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Un angelo frangiato

Il sensore elettronico percepì la sua figura e due lastre di vetro s’aprirono simultaneamente, quasi fosse Ali Babà che aveva recitato la formula magica di fronte alla grotta. 
Uscì dalla banca a passo spedito, dispiaciuto di non poter sbattere le porte come invece avrebbe voluto fare.
“Fanculo!!!” esclamò con un moto di rabbia, e sferrando un calcio a vuoto. 
Poi s’accorse che stava dando spettacolo e si calmò. 
Del resto lo sapeva già anche lui, e glielo aveva pure detto il suo commercialista.
“Le banche potrebbero aiutarti; potrebbero ma non lo faranno, perché da un po’ di tempo non lo fanno più con nessuno. ”
Anche il direttore della sua poi l’aveva fatto capire, e senza tema di smentita: lui, così gli aveva raccontato, ormai aveva ben poca autonomia decisionale e ogni richiesta della clientela veniva vagliata dalla sede centrale che, con una regolarità …quasi cronometrica, la bocciava!
Quella era stata la sua ultima possibilità e adesso avrebbe dovuto arrendersi, alzando bandiera bianca: la crisi mordeva e lui ne stava per esserne dilaniato; i sacrifici d’una vita sarebbero sfumati tra conti in rosso, debiti e carte bollate. 
La sua piccola attività artigianale, che oltre alla sua nutriva altre quattro famiglie, era sull’orlo del fallimento e nulla poteva essere ancora fatto per salvarla.
All’inizio le aveva tentate tutte, ma adesso la situazione non dipendeva più da lui; pure il mondo stava cambiando e, molto amaramente, bisognava prenderne atto. 
“Vedrai” l’aveva ammonito anni prima suo padre “…questa vigna continua non può durare a lungo. Prima o poi faremo tutti il botto e, credimi, sarà un gran botto!”
Carlo però non gli aveva voluto dar retta, continuando a spendere e investire nella sua attività. 
Adesso che quella previsione, precisa e funesta come le sestine di Nostradamus, s’era rivelata esatta e l’aveva capito anche lui, a sue spese; un paio di fallimenti, molti clienti che non pagavano più e il buco s’era creato con una velocità che non pareva possibile. 
Ma quello che più gli bruciava sulla pelle, tanto da non riuscire a darsi pace, era che il suo principale debitore fosse l’amministrazione pubblica, sempre solerte e implacabile a incassare tasse e gabelle ma inaffidabile quando c’erano da onorare gl’impegni. 
L’avessero pagato, lui ne era certo, avrebbe potuto farcela e salvare l’attività.
E così, in attesa che la situazione si sbloccasse, aveva usato gli ultimi soldi per garantire gli stipendi; nemmeno quello era bastato e alla fine aveva pure dovuto impegnare tutti i suoi beni.
S’era rivolto a parenti e amici ma poi s’era reso conto di come quella volta fosse davvero grigia per tutti e, a malincuore, aveva desistito per non metterli in difficoltà.
Cosa fare adesso?
Alla moglie non aveva voluto raccontare tutto ma lei, come ogni donna che conosca bene il suo uomo, aveva colto la gravità della situazione e cercava di non farlo pesare.
Erano sposati da dieci anni e avevano due figlie piccole, in età scolare; la sua preoccupazione era principalmente per loro. 
Le bimbe poi, come spesso capita, erano affezionatissime al padre e lo colmavano d’affetto.
L’anno prima Carlo, che ormai presagiva il disastro economico in arrivo, aveva sottoscritto una robusta assicurazione sulla vita, una di quelle che pagavano una forte somma in caso di morte.
E così, gli fosse accaduto qualcosa di grave, almeno i suoi avrebbero avuto di che tirare avanti. Quella polizza ora...sembrava essere l’unica soluzione!
“Se non trovo i quattrini che mi servono,” s’era confessato tra il serio e il faceto con un amico avvocato “la faccio finita, e risolvo tutto con il risarcimento dell’assicurazione.”
L’altro, che non aveva colto le sfumature del suo discorso, non gli aveva dato peso. Non aveva però potuto fare a meno di fare un’osservazione arguta, da avvocato qual’era.
