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FIDC: una sentenza che fa parziale giustizia sugli abusi nei controlli sulla caccia

FIDC: una sentenza che fa parziale giustizia sugli abusi nei controlli sulla caccia

Lo scorso 17 settembre si è concluso il procedimento penale che vedeva la Federazione Italiana della Caccia parte civile nei confronti di alcuni imputati di una serie di reati commessi a danno di cacciatori.

Raffaele Stano, all'epoca sovraintendente dell'allora Corpo Forestale dello Stato, Pasquale Salvemini, Angelo Nitti, Moisè Mario Salvatore Checchia, Domenico Barcone e Giulio Sasso - guardie venatorie volontarie del WWF - erano imputati dei reati di violenza privata, calunnia, falso, falsità ideologica, lesioni personali, morte come conseguenza di altro reato e detenzione abusiva di armi. Vista la lunghezza del procedimento per alcuni dei reati ascritti è subentrata la prescrizione.

Raffaele Stano è stato però condannato alla pena di tre anni e tre mesi di reclusione e all'interdizione dai pubblici uffici per cinque anni per uno dei reati di falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici, e non ancora prescritto.

Anche gli imputati Pasquale Salvemini e Moisè Mario Salvatore Checchia sono stati riconosciuti colpevoli del reato di falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici e condannati a due anni e sei mesi ciascuno.

Il Tribunale di Trani ha inoltre condannato lo Stano, il Salvemini, il Checchia, la Provincia di Bari e il Ministero delle Politiche agricole e forestali, sempre in relazione ai reati di falso per i quali è intervenuta condanna, al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali da liquidarsi in separata sede in favore delle parti civili costituite.

Le imputazioni riguardavano una serie di episodi avvenuti dal 2003 al 2007 nella Provincia di Bari durante dei controlli dell'attività venatoria effettuati da un gruppo di "guardiacaccia" composto da un sovraintendente del Corpo Forestale dello Stato, Raffaele Stano appunto, e da alcune guardie giurate volontarie venatorie del WWF in possesso dell'autorizzazione rilasciata dalla Provincia di Bari.

Durante i controlli gli agenti, quindi pubblici ufficiali, agivano con modalità illecite abusando dei loro poteri senza indossare la divisa di ordinanza o i segni distintivi obbligatori, e con intenti persecutori nei confronti dei cacciatori da loro controllati.

Addirittura era contestato che con l'intenzione di denunciare e "incastrare" i cacciatori, gli agenti posizionassero degli apparecchi da richiamo vietati in prossimità degli stessi per poi addebitare le relative violazioni e sequestrare i fucili ai cacciatori stessi che, nel frattempo, venivano fatti oggetto di ogni tipo di violenza, costretti a spogliarsi, sottoposti a perquisizioni e subendo in alcuni casi anche lesioni fisiche.

Tre degli imputati vennero arrestati e sottoposti agli arresti domiciliari proprio per le modalità particolarmente violente dei controlli, esercitati presentandosi all'improvviso urlando, camuffati con passamontagna e bandane e armati di pistole.

Fu proprio in occasione di uno di questi blitz che nel novembre del 2005 perse la vita il riccionese Sergio Botticelli, letteralmente spaventato a morte mentre, a caccia insieme a tre amici, fu costretto a spogliarsi fino a che morì per arresto cardiocircolatorio causato dallo stato di tensione, terrore e agitazione provocato dalla violenta azione degli imputati.

L'indagine iniziò nel 2005 a seguito della denuncia presentata dai familiari del defunto Botticelli e dai suoi amici cacciatori nonché dalla Federazione Nazionale della Caccia.

Ma purtroppo la lunghissima durata del dibattimento di primo grado ha portato il Giudice a dover dichiarare la prescrizione dei reati di violenza privata e morte o lesioni come conseguenza di tale violenza, e contestati rispetto a questo specifico fatto.

Solo parziale dunque la soddisfazione per aver visto sanzionato un comportamento gravissimo, reso ancora più odioso per essere stato messo in pratica da un rappresentante dello Stato e da un gruppo di persone che avevano deciso di anteporre la propria ideologia al ruolo di garante della legge, e quindi al di sopra delle parti, che avrebbero dovuto ricoprire.

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