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SCRIVENDO & CACCIANDO: IL RACCONTO VINCITORE L'EDIZIONE 2015

SCRIVENDO & CACCIANDO: IL RACCONTO VINCITORE L'EDIZIONE 2015
Continuiamo con pubblicazione dei racconti che hanno vinto il nostro concorso di letteratura venatoria "Scrivendo & Cacciando".
Questa volta siamo all'edizione 2015 quando lo straordinario racconto "La tigre che visse due volte", scritto dal cuneese Vincenzo DECAROLIS s'aggiudicò il magnifico BENELLI Raffaello Power Bore che andava al primo classificato.
Decarolis non si fermò lì, vincendo anche il premio speciale "Adelio Ponce de Leon", messo in palio per il racconto più spiritoso.
Leggetelo, ne vale davvero la pena!

La tigre che visse due volte
 
     Più vicino.
Ancora più vicino!
     Ho una cosa bella da raccontarvi, ma…mi raccomando, acqua in bocca!
Tanto, nessuno vi crederebbe…
     E’ successa verso la fine del secolo scorso e i protagonisti sono alcuni personaggi del nord Italia, tra cui uno in particolare, che chiameremo Cecco, legato al mondo della Caccia. Quella con la “C” maiuscola, mitica, irraggiungibile per i più, che possono soltanto sognarne. 
Quella che parla di spazi immensi, di savane e paludi africane, di steppe russe e ghiacci polari, di altopiani mongolici e foreste canadesi, di sterminate pianure australiane e ogni altro luogo della Terra che ospiti selvatici,  portatori di un trofeo degno di questo nome.
     Era costui un uomo di una certa prestanza, un uomo “de panza”, in molti sensi e specialmente in quello fisico, ma tale caratteristica non gli era di alcun impaccio, anzi. Presso quasi tutti i popoli primitivi o semi-civilizzati, l’imponenza fisica è da sempre direttamente proporzionale all’autorevolezza del personaggio e questo gli tornava utile con i battitori e le guide di ogni continente che, invariabilmente, davano il meglio di sé per compiacerlo ed evitarne, non si sa mai, la collera. 
Il suo ruolo, invidiato da molti, era quello di White Hunter, cacciatore bianco, al seguito di ogni safari organizzato da un noto e facoltoso personaggio del mondo industriale, grande appassionato di natura e di caccia.  
Trascorreva in media 8/10 mesi all’anno in qualche sperduto angolo di mondo, sempre diverso, per garantire l’incolumità ed il buon esito dell’ennesima avventura del suo datore di lavoro. Costui, ormai anziano, spesso e volentieri lasciava a lui l’incombenza gravosa dell’inseguimento, degli appostamenti e dello sparo finale, bastandogli il possesso della preda preventivata. 
Il volto acceso e rubizzo lo collocava tra gli estimatori di bevande con un certo mordente, tra cui i rossi corposi e i bianchi delicati del Veneto, terra d’origine della Teresa, sua consorte e della Marièta, la suocera. E apprezzava in egual misura anche i distillati casalinghi di erbe montane, primo fra tutti il genepì delle vallate alpine.  
Gli veniva fornito dal Toni, parente acquisito, anche se con una certa parsimonia, per via delle difficoltà intrinseche al reperimento della materia prima. 
     Il carattere gioviale, sempre pronto alla baldoria e alla risata, si distingueva nei rari momenti in cui era presente in famiglia, in occasione delle feste comandate, in compagnia dei parenti stretti, una decina di persone in tutto. In tali ricorrenze i brindisi iniziavano già all’antipasto e quando si era alla frutta, come è umano attendersi, le dimensioni e la pericolosità delle prede raccontate lievitavano a vista d’occhio, non bastando più la braccia a misurare l’apertura dei trofei.
Protagonisti, però, altrettanto importanti di quanto sto per narrarvi  sono due altri personaggi: il fornitore di genepì e il Beppo, che facevano parte della compagine festaiola e vantavano nei confronti del Cecco, oltre ad un rapporto di parentela, anche una profonda amicizia.
E, a dispetto dell’autorevolezza e della bonarietà del personaggio, o forse proprio per questo motivo, l’avevano eletto a soggetto privilegiato delle loro attenzioni perverse.