“Bravo tu, tanto le compagnie non li pagano i suicidi se avvenuti prima di un certo numero d’anni. Per farla franca dovresti simulare un incidente, e farlo bene!” e poi, sempre convinto che Carlo scherzasse aveva aggiunto “Se però ti decidi dimmelo che ti do qualche dritta. Inteso che lo faccio gratis, sei un amico!” 
Aveva chiuso con una risatina che voleva essere simpatica ma, avrebbe potuto scoprire, era fuori luogo.
E così quell’idea che gli frullava da giorni nella testa, combinata a rabbia e disperazione, divenne un folle progetto.
Anche l’ammonimento dell’amico andava tenuto presente, e allora Carlo predispose un piano così diabolico che nemmeno il miglior Hercul Poirot o il commissario Montalbano l’avrebbero potuto svelare: l’incidente perfetto.
La soluzione, quasi senza volerlo, la suggerì Giovanni, amico e compagno di caccia che gli telefonò quella sera stessa.
Senza preamboli il collega esordì con una domanda che rimbombò a lungo nella testa di Carlo.
“Hai sentito di quello che è successo domenica scorsa in bassa valle?” 
“No, ho avuto un mucchio di problemi e non ho nemmeno sfogliato un giornale. Perché, cos’è successo?” rispose, senza aggiungere altri commenti.
“C’è stato un incidente durante una battuta al cinghiale e un cacciatore è morto per la fucilata d’un compagno.”
Carlo stette zitto per qualche secondo e poi riprese, quasi balbettando perché il suo cervello stava elaborando a mille.
“Pa…pa…pazzesco! Ma…, ma…dimmi: è stato davvero un incidente?” 
“Così dicono!” e poi stupito per quella domanda “Ma perché penserai mica che l’abbia fatto apposta? ”
“No, no, ma che dici! Nemmeno so di chi mi stai parlando” e poi per cercare di buttarla sullo scherzoso: “Piuttosto fai attenzione tu, e la prossima volta vedi di non spararmi! ”
L’altro per nulla insospettito per quelle divagazioni assurde abboccò:
“Non dire scemenze Carlo sono io a rischiare con te…” 
Poi s’accorse che l’altro taceva nuovamente.
 “…Carlo, Carlo …ma sei ancora in linea?”
“Sì, sì scusami! Riflettevo su quello che m’hai raccontato. ”
“Non pensiamoci più. Piuttosto volevo dirti che domenica io non ci sarò. Mio figlio gioca a pallone e devo accompagnarlo. Tu che fai? Vai?”
Ma Carlo ormai aveva trovato la risposta che cercava e ripose sicuro.
“Sì Giovanni, vorrei andare con il cane a cercare quel vecchio gallo; sai quello che sta sopra il Dente del Diavolo. ”
“Lassù, da solo?  Ma guarda che è molto pericoloso. Mi raccomando fai attenzione.”
“Ma certo, stai tranquillo sarò prudente. ”
“A proposito,” chiese ancora Giovanni che sapeva delle sue difficoltà economiche “com’è poi andata con la banca?”
“Cosa vuoi, lo sai anche tu come sono quegli usurai autorizzati: mille promesse, ma alla fine fatti davvero pochi. M’han detto di ritornare.”
“Vabbè Carlo, allora auguri; e in bocca al lupo per domenica. ”
“Crepi!” rispose lui, immaginando che però a crepare quella volta non sarebbe stato il lupo.
I giorni trascorsero veloci e nulla successe per fargli cambiare idea.
Il sabato sera andarono a cena dai genitori di lei e lui quasi non mangiò.
“Cos’ha tuo marito stasera, non ha toccato praticamente nulla?” chiese la madre alla figlia quando lui s’alzò e uscì a fumarsi una sigaretta.
“E’ molto preoccupato per il suo lavoro, sapete da un po’ le cose non vanno affatto bene. ”
“Sai cara,” aggiunse con sincerità il padre “potessimo l’aiuteremo in tutti i modi, ma abbiamo appena sposato tuo fratello e siamo rimasti a secco.”
