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Tre gambe e il naso fino

Tre gambe e il naso fino
La natura spesso gioca brutti scherzi, ma quando può li corregge.
Billy era nato con un’anomalia ad un arto e il cane, ancor cucciolo, aveva imparato a camminare con  tre sole gambe.
L’anteriore destra era diventata atrofica e lui la portava sempre piegata verso l’alto, senza mai appoggiarla a terra.
Un tavolino a tre gambe sta in piedi lo stesso, ma è  sempre meno stabile di uno che ne abbia quattro; figuriamoci se, a differenza di un mobile condannato ad una vita statica,  deve anche muoversi e correre dietro ai selvatici.
Billy era un  segugio, solo simile nell’aspetto a quello italiano e non certo di razza  pura.
Nelle campagne piemontesi degli anni sessanta ogni cagnolo, dotato di  grinta e naso decente, poteva essere buono per la caccia.
Se poi s’aveva la fortuna d’averne uno davvero abile, allora lo si incrociava senza badare a genealogie e linee di sangue.
Peli lunghi, duri o rasi venivano miscelati senza troppe attenzioni, dando origine a cani da seguita particolari, i  “cravin”  così detti per l’aver un pelame simile a quello di alcune piccole capre alpine. 
Era stato Giacu, amico e compagno di caccia di papà, a trovarselo in una cucciolata.
Subito non se n’era preoccupato, credendo che quella zoppia fosse temporanea.
Ma  il cane non migliorava e lui, a malincuore, decise di disfarsene. 
Non c’era cattiveria nel suo gesto ma Giacu faceva l’operaio e non poteva permettersi di mantenere troppi cani, specialmente se inadatti alla caccia, cui erano destinati.
Troppe bocche da sfamare, seppur a pane secco e avanzi di cucina.
Papà era più fortunato. Aveva un’attività redditizia e poteva tenerlo senza troppi sacrifici.
E così Billy andò a fare compagnia agli altri “sus” (segugi) della sua muta personale. 
Nei suoi momenti migliori la squadra degli amici disponeva di un nutrito gruppo di cani e poteva schierare in campo dieci o quindici buoni soggetti.
La lepre era il loro animale d’elezione, e l’insidiavano dalla prima giornata di caccia sino a novembre inoltrato. Poi smettevano perché c’era il rischio che le femmine fossero gravide e allora le risparmiavano per l’anno dopo.
Le strade non tagliavano ancora tutto il territorio e le coltivazioni erano rimaste  quelle dei tempi passati; i campi di mais, ora stesi a perdita d’occhio come un mare di barbe verdastre, erano piccoli appezzamenti e il territorio veniva delimitato da siepi, boschetti ed altri ostacoli naturali a renderlo diseguale e sempre vario.
Pur abitando nella cintura della grande città industriale a papà non serviva l’auto per andare a caccia. 
Bastava uscisse di casa che subito poteva aspettarsi lo schizzo della lepre o il frullo delle starne.
C’era quel gusto delle cose antiche che ripetono, eguali e mai monotoni, i propri riti, quasi fossero scritti a fuoco nella memoria della gente.
Chi cacciava consumava la selvaggina, sapendo d’esercitare un’azione violenta ma necessaria. La sera poi tutti al bar a raccontarsi le storie della giornata.
Vigeva sana competizione tra ogni squadra di cacciatori e chi era contadino, o amico di questi, era privilegiato perché poteva sapere dove si fossero rifugiati i selvatici.
S’andava via al mattino presto e si lasciavano i cani ad esplorare prati e medicai.
Naso a terra e coda dimenata alta, a sciabola, sino a che veniva rintracciata la pastura notturna. 
Era il momento atteso. Lo scagno, dapprima timido e sporadico, si faceva forte e cadenzato: la lepre c’era ancora, e s’era rimessa lì vicino! 
I cacciatori correvano ad appostarsi, e quando la canizza si faceva furiosa era perché i segugi avevano avvistato l’orecchiona.
Billy, penalizzato com’era nella corsa, non poteva competere in quanto a fondo e atletismo e spesso non veniva nemmeno scaricato dall’auto. 
Papà però s’era accorto che il cane, a dispetto dei suoi sfortunati natali, aveva qualcosa in più degli altri, e non in meno.
Il giovane segugio possedeva quella rara dote d’un perfetto connubio tra naso potentissimo ed intelligenza acuta.
Quando gli altri cani insistevano troppo sulla passata senza risolvere, allora arrivava il suo momento: qualcuno tornava all’auto e lo prendeva. 
Billy veniva condotto al guinzaglio, per evitare s’allontanasse, e poi rilasciato. 
Lui si portava a ridosso degli altri e poggiava a terra il potente tartufo.
Quasi fosse un potente aspirapolvere, le sue sensibilissime cellule olfattive captavano ogni minimo effluvio, discernendolo tra l’intrico degli odori.
Partiva saltellando e quando dava il primo abbaio si poteva esser certi che avrebbe svelato l’enigma.
A quel punto tutto il resto della muta diventava superflua, anzi d’impaccio, e si poteva anche legarli tutti.
“ Iap, iap, iap! ” il formidabile tregambe s’infilava in sorghi, lavorati o granturcheti fittissimi, sempre sull’orma della lepre.
I minuti passavano lentamente e se continuava l’abbaio ritmato il selvatico era ancora in zona, e stava usando tutte le sue astuzie per seminare l’implacabile inseguitore.
Billy non mollava, aumentando solo il volume dei latrati, quasi volesse segnalare agli uomini che la lepre c’era davvero,  e lui l’aveva scovata e fatta fuggire.
Fuori la tensione aumentava, s’alzavano verso la spalla i fucili e si tendevano le orecchie, a cogliere ogni rumore.
“Pum, pum ”,  dall’altra parte della melia uno di loro aveva sparato e forse ucciso la lepre.
Nessuno si muoveva e tutti aspettavano in silenzio che Billy sbucasse dal mais, proprio dov’era uscita la preda, e la raggiungesse: quell’animale era suo e tutti lo sapevano.
Ma come spesso accade in tutte le belle storie, le miserie umane non hanno confini.
Quel cane, brutto e sciancato, suscitava ormai l’invidia di molti.
Chi perché vedeva umiliati i suoi, e chi invece per sola gelosia.
Forse, ma non lo saprò mai, era mio padre a stare sulle palle a qualcuno!
E così in una notte agostana, mentre noi eravamo al mare, una mano assassina scagliò un boccone avvelenato oltre il muretto che divideva il nostro giardino dalla strada.
Lì c’era il serraglio dei cani, e quel bastardo certamente lo sapeva. 
Billy mangiò quel pezzo di carne venefica e morì tra atroci sofferenze.
Non esistevano ancora i telefonini e solo il mattino successivo papà fu avvisato.
Partì subito, ma solo per seppellire quel suo grande cane che da scherzo della natura s’era trasformato in autentico fuoriclasse.
Un uomo saggio ha scritto che l’unico dolore che un cane può dare al suo padrone è quando muore. Lo credo anch’io!

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