Erano costoro due persone di indiscutibile levatura morale, professionisti accreditati, dotati di una innegabile serietà nel lavoro e padri di famiglia esemplari. Ma in certe occasioni, complici il sopraddetto genepì e suoi consimili e derivati, veniva fuori un’inclinazione irresistibile alla goliardia, preludio agli scherzi più arguti e feroci, di cui il Cecco era invariabilmente bersaglio.
Volete farvi un’idea?  Fatemici pensare un attimo…  
Era un mattino brumoso di novembre, appena giorno e caccia aperta. Il Cecco uscì a liberare il cane per una caccerella nostrana e rimase di stucco.
La sera prima i due marpioni gli avevano piazzato una beccaccia impagliata sulla corda del bucato, steso ad asciugare in fondo al cortile. 
Fu un attimo. La botta d’istinto sforacchiò il vestito buono della Teresa e tranciò la corda dei panni, che planarono graziosamente nella mota. 
Stella, la setterina, accorse trafelata allo sparo, ricamando indaffarata tra lenzuola e biancheria intima per tentare il riporto, aggravando il disastro.
La Teresa non gli rivolse la parola per una settimana…
Oppure quell’altra, che una sera, a cena di gran gala in corso, gli pitturarono il cane da guardia, un bastardino tutto nero, un po’ corto di gamba, dipingendogli due strisce bianche sul dorso e la mascherina sul muso.  Poi, gli applicarono una magnifica coda, appartenuta fino alla sera prima ad un’anziana volpe, ingrigita dall’età, facendolo uguale spiccicato ad una puzzola.
Lasciato libero in cortile, il povero animale si diede a girare in tondo, cercando di liberarsi dallo scomodo ornamento, dopodiché, opportunamente indirizzato dai due dissennati, infilò a gran velocità la porta della cucina, a famiglia riunita.
Non vi dico il pandemonio. Anzi, ve lo dirò la prossima volta.
I due scriteriati giunsero appena in tempo per evitare il peggio, col risultato che invece di rincorrere il cane, il Cecco, armato di una sedia, si lanciò dietro di loro, tra imprecazioni e minacce irripetibili. 
Non è qui dato di sapere se sia riuscito a raggiungerli, ma le collere del Cecco duravano al massimo quanto un temporale estivo, che impone la ricerca sollecita di un riparo ma, seppure altrettanto temibili e minacciose, con scoppi di tuono e guizzanti saette, lasciavano presto spazio al sereno.
Ci sarebbe poi quell’altra volta ancora…Ma stiamo divagando. Torniamo a noi.
Era l’inizio di settembre, quando le temperature sono ancora miti e scende un po’ di fresco la notte.
Il Cecco era appena tornato da un safari massacrante di oltre tre mesi nel Sudafrica, alla ricerca di coccodrilli e di un assortimento di antilopi e si stava godendo il meritato riposo. 
Era prossimo il periodo della vendemmia e lui divideva il suo tempo libero tra la cura dell’orto e quella della vigna, che gli dava qualche litro di buon rosso. Di tradizioni contadine, coltivava da sé quanto necessitava alla famiglia e, in sua assenza, lo sostituivano nelle cure colturali la Teresa e la  Marièta, di 70 anni e fischia. Piena di acciacchi e di artrosi era un lamento continuo, ma, nonostante tutto, ancora sgambettava, zoppicando, tra solchi di pomodori e insalata novella.  
Proprio in quei giorni, guarda caso, nella cittadina vicina s’era attendato un circo itinerante, che tra le attrazioni presentate vantava anche numerosi animali esotici, tra cui leoni, tigri, cavalli e cammelli e ogni sera davano spettacolo per la gioia dei bambini e, perché no, anche dei grandi.
Il sabato sera il Beppo si fece convincere dalla figlioletta, che voleva ad ogni costo andare al circo e dopo l’ennesima cena in famiglia per festeggiare il ritorno del Cecco, abbondantemente su di giri per i doverosi brindisi, si lasciò trascinare sotto il tendone. Presero posto su sedie scomodissime, ma questo non gli impedì di cedere all’abbiocco, russando tra una gomitata e l’altra. Finito lo spettacolo affidò la figlia alla consorte e poi si diresse al bar preferito, per chiudere in bellezza con un ultimo goccetto. 