“Lo so, lo so mamma. Ma non dovete preoccuparvi, Carlo è in gamba e troverà certamente qualche soluzione.”
Diceva questo con il cuore gonfio di tristezza e preoccupazione, e senza nemmeno sapere che lui il problema l’avrebbe risolto comunque.
 
La sveglia nemmeno suonò perché quella notte lui non chiuse occhio.
S’alzò e si preparò velocemente, lo stomaco era ancora chiuso e bevve solo un caffè. 
Tornò in camera e baciò sulla fronte la moglie, poi entrò nella cameretta delle bimbe, in punta di piedi. Si fossero svegliate certamente gli avrebbero parlato e l’avrebbero voluto abbracciare, togliendogli la forza di compiere quel folle gesto. 
Le carezzò, chiudendo con forza gli occhi per darsi coraggio. 
Fu tentato di lasciare un biglietto alla moglie, l’ultimo messaggio d’amore per lei e le bimbe, ma così si sarebbe scoperto rendendo inutile quel sacrificio. 
Controllò d’aver tutto e poi uscì.
Quand’era giornata di caccia Sky, il setter inglese di tre anni, faceva il diavolo a quattro tanto che spesso gli era toccato di farlo dormire chiuso in macchina, nel garage, ad evitare che lui all’alba svegliasse tutto il vicinato
Quella volta invece il cane era ancora nel serraglio, ma stranamente calmo e dimesso, tanto da sembrare svogliato. 
“Che abbia capito?” s’interrogò; ma poi quando gli aprì il portellone del fuoristrada Sky ci saltò su, con un prodigioso balzo e gioioso come sempre.
Un girò di chiavetta e il motore tossicchiò rumoroso, emettendo una densa nuvola di fumo nero.
“Dovrei fargli cambiare le candelette” disse tra se e se, fugando subito quel pensiero quando realizzò che il giorno che andava nascendo, per lui, sarebbe stato anche l’ultimo.
La notte era incredibilmente stellata e s’avviò.
Il profilo dei monti screziati di bianco era illuminato da uno spicchio di luna e spiccava sullo sfondo del cielo d’un blu scurissimo. Di lì a poco avrebbe cominciato a schiarire.
Durante il viaggio ripeté più volte il piano.
Il Dente del Diavolo era un posto infame: si trattava d’una specie di grosso sperone, un rilievo roccioso che s’elevava di una trentina di metri dalla cresta, molto simile a quelle torri costruite un tempo sulle coste mediterranee per avvistare i pirati saraceni.
Pietre lisce e taglienti che spaccavano il fianco del monte lo orlavano su ogni lato, ed era punteggiato da larici e pini contorti e tappezzato da arbusti e rododendri cresciuti in ogni anfratto. Lì dimoravano i vecchi galli e uno in particolare stava a cuore a lui e Giovanni.
Diverse volte l’avevano insidiato, ed era anche capitato che i cani riuscissero a fermarlo e farlo involare. 
Che poi fosse sempre la stessa bestia lo pensavano solo loro, perché non v’era alcuna ragione per crederlo.
Quel forcello stava in pianta, di vedetta, e quando s’accorgeva che cacciatori e cani stava salendo si fiondava a valle, beffando i suoi inseguitori che potevano intravederne solo la sagoma scura saettare tra i rami. 
Se invece i cani l’agganciavano al suolo, in pastura, allora lui andava via di pedina, rimontando gli aspri canalini ben nascosto dalla fitta vegetazione per aprire, una volta in cima, le sue potenti ali e tuffarsi dall’alto, a velocità folle, sul versante opposto che precipitava quasi in verticale.
Lassù a rischiare la vita non erano certo gli uccelli, e più d’un cacciatore ci aveva lasciato il suo prezioso ausiliare, sfracellatosi tra quelle rocce che s’aprivano infide ed improvvise tra la fitta boscaglia.
Carlo ci aveva pensato a lungo, e poi s’era convinto che si fosse gettato da là tutti avrebbero certamente creduto all’ incidente. 
Certo ci andava un grande coraggio, ma in quel frangente lui ne aveva da vendere.
