo di tiri, ma che anzi la bestia il più delle volte non si ferma nemmeno se viene centrata in pieno e con tutta probabilità se ne va poi a morire chissà dove.

Ma pareva all’epoca che ci fosse ben poco da fare con quelle zucche dure e canute.

Per la verità sulle prime qualcuno sembrava averla capita. Ma evidentemente fingeva, in quanto dopo qualche tempo puntualmente ci ricascava ed erano più d’uno i "puisci" (piselli) che le lame dei coltelli incontravano sottopelle al momento dello scuoio.

E anche Berto per qualche anno aveva fatto parte di quel gruppetto di vecchi "gragnolari" indefessi.

Poi decise di convertirsi definitivamente alle brenneke. I suoi tiri rimasero ben indirizzati come sempre ma da allora divennero micidiali.

Su di me che ero giovane ma già curioso osservatore del comportamento dei miei simili, Berto esercitava un’attrazione irresistibile.

Dovevo trovare il modo di avvicinarlo, di vincere quella sua innata ritrosia al rapporto con gli altri uomini, di carpirne qualche parola o qualche ricordo.

L’occasione venne quando ai primi di dicembre caddi sul ghiaccio e mi ruppi un gomito.

Finii in ospedale e, dopo avermi rimesso l’articolazione a posto, mi ingessarono come un manichino in posa da cicisbeo e mi dimisero con la prescrizione di mantenere quella fastidiosa imbracatura almeno per trenta giorni.

E con quella ingessatura che mi vincolava il braccio sinistro come in un geroglifico egiziano, sfumò per me anche l’ultima parte della stagione di caccia.

Ma passati i primi giorni, io mi sentii subito meglio e mi venne una gran voglia di non perdermi almeno il clima di quelle ultime quattro o cinque battute.

Se non potevo maneggiare il fucile, nessuno però poteva vietarmi di assistere come spettatore.

Così, sfidando le ire di mia moglie, e sfidando anche un eventuale posto di blocco guidando con la sola mano destra e la punta delle dita della sinistra, mi recai puntuale agli ultimi ritrovi della domenica e del mercoledì.

Il problema semmai era di trovare un compagno disponibile a sorbirsi un socio mezzo invalido e nullafacente attaccato alle costole.

Dato il buon carattere dei più non sarebbe stata un’impresa impossibile, ma decisi di tentare una mossa difficile.

Mi avvicinai a Berto che stava masticando la prima cicca della mattinata e gli chiesi.

"Oh Berto, ti dà fastidio se vengo con te? Così, tanto per passare la mattinata … ti giuro che sto fermo e che non parlo se non ne hai voglia"

Sulle prime quello manco mi rispose.

Si frugò invece nella tasca del giaccone di ruvido panno marrone alla ricerca dei cerini e si accese la cicca.

Poi sbuffo un paio di tirate e mi degnò di una occhiata sbieca e di una risposta telegrafica:

" pe mi … cuntentu ti.." (per me … contento te …) e chiuse.

Partimmo per le poste, lui con l’ape scassata scoppiettante davanti e io al seguito con la mia Lancia Dedra.

Arrivammo nel bosco e io sempre dietro a lui, a ricalcare i suoi lunghi passi sul sentiero di una cresta spazzata dal vento.

Appena giunti in posta lui diede col piede a spostare le foglie in un cerchio di un metro, chiuse la doppietta, spense con le dita l’ennesima cicca non ancora terminata e si pose in attesa appoggiato con la spalla ad un albero di castagno.

Passò la prima ora, poi la seconda. Nulla.

Lui sempre là, fermo, bilanciandosi prima su una gamba, poi sull’altra, senza altri movimenti e senza profferire una parola.

Io mi cercai una pietra e mi ci sedetti sopra, provando un paio di volte sottovoce ad attaccare discorso, accennando al freddo di quella mattina e ai cani che sentivamo cacciare in distanza.

Ma lui niente, si girò distrattamente a guardarmi ed a zittirmi ponendosi davanti al naso quel dito indice con la punta gialla di nicotina a indicarmi di fare silenzio, quasi che ci fosse un invisibile cinghiale che gli stava arrivando a tiro.