Passando nuovamente nei pressi del circo notò un certo trambusto e, intrigante per natura, si fermò a curiosare. Sembrava una lite tra gli inservienti, di etnìa indiana, che si minacciavano a vicenda, urlandosi improperi in una lingua incomprensibile. 
A fatica, ficcanasando tra i ricoveri degli animali, riuscì finalmente a capire di cosa si trattava: una delle tigri, uno splendido esemplare maschio del Bengala, era purtroppo deceduto quel mattino, probabilmente per raggiunti limiti di età e gli inservienti litigavano per stabilire chi dovesse occuparsi di lui. Cosa non facile, per la stazza dell’animale e per il fetore che già ne emanava.
Andava separato dagli altri, in attesa dell’arrivo del servizio veterinario competente, che doveva stilare un regolare certificato di morte, indicando le modalità per lo smaltimento della carcassa. 
Il giorno successivo, però, era festivo e quindi tutto era rimandato al lunedi.
Al Beppo, che era rimasto fino all’ultimo, osservando le operazioni di trasferimento, cominciò a frullare in capo un’ideuzza e, man mano che prendeva forma, un ghigno satanico gli si andava stampando in viso. Sollecito, tirò giù dal letto con una telefonata il compare di malefatte, che già si era ritirato, ebbro almeno quanto lui e gli disse conciso e concitato: “S’ha da fare.” 
Non occorreva altro. Il Toni conosceva bene quell’urgenza nella voce.
Si appartarono in un angolo discreto del bar, ormai quasi in chiusura, e misero a punto i dettagli operativi e logistici. Avvicinarono gli inservienti e, individuato il soggetto giusto, ne catturarono l’attenzione sventolando qualche banconota. 
Fiutato l’affare, il Sikh inizialmente alzò le braccia al cielo, negando recisamente e chiamando a testimoniare tutti gli antenati e tutti i santi del suo personale paradiso. Dopo un serrato mercanteggiare, però, una discreta sommetta passò di mano e i due tristanzuoli ne ebbero in comodato d’uso una carcassa di tigre, ancora in buono stato, fino al lunedi mattino. Con discrezione, l’animale venne caricato, non senza difficoltà, sul furgoncino del Toni e i due si avviarono, tra cigolii di sospensioni sovraccariche e i ripetuti “Raccomando! Lunedi voi qui presto!” dell’indiano.
Erano pochi chilometri, ma, nonostante la percezione alterata della realtà, dovuta all’alcool ingurgitato, non fu un’impresa da poco. Il tanfo proveniente dall’animale, che permeava un ambiente ristretto come l’abitacolo di un furgone, era talmente potente da poterlo masticare.
Dovettero procedere con la testa fuori dal finestrino e il portellone aperto, favoriti dall’assenza di traffico, per incanalare all’esterno i miasmi pestiferi, tra imprecazioni, sbuffi e singulti, alla disperata ricerca di un po’ di aria. Come Dio volle, inerpicandosi per i tornanti che portavano al paesino, finalmente arrivarono, senza imprevisti, in prossimità della casa del Cecco.
S’erano fatte ormai le tre del mattino e in giro non c’era più anima viva.
Con circospezione, zittirono il cane e mollarono il carico davanti al cancello, posizionando poi il mezzo a distanza di sicurezza. Tra mille difficoltà, sbuffando e grugnendo per lo sforzo, trascinarono la tigre fino al pollaio, interno al cortile e la spinsero oltre la porticina d’ingresso.
I polli, dopo qualche protesta iniziale all’apertura della porta, s’erano zittiti, ammucchiandosi in una palla compatta nell’angolo più lontano del ricovero e non fiatavano più, il terrore negli occhi per quella presenza aliena e per l’insopportabile odore di selvatico che ne emanava. 
Respirando solo ogni tanto, i due la sistemarono in posa accovacciata, subito dietro la porta, posizionando il testone massiccio in modo che guardasse dritto in avanti, con gli occhi rimasti aperti nella fissità della morte e sorreggendolo con un bastone biforcuto, che rimaneva nascosto tra il folto pelame del collo. Richiusero poi la porticina, richiusero il cancello del cortile e si allontanarono sogghignando, trattenendo le risa fino a distanza di sicurezza. Arrivati al furgone si prepararono all’arrivo del mattino, in attesa di vedere la faccia del Cecco quando avrebbe aperto il pollaio. 