Abbandonò la statale e imboccò il ripido sterrato che conduceva all’alpeggio del Sole.
Da quel punto in meno d’un’ora sarebbe arrivato al Dente del Diavolo.
Parcheggiò al solito posto: tutto doveva sembrare normale e anche la ritualità andava rispettata.   
S’allacciò gli scarponi e fece scendere Sky dall’auto fissandogli il beeper elettronico al collo. 
Trasse un profondo respiro e s’incamminò.
La giornata prometteva bene e il cielo s’era ormai acceso dei colori dell’alba, con la palla del sole incendiata e che faceva timido capolino sopra la catena alpina, continua ed ininterrotta che sgranava da oriente sino a riempire tutto l’orizzonte.
Per un attimo ripensò alla follia che s’apprestava a compiere ed ebbe qualche tentennamento, le prime perplessità da quando aveva preso la fatale decisione.
Poi la tragica realtà della sua situazione tornò a riaffacciarsi alla sua mente confusa e scosse rassegnato la testa: bisognava farlo perché non c’era altra soluzione.
Sky incrociava davanti a lui, attraversando i prati ancor verdi che circondavano l’alpeggio abbandonato da bestie e margari rientrati a valle dopo la stagione estiva.
Un paio di volte aveva già nevicato, ma il sole era ancora forte e caldo e la neve s’era disciolta quasi del tutto, lasciando solo qualche lingua bianca nei canalini più riparati.
D’un tratto Sky rallentò l’azione e poi bloccò decisamente. Fu un attimo solo, tanto che nemmeno il beeper suonò.
Carlo fece appena in tempo a rendersene conto e una lepre grigia schizzò davanti al cane che restò immobile.
Lui, d’autentico amante della caccia con il cane da ferma, s’era sempre dato una regola: mai sparare alla lepre levata dal cane, ad evitare che lui ne…prendesse il vizio e l’inseguisse. 
Sky era perfettamente addestrato e l’ignorò, ma lui era anche un cacciatore e la lepre pur sempre preda ambitissima. E poi quella volta era tutto diverso, si trattava dell’ultima uscita e uno strappo alla regola ci stava. 
Alzò il fucile e con sicurezza esplose un solo colpo, che andò perfettamente a segno. 
Poi quando vide la vide rotolare, colpita a morte, esclamò senza che ci fosse nessuno ad ascoltarlo: 
“Meglio così, almeno quando mi troveranno con lei nella cacciatora non sospetteranno nulla! ”
Erano le farneticazioni d’un uomo disperato e pure Sky, che invece aveva udito le sue parole, rimase stupito, guardandolo perplesso e incerto su cosa fare.
“Bravo Sky! Su, su bello porta, porta.” 
“Che strani gli uomini” dovette pensare in quel momento il setter “sino a ieri m’avrebbe punito e ora si complimenta. ”
Ma lui cacciava per il suo padrone e conosceva bene i doveri e così andò a recuperare la preda, presentandosi di fronte a lui, seduto e con il pregiato lagomorfo in bocca; Carlo lo carezzò mentre glielo toglieva dalla bocca.
“Bravo, bravo tu non puoi capire ma va bene così.”
Ma Sky invece aveva capito, eccome se aveva capito e uggiolò come a lamentarsi o rimproverarlo.
Lui mise la lepre nella ladra e la segnò sul tesserino.
“Andiamo” disse rivolto al setter “che adesso tocca a me.”
Entrarono nel bosco.
I larici cominciavano a spogliare, con gli aghi che dal verde brillante sfumavano in tonalità che andavano dall’ocra al ruggine, e cadevano a mazzetti ad ogni soffio d’aria o lieve scossone.
Sky esplorava minuziosamente e lui per un attimo fu preso dall’azione di caccia, indirizzandolo con il fischietto e il braccio nelle zone ove solitamente trovavano le pasture dei galli.
Fu questione di poco, e subito nella sua mente tornò a riaffacciarsi il pensiero che l’aveva portato in quel posto.  Lasciò perdere.
Risalì il ripido pendio e si diresse verso la cresta che nascondeva l’inaccessibile torrione diabolico.