Venne poi un momento che imbracciò la doppietta. Io accennai ad alzarmi da seduto, ma lui si girò ad immobilizzarmi con un’occhiataccia che non lasciava dubbi sulla perentorietà.

Ma nulla accadde. Dopo qualche minuto in quella posa, abbassò le canne e si rimise come prima.

La battuta di quel giorno si concluse prima del tempo.

Un branco di cinque cinghiali levati, un paio di capi abbattuti in poste distanti da noi ed i cani usciti di zona a seguito del resto del branco.

Ricevuta la ritirata via radio, Berto aprì la doppietta, estrasse le due cartucce e si rimise sul sentiero del ritorno, considerandomi appena e non scambiando una parola fino ad aver raggiunto l’Ape posteggiata ai limiti del bosco.

"Me paa che te saiesci divertiu ciù tantu se ancŏo ti stavi a cà cun tœ muggeĕ" (mi sembra che ti saresti divertito di più se oggi te ne fossi stato a casa con tua moglie).

"Oh beh, mica mi sono annoiato sai. Anzi, mercoledì magari vengo di nuovo"

"bah … cuntentu ti!"

(bah … contento te!). Chiuse la fragile portiera antivento, mise in moto e se ne andò via sgommando tra le foglie secche.

Il mercoledì successivo infatti mi ritrovai nuovamente in piazza. Berto però non c’era. Strano, partecipava a tutte le battute e non l’avevo mai visto ammalato, manco raffreddato. Chiesi agli altri se ne sapevano qualcosa.

I più alzarono le spalle non sapendone nulla, poi qualcuno mi rispose che forse il giorno prima il vecchio aveva avuto dei problemi col motore di quel residuato d’Ape anni ‘60.

Non me lo feci dire due volte, presi la macchina e mi recai al borgo di Berto che distava tre o quattro chilometri. Una volta arrivato scesi tra le galline svolazzanti e diedi un paio di colpetti di clacson sotto le finestre di casa sua.

Lui si avanzò quasi subito da una delle piccole finestrelle del secondo piano, a indagare con faccia severa chi fosse lo scocciatore che veniva a cercarlo fin lassù strombazzando il clacson.

"Ahò Berto. Cos’è, non stai bene? Stamattina non ti abbiamo visto in piazza. Non vieni a caccia?"

"G’ho u muture de l’Ape ruttu.

Ne possu mesciame finchè ne m’arrivan i tocchi de ricangiu"

(ho il motore dell’Ape rotto e non posso muovermi finchè non mi arrivano i pezzi di ricambio).

"se ti va di venire ti porto io… poi ti riporto anche a casa semmai"

Li per li non mi rispose, poi emise un unico "ummmfff", sparò fuori dalla finestra il mozzicone della cicca e si ritirò in casa.

Sarebbe sceso? Boh, chi poteva saperlo. Decisi di aspettarlo almeno per qualche minuto.

Da li a poco l’uscio verde si aprì e Berto ne uscì con la sua solita divisa da caccia (voleva dire che stava così vestito anche a casa). Mandò indietro con un piede Pirri che tentava di scappargli fuori tra le gambe, richiuse l’anta cigolante ed entrò in macchina.

L’odore di fumo di stufa e di cicche fumate subito pervase l’abitacolo.

"bah ..ti deivi aveighene propriu quæ …" (bah …devi averne proprio voglia …) fu l’unico suo commento mentre ci dirigevamo assieme verso la zona di battuta.

Una volta alla posta la scena si ripropose fedelmente.

Lui li in attesa, diritto in piedi, fermo come un sasso e io dietro seduto a prender freddo ed a domandarmi che ci facevo alle calcagna di uno che probabilmente non aveva voglia nè della mia compagnia nè della compagnia di nessun’altro.

Ad un tratto udimmo i cani che avevano preso traccia proprio sotto di noi. Lui si girò e mi fece cenno con la mano di alzarmi ma con cautela.

Mi affiancai alla sua sinistra. Lui sputò in terra la cicca e la spense pestandola con uno scarpone.