Ma non erano trascorsi più di cinque minuti che già russavano alla grande, rannicchiati sui sedili. 
Al piano terreno della casetta del Cecco dormiva la Marièta e quella notte, come molte altre e come quasi tutti gli anziani, aveva dormito poco. Verso il mattino s’era svegliata, sentendo un po’ di trambusto nel pollaio, cessato quasi subito, ma lei non era riuscita a riprendere sonno. Si girò e rigirò, finchè, sofferente da ogni articolazione, non resistette oltre e si alzò. Era ancora buio e per non svegliare gli altri uscì di casa, dedicandosi alle incombenze solite da sbrigare.
Avvolta in uno scialle, (non si sa mai… la cervicale…) preparò il becchime per le galline e si avvicinò al pollaio, chiamandole come faceva di solito il Cecco, vedendole precipitarsi alla rete da ogni angolo per disputarsi il cibo. “Cot.cot-cot…Pine-pine-pine…i xè ora de magnàr!” 
Ma quel mattino nessun pollo si fece vivo. Persino il ciacolamento solito non si sentiva. Anzi. Non si udiva volare una mosca. Ma in compenso si sentiva nell’aria un odore strano, un fetore nauseabondo che la Marièta si guardò intorno, perplessa.
“ Ma…Ma cossa ghe xè stà spùza…”
Guardò malamente il cane, che pure lui quel mattino non fiatava, prudentemente al riparo nelle profondità della cuccia. “ Cossa ti gà magnà, bèstia d’un càn…”
Si avvicinò alla porta del pollaio e l’aprì, mentre lanciava un’ultima occhiata al cane, che nonostante i richiami non accennava a muoversi. Girò lo sguardo… e per poco non ci restò.
Per tre secondi buoni rimase paralizzata, senza respiro, mentre catalogava inconsciamente i dettagli principali:  “Xè grosso… Xè molto grosso… Xè anche colorato... E spùza ch’el pare un gabinèto!”
La vecchierella gettò per aria la pentola ammaccata contenente il becchime e corse a tutta birra verso casa, perdendo le ciabatte e lo scialle, dimentica della cervicale, mentre dava finalmente aria alla strozza, chiamando con voce stentorea il genero, che dormiva al piano superiore.
“Cecco!! Cecco!!! Ghe xè un bestiòn! Un bestiòn nel ponàro!! (pollaio) El ga magnà tuti i polàstri!!”
Fece la scala in un battibaleno, in barba all’artrosi e ai vari malanni che l’affliggevano, spalancando la porta della camera, mentre berciava: “El bestiòn!!! El bestiòn nel ponàro!!” 
Il Cecco aprì a fatica gli occhi, un mal di testa feroce, mentre la Marièta saltellava come una cavalletta, avanti e indietro dalla porta al letto, incapace di star ferma e continuando a strepitare: “Xè grosso!! E tutto giallo e mòro!!” Rassegnato, il Cecco buttò giù le gambe dal letto.
“Ho capito! Ho capito!! Chètate Marièta, ghe pensi mi.”
Con gli occhi semichiusi s’infilò i pantaloni e aprì il blindato, prendendo il calibro dodici. Si infilò in tasca qualche cartuccia del doppio zero e si avviò alla scala. 
“ Maledette volpi! Questa è la seconda di quest’anno. Devo decidermi a sistemare la recinzione.”
Scese ciabattando e imprecando, mentre infilava due cartucce nelle camere e usciva in cortile, dirigendosi verso il pollaio.
La porta era rimasta semiaperta e il Cecco, arrivato a metà cortile si fermò. S’intravedeva una massa scura acquattata, che poco aveva a che fare con una volpe. Si stropicciò gli occhi annebbiati dal sonno e dalla sbornia residua e guardò nuovamente. “Ma quante sono?” 
La luce ancora scarsa rendeva difficile l’identificazione e lui mosse ancora qualche passo, finchè i particolari della figura accovacciata gli balzarono agli occhi e lui si bloccò all’istante. 