In realtà si poteva salire e raggiungere quel recesso, ma prima bisognava fare una pericolosa azione d’equilibrismo, passando su un gradino di rocce e terriccio franoso; sopra e sotto pietra grigia e lucida, e intorno…aria, molti metri d’aria.
Superato quello stretto passaggio un piccolo canalino consentiva di salire alla cima dove, tra sfasciumi di granito, larici e ginepri contorti si nascondevano i vecchi galli. 
Altre vie non c’erano e probabilmente questo lo sapevano anche i fagiani.
Il loro poi era un fantasma, un autentico diavolo nero piumato, e forse, pensavano lui e Giovanni, era stato proprio lui a dare il nome a quel posto. 
Arrivò alla base del Dente del Diavolo preceduto da Sky che con il suo passo veloce e felpato si muoveva sicuro.
Il cane attraversò mostrando una certa irrequietezza, con il muso rialzato e le nari frementi alla ricerca d’ effluvi del selvatico.
Carlo trasse un profondo respiro: il salto, di qualche decina di metri, era sotto lui; un passo falso e sarebbe volato giù.
Soffriva di vertigini, e tutte le volte che era stato lì con Giovanni aveva usato la massima cautela.
Quella però era l’occasione che cercava per farla finita, e risolvere così tutti i suoi problemi; che fosse vigliaccheria, o atto di coraggio, in fondo non lo interessava più di tanto. 
Lo turbava invece il fatto di compiere una vera e propria truffa, un’azione contraria alla legge e alla morale: il delitto di se stesso!
Ricordò le parole dell’amico: “...dovresti simulare un incidente, e farlo bene”; la messa in scena deve essere perfetta e allora scaricò il fucile, come normalmente faceva tutte le volte che affrontava punti pericolosi. Poi, con la suola dello scarpone, cominciò a scalzare il gradino di terra, a fingere la fatale scivolata.
Stranamente non era agitato e il cuore, anziché rullare a tamburo come sarebbe stato normale in quel frangente, aveva rallentato i suoi battiti, sin quasi a fermarsi.
Era impegnato in quell’azione quando udì il lamentoso richiamo del beeper di Sky.
“Dannazione, proprio adesso” esclamò d’impeto riprendendo a scavare con il tacco, ma poi l’istinto del cacciatore prese il sopravvento e l’ansia di completare l’azione del suo ausiliare divenne sempre più forte, quasi pressante. 
Con qualche rapido passo superò l’infido passaggio e si portò al sicuro. Ci avrebbe pensato dopo a completare il suo piano.
Aprì il fucile e lo ricaricò, cercando di fare meno rumore possibile; poi cercò d’individuare la sagoma di Sky.
Fece qualche metro, aggirando un pietrone grigio che gli oscurava la visuale restando sempre appoggiato con la mano aperta ad alcuni larici che erano cresciuti sull’orlo del burrone; infine imboccò un ripido canalino, lo stesso risalito poco prima dal cane.
Il cuore ormai sembrava essersi risvegliato e pompava sangue alla grande, la fronte s’imperlò di sudore e una magnifica tensione venatica tornò a scorrergli nelle vene.
Affannato fece dieci, forse quindici passi e poi lo vide e si bloccò.
Sky era affondato tra i rododendri con la coda frangiata che, mossa da un vento che s’era alzato beffardo e improvviso, s’inarcava a sciabola, quasi a farlo sembrare un guerriero samurai che avesse estratto la sua affilata katana prima di sferrare l’attacco definitivo. 
Il beeper continuava a ritmare l’azione, ma sembrava non disturbare la pace di quell’estremo rifugio; quel cumulo di vegetazione e rocce disordinate in quel momento a lui parvero d’essere l’eden in terra. La mente si sgombrò da tutto e Carlo si concentrò solo più sull’azione di caccia. 
Portò il fucile in posizione d’imbracciata e alzò cautamente lo scarpone per avanzare nuovamente.
Il piede era ancora sollevato che s’udì il fragore dell’involo, il decollo d’un missile nero che spuntava dal terreno, l’immagine magica d’una creatura celeste che ancora una volta s’era fatta demonio.