Lo scoordinato abbaio dei cani sulla traccia si tramutò in un fragoroso abbrivio, segnale inequivocabile che avevano levato.

Berto a quel punto alzò la doppietta e si pose in posizione di puntamento, sibilandomi tra i denti:

"oua sta fermu .. nu mesciate mancu se vegne zu u mundu" (ora stai fermo … non muoverti manco se viene giù il mondo).

Sentii io per primo il frugugliare delle foglie sotto i passi del cinghiale.

"Occhio Berto … laggiù a sinistra"

Seguendo la direzione del rumore intravidi una macchia nera tra gli alberi ad una cinquantina di metri più in basso.

Eccolo là! Un possente verro dal manto grigio chiaro stava salendo circospetto verso di noi.

Dieci passi e poi fermo, muso in alto e coda diritta in posizione di allerta.

Riprese la sua salita.

Trenta, venti, quindici metri.

Accidenti Berto cosa aspetti! Spara! Pensai tra me e me.

Macchè. Quello sempre fermo come una statua con la doppietta spianata verso l’animale che si stava facendo sempre più vicino.

Non muoveva un muscolo. Inspirava ed espirava con un lieve sibilo. Solo gli occhi sembravano seguire con un nonsocchè di magnetico il selvatico in avvicinamento.

Io immobile mi sentivo scoppiare il cuore per l’impazienza.

Ah, ci fossi stato io al suo posto avrei già sparato almeno cinque o sei colpi.

Dieci metri, sette, cinque … Bam!

Vidi distintamente il verro spostare la testa di lato come se avesse ricevuto un potente schiaffone. Si piegò sulle zampe davanti e poi si rovesciò su un fianco. Scalciò inutilmente con le zampe posteriori contro la base di un castagno e poi svuotò i polmoni emettendo un ultimo rauco brontolio.

Berto si girò verso di me. Un angolo della bocca è appena sollevato verso l’alto ad abbozzare un mezzo sorriso di appagamento.

"T’e-e vistu …l’è cusci che se fa. Cianta au postu" (hai visto … è così che si fa. Piantata al posto -termine bocciofilo delle nostre parti che indica una bocciata secca e precisa-).

Facemmo non più di tre passi e giungemmo sulla spoglia. Berto la toccò con le canne ancora fumanti della doppietta.

"bella bextia, saia in quintale bun" (bella bestia, sarà un quintale buono).

Io avrei avuto una gran voglia di congratularmi o di dargli una pacca sulla spalla, ma qualcosa me lo impediva.

"ricurdite, se ti vô massàa di cinghiali ti deivi sta fermu e speetali, finchè nu te arivan tantu a tiu che ti ghe pëu vedde i eoggi. Se t’ei bun de fa cuxie, ti pëu cuntaa quexi de incantali tantu da tiaghe cun tranquillitæ"

(ricordati, se vuoi ammazzare dei cinghiali devi aspettarli finchè non ti arrivano tanto sotto che gli puoi vedere gli occhi. Se sei capace di farlo, puoi contare quasi di incantarli in modo da sparargli con tranquillità)

 

"Ricurdite sempre che u sciœppŏ ti devi tialu sciu primma de vedde u cinghiale, dunque quellu u vedde mescià, se gia inderè e porta via u belin e ti ti resti li cumme in axe"

(ricordati poi sempre che il fucile devi tirarlo su prima di vedere il cinghiale, altrimenti quello vede muovere, si gira indietro, porta via l’anima e tu resti li come un’asino)

Detto ciò, si frugò nella tasca della giacca, cavò quel suo mozzicone di temperino che sembra quasi ridicolo nei confronti del bestione che giaceva ai nostri piedi e si accinse a sventrarne la spoglia.

"ma come fai con quel coltellino così piccolo .. non puoi prenderne un altro?"

"baahh! I cutelli da giurnaa d’ancoô sun tûtti de meeze rûmente. Nu ne fan ciû de cumme questi"

(baahh ! i coltelli del giorno d’oggi sono tutti dei mezzi rifiuti. Non ne fanno più come questi).