“Ma cosa…Ma come…” 
Incredulo, coi capelli dritti, fissava la fiera acquattata, in una posizione che lui conosceva così bene, preludio allo scatto, che il minimo movimento poteva scatenare.
Con gli occhi della mente intuiva la coda che sventagliava nervosa, vedeva gli artigli che mordevano il terreno, per fornire l’appoggio alla spinta dei muscoli poderosi, vedeva le orecchie appiattite e le narici che vibravano, bevendo avidamente l’effluvio della preda e per poco non cedette al panico.
Ma riuscì a dominarsi. Mai mettersi a correre! Un topo che scappa è un richiamo irresistibile per il gatto. E che gatto!! Lentamente, molto lentamente, indietreggiò, non staccando mai gli occhi dall’animale, finchè, dopo un’eternità, sentì sotto i piedi il bordo del marciapiede rialzato. Volse appena lo sguardo per individuare la porta, avendone una fugace visione di due paia d’occhi alla finestra, spalancati come due fanali e si fiondò all’interno, sprangando l’apertura. Si rivolse a moglie e suocera: “Filate di sopra!! ” Poi si precipitò al blindato e, dopo un rapido esame, ne cavò il 577 Nitro Express. 
Era un’arma magnifica,  di pregevole manifattura inglese, che spingeva un proiettile semiblindato da 750 (Settecentocinquanta!) grs. alla velocità di circa 620 m./sec. Un calibro esuberante persino per i più grossi selvatici a pelle spessa, ma il Cecco non era tipo da correre rischi inutili.
Lo caricò e controllò la situazione dalla finestra. 
Alla luce ancora scarsa dell’alba la tigre sembrava sempre acquattata all’interno del pollaio, ma la porta semichiusa e un maledetto vaso di limoni proprio sulla linea di tiro, lo obbligarono ad uscire in cortile per avvicinarsi. Con la bocca da fuoco in punteria, sistemò altre due cartucce tra medio e anulare ed anulare e mignolo della mano sinistra, per replicare con la massima rapidità ulteriori due colpi e poi si avventurò all’esterno.
Cautamente, si portò in posizione e quando ne ebbe libera la visuale, rapidamente puntò e fece fuoco. Due volte.
Il paese era piccolino, arroccato su due alture vicine e la casa del Cecco era in posizione dominante su una di esse. L’altra ospitava la quasi totalità delle rimanenti abitazioni, tra cui la chiesetta ed il Municipio. L’onda d’urto della prima bordata, riverberandosi tra pendii e vicoli in quell’ora antelucana, tirò giù dal letto una buona metà del paese. La seconda fece trasalire perfino i morti.
In breve, accorsero le massime autorità del paese, il Sindaco, il Parroco e la perpetua, per rendersi conto dell’accaduto, mentre il Cecco si avvicinava cautamente alla sua preda, accorgendosi finalmente della beffa.
Arrivarono altri curiosi ed ognuno diceva la sua, turandosi il naso e sghignazzando mentre guardavano l’animale, ora adagiato su di un fianco e analizzavano la potenza dei colpi. Una delle palle aveva divelto un cardine della porta, tranciando il montante di supporto della rete, per cui la chiusura pendeva da un lato, malinconicamente sbilenca come un tratto della recinzione, abbattuto dallo sparo. 
E infilavano il dito nel foro del proietto, sogghignando e suggerendo frivoli paragoni scurrili. 
Tra di loro c’erano anche i due responsabili, che, svegliati di brutto dal primo sparo, si erano avvicinati al pollaio ed ora non riuscivano più a trattenere le risate, dandosi grandi manate sulle spalle, con le lacrime agli occhi. “ El ga copà…la bèstia morta! E due colpi…mica solo uno!”  E giù a sghignazzare! 
Il Cecco li squadrò, dubbioso, l’ombra di un sospetto negli occhi ed infine, uditi alcuni commenti, mangiò la foglia, intuendo l’accaduto. 
“Voi! Siete stati voi!! Mi ve còpo!!!” E si precipitò in casa.
I due si guardarono. E il Beppo azzardò: “Mi sa che l’è inc…to nero. Forse xè meglio che ci portiamo fora…” Ma il furgone era bloccato dalle auto dei curiosi e i due s’incamminarono con una certa sollecitudine, tagliando per la vigna. 