L’uccello gli sfilò di fronte, tanto che Carlo riuscì persino a distinguerne le caruncole; l’osservò estasiato ed esitò. Poi, ripresosi, esplose la prima fucilata che andò a vuoto. 
Ruotò decisamente il busto per seguire il volo del forcello e sparò nuovamente.
Questa volta ebbe l’impressione di colpirlo, ma fu un attimo perché sbilanciato dall’azione, e in equilibrio precario com’era, cadde all’indietro.
Il fucile gli sfuggì di mano e lui ruzzolò rovinosamente lungo il canalino da cui era salito, tutto raggomitolato a proteggersi dagli urti.
Perse conoscenza per qualche istante e quando la riprese, ancora tutto indolenzito, s’accorse che era proprio sul ciglio del burrone fermato nella sua corsa da quegli stessi larici che già l’avevano aiutato a salire.
La sua doppietta era rimasta qualche metro più in su, impigliata per la cinghia ad uno spuntone roccioso. Tutt’intorno i segni della sua caduta. 
La scenografia che s’era così creata sembrava essere perfetta per il suo dramma, e lo era così tanto che nemmeno Agata Christie avrebbe saputo scriverla meglio: bastava sporgersi un po’ e il gioco era fatto, perché un salto come quello non avrebbe lasciato scampo e nessuno avrebbe mai sospettato nulla. 
Lui poi non avrebbe nemmeno sofferto, tant’era certo che quel volo sarebbe stato fatale.
Mille pensieri intasarono il suo cervello, e mentre cercava di tirarsi su con la coda dell’occhio vide un movimento.
Di là, oltre il gradino roccioso che faceva da passaggio, stava arrivando Sky. 
Il setter aveva l’aspetto d’ un mistico e austero sacerdote che tenesse sulle sue braccia la vittima d’un sacrificio, doloroso e violento quanto necessario.
In bocca infatti Sky portava un magnifico gallo, intatto nel suo piumaggio nero bluastro dai riflessi metallici; le caruncole, rosse e gonfie come frutti maturi, spiccavano e parevano la corona d’un re, il re di quelle montagne.
Sul suo viso, rischiaratosi come il cielo dopo un temporale estivo, riapparve il sorriso e scoppiò una gran risata.
“Vieni bello, vieni qua. ”
Carlo s’alzò, si rassettò e sistemò la lepre che durante il ruzzolone sulle rocce l’aveva salvato dalle botte e i lividi alla schiena, poi s’avvicinò a Sky che prudentemente s’era fermato a qualche metro da lui.
Il setter s’era seduto, trionfante, e fiero esibiva il suo trofeo.
Lui muovendosi lentamente allungò una mano per togliergli il gallo dalla bocca, mentre con l’altra cominciò a carezzarlo.
“Bravo Sky, sei stato formidabile tu….tu…tu m’hai dato…tu, tu…non puoi capire…” e una sola lacrima, che però ne concentrava mille, forse centomila, gli rigò la guancia.
Ma Sky, proprio come prima, aveva capito e gli leccò la mano.
“Recuperiamo lo schioppo e andiamo, che oggi il carniere l’abbiamo fatto,” riprese Carlo, tornato sicuro e motivato come un tempo “…domani è lunedì ed inizierà un’altra durissima settimana di lavoro.”
Poi, mentre compiaciuto stringeva tra le mani quel corpo piumato ancor caldo aggiunse sorridendo:
“Domenica prossima ti porterò a coturnici.”
Il cane si mise accanto a lui, quasi a proteggerlo come ne fosse l’angelo custode, un magnifico angelo frangiato. 
Infine i due s’incamminarono.
Mentre scendevano verso l’auto, tra quei boschi antichi ed eterni, un raggio di sole, impertinente e lucente come non mai, s’insinuò tra rami e vegetazione e li colpì, seguendoli per tutto il tragitto e facendoli rilucere.
Chi li avesse visti avrebbe facilmente potuto scambiarli per…beh, questo sceglietelo voi!
  
 
  
 
 
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