In grazia del mio braccio al collo io non potei far altro che limitarmi ad osservare i compagni che dopo un po’ sopraggiunsero e con fatica misero in stanga e portano a valle il grosso verro. Anche loro, resi freddi dalla asciutta freddezza di Berto, si limitarono solo ad un breve cenno di congratulazione ed a qualche commento sull’esito della giornata.

Rientrammo all’auto e chiesi a Berto:

"Vieni in baracca a mangiare?"

"Nu, devu anà a cà a da da mangià au Pirri e ai cuniggi. Stamattin l’ho lascee sensa ninte"

(no, devo andare a casa a dar da mangiare a Pirri ed ai conigli. Stamattina l’ho lasciati senza niente)

Giunti nel cortile di casa sua si apprestò a scendere dall’auto. Poi si girò indietro verso l’abitacolo e mi disse:

"ti vegni drentu a piggiate in gottu de giancu?" (vieni dentro a bere un bicchiere di bianco?)

 

 

Io esitai un attimo. Francamente non mi aspettavo quell’invito: "ma si grazie, tanto è presto"

Entrai in casa sua. La cucina si trovava subito dietro la porta di ingresso. L’ambiente era pervaso da una certa puzza di cane frammista ad odore di fumo di legna e di cavoli bolliti e la pulizia lasciava a desiderare, come mi era capitato di osservare in quasi tutti quei covi dove le mani femminili intervenivano di rado.

Quel tombarello grasso di Pirri ci piombò tra le gambe, fremente e zampettante con le unghie che ticchettavano sulle mattonelle, felice del rientro del suo padrone.

Addossata ad una parete c’era una cassapanca con sopra gettato un plaid a quadri ed un cuscino ingiallito al centro. Conclusi che probabilmente Berto ci dormiva sopra per la pennichella o magari anche di notte.

In mezzo alla stanza stava un vecchio tavolino di castagno fatto a mano con sopra qualche nocciola, un pugno di noci, qualche caldarrosta fredda della sera prima, un mezzo bicchiere di vino e una coppetta ancora sporca di latte e caffè.

Nell’angolo una stufa di ghisa di quelle a due bocche che emanava ancora un timido tepore.

Berto sollevò un coperchio, frugò dentro la stufa con un attizzatoio, poi prese un pugno di legnetti e due tronchetti di nocciolo da una cassetta e rialimentò il fuoco, che si rimise a scoppiettare quasi immediatamente.

Da una mensola sopra il lavello di marmo grigio prese un’altro bicchiere e riempì anche questo per metà di vino bianco.

Per lui gettò via quello della sera prima e se ne versò altrettanto.

"t’è mangiou ninte da stamattin?"

(hai mangiato niente da stamattina?)

Non aspettò neanche la mia risposta. Aprì lo sportello di una credenza azzurra e tirò fuori un mezzo salame già sul suo piccolo tagliere di legno. Scartò e gettò a Pirri la prima fetta di un sospetto colore verdognolo, ne tagliò poi altre due e me le porse infilzate sulla punta del coltello, assieme ad un pezzo di pane raffermo del giorno prima.

Poi si mise a raccontare, mentre io masticavo piano quella merenda antica e frugale.

Indicandomi col coltello una vecchia foro sbiadita appesa al muro mi raccontò di suo padre che lo portava a caccia di lepri, l’unica caccia che avesse dignità d’essere chiamata così ai suoi tempi.

Tirò fuori da sotto la cassapanca una vecchia cassetta di legno. La aprì in modo da mostrarmi che era colma di vecchie cartucce di cartone esplose chissà da quanto. Mi raccontò di lui giovane, di quanto gli piaceva andare a tirare ai merli di rientro alla sera, di come ricaricava quei bossoli con solo una mezza dose di polvere e di pallini di piombo, di come aiutava sua nonna a spiumare gli uccelli la sera davanti alla luce del focolare ed al caldo dei ceppi scoppiettanti.

Poi mi raccontò della triste fine della sua famiglia, falcidiata dagli effetti di un diabete precoce e pernicioso, che pareva aver preso di mira tutti i maschi di casa, fratelli, nonni e padre compresi.