Intanto il Cecco aveva sostituito il 577 con la doppietta di prima e stava per precipitarsi fuori, quando la moglie lo bloccò. “ Cossa ti vol far? Ti xè diventato màto? Ricordate che xè pur sempre tuo fratèlo! E l’altro xè tuo cognato! Cossa dirai a tua sorèla?”
“ Xè ben per questo che go preso dei numeri 11! Roba picolèta, da oselèti! Eehhh…Che ti vol che sia! Con due o tre balìn ghe brùsan nel dedrìo mi ghe fasso passar la voja de cojonarme!!” (Con due o tre pallini che bruciano nel didietro io gli faccio passar la voglia di prendermi in giro!)
Paonazzo di rabbia, ignorò gli strilli della Teresa e corse in cortile, con la doppietta imbracciata.
“ Dove sieteee ? “ Si guardò intorno e li scorse che, ulteriormente motivati da quell’urlo belluino, correvano a gambe levate tra i filari di nebbiolo, ormai fuori tiro. 
Un’eventuale botta diretta sarebbe stata probabilmente del tutto innocua, limitandosi forse a far fischiare qualche pallino orfano alle orecchie dei due corridori e inculcando un po’ di timor di Dio in quelle zucche bacate. All’ultimo istante, però, un barlume di luce si affacciò comunque alla coscienza e gli deviò il tiro. 
La doppia scarica, rivolta a terra, si limitò a far scempio di pampini e grappoli quasi maturi, mentre il Cecco, con un ruggito frustrato di rabbia, tirava loro dietro la manciata delle rimanenti cartucce.  In breve, i due scomparvero oltre l’orizzonte, riparando in un capanno di attrezzi.
Intanto, erano giunti anche i Carabinieri, allertati da più di una telefonata e la situazione si delineò nella sua interezza. Facendo sforzi immani per soffocare l’ilarità, in virtù dell’appartenenza ad una Istituzione oltremodo seria, il Maresciallo, recuperati i due malfattori, interrogò i protagonisti della vicenda e si riservò di verbalizzare le deposizioni, convocando immediatamente tutti in caserma.
Là giunti, fatta chiarezza su ogni dettaglio, le accuse ventilate di tentato omicidio, bracconaggio e vilipendio di cadavere di specie super protetta, furono derubricate a sparo in luogo abitato per cause di forza maggiore e sull’episodio venne steso un velo pietoso. Il Maresciallo, dopo una bella ramanzina, rispedì tutti quanti a casa, dando finalmente sfogo alla grassa risata che tratteneva da troppo tempo. 
Il povero animale, dopo i necessari rilievi dell’Autorità Sanitaria, venne prelevato da un’ escavatrice e tumulato in un terreno di proprietà del Comune, a ridosso del cimitero.
Tutte le spese vennero addebitate ai due ribaldi, che pagarono senza fiatare, sogghignando, fieri della loro prodezza. E’ pur vero che girarono al largo per qualche giorno dal Cecco, ma in cambio riscossero un’attrazione di pubblico insperata, ripetendo ad ogni piè sospinto la storia della tigre che visse due volte e che fu infine giustiziata per aver attentato ai polàstri della Siòra Marièta.
E la storia travalicò anche i ristretti confini del paesino, espandendosi a quelli limitrofi, arricchendosi  di nuovi particolari e lievitando via via che passava di bocca in bocca.
Nell’ultima versione accreditata, l’animale s’è magnato i polàstri, il cane e la Marièta;  il Cecco ha tirato giù la casa con un colpo di mortaio e la tigre è morta di spavento.
E la Marièta? 
Poareta… Lei sì che c’è mancato un filo… E ancora oggi, a novant’anni suonati, gira prudentemente al largo dal pollaio e sull’argomento non le cavan fuori una parola, nemmeno in confessione.  
“ Go ciapà uno spauràzo (spavento) che solo a pensar me vien la batarèla!” (batticuore).  
Com’ebbe più o meno a dire, anni fa, un mio collega: 
“ …Ahi…quanto a dir qual’era è cosa dura, esta “belva” selvaggia e aspra e forte, che nel pensier rinnova la paura…”.
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