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Cheratocongiuntivite infettiva

Cheratocongiuntivite infettiva
Il termine cheratocongiuntivite infettiva (IKC) è utilizzato per descrivere una condizione clinica caratterizzata dall’infiammazione uni o bilaterale della cornea e della congiuntiva, che non è sempre ascrivibile allo stesso agente infettivo. Questa malattia ha una diffusione mondiale ed è la più comune affezione oculare delle pecore e delle capre domestiche, è stata inoltre descritta in numerose specie selvatiche: camoscio (Rupicapra rupicaprae), stambecco (Capra ibex), camoscio dei Pirenei (Rupicapra pirenaica), muflone (Ovis musimon ).
La principale causa di cheratocongiuntivite negli caprini domestici e selvatici è Mycoplasma conjunctivae, anche se, per quanto riguarda i selvatici, solo recentemente si è riconosciuto M.conjuntivae