Senza giustificarsi mi fece però intendere così a modo suo le ragioni della sua solitudine, i motivi del fatto che non si era mai formato una famiglia temendo di portarsi dietro quella tragica tara ereditaria, il perché non aveva stretto salde amicizie con nessuno del paese, probabilmente oppresso dall’ombra incombente della morte.

Ora che me lo aveva rivelato, sul davanzale dell’unica finestra notai un pacchetto di siringhe e una scatola di fiale di insulina.

Evidentemente anche lui era ammalato, ma non voleva darlo a vedere e non desiderava l’aiuto e la comprensione di nessuno.

Andammo avanti così a frequentarci con sporadicità anche dopo che la mia spalla fu guarita e liberata dalle fastidiose fasciature.

Lui mi raccontò anche dei suoi segreti per la caccia al cinghiale, che poi veri e propri segreti non erano.

Come quelle narrate alla posta, si trattava solo semplici regole dettate dalla proverbiale scaltrezza contadina unita alla consapevolezza che la caccia è come la vita, va capita e presa per quello che è, senza troppo ricamarci sopra.

Per Natale di quell’anno gli comprai un coltello nuovo. Conoscendo oramai il tipo evitai di scegliere uno strumento importante, ripiegando per un più sobrio Opinel con solo qualche motivo floreale inciso nel manico di olivo.

Lui gradì molto, saggiandone il filo con il pollice e provando a tagliare una cartina delle sue cicche.

Poi venne l’estate. Le mie visite si erano già diradate per poi cessare del tutto ai primi di luglio, quando mi recai in ferie in Corsica.

Al mio ritorno mi capitò di leggere, affissi ai muri delle vie della mia cittadina, un paio di manifesti funerari con sopra scritto che dopo lunga malattia ci aveva lasciato Alberto Canepa, vulgo Berto.

Il testo era laconico. Nessuno ne dava il triste annuncio.

Il rosario ed il funerale erano già stati fatti la settimana prima.

Chiesi in giro e mi dissero che l’avevano trovato a casa, morto in cucina disteso sopra la sua cassapanca. Probabilmente il tutto era successo come conseguenza di un episodio di coma diabetico.

Se ci fosse stato qualcuno assieme a lui probabilmente se la sarebbe cavata.

Ma quella volta evidentemente Berto aveva fatto male i conti con la sua glicemia ballerina contro la quale combatteva da oramai troppi anni.

Se dovessi essere sincero fino in fondo, dovrei affermare che non rimasi particolarmente colpito dalla scomparsa di Berto.

Forse nel mio subconscio avevo già considerato la sua voluta solitudine e l’asciuttezza della sua vita ai minimi termini come un ricercato scivolo verso l’aldilà.

Forse, come lui, avevo anch’io messo inconsciamente in conto l’eventualità di una sua prossima dipartita da questo mondo che, se non fosse accaduta oggi, avrebbe potuto verificarsi magari l’indomani.

Andai al cimitero del paese.

A chiusura della colombaia non c’era ancora la lapide, ma solo una piccola tramezza di mattoni con una sola parola scritta sull’intonaco mezzo fresco col dito di qualche anonimo operaio comunale: BERTO C. Mentre ero lì a contemplare in silenzio la misera tomba, mi tornò alla mente una sola immagine: la sua ombra proiettata sulle foglie secche del bosco in una giornata di fredda tramontana invernale.

Mi riscossi dai pensieri mentre fissavo senza ragione dei vecchi crisantemi di plastica gialla sbiaditi ed opachi, evidentemente recuperati da qualche bidone della spazzatura, infilati nei cilindri rossi di un paio di moccolotti esauriti.

Rimasi là qualche tempo a pensare.

Pensai alla enormità della solitudine nella quale alcune persone sono condannate a nuotare per tutta la vita.

La solitudine si, brutta bestia.

Una bestia che prima ti asciuga l’esistenza e poi ti uccide, anche se sei stato tu a sceglierla come tua unica compagna.

 

 

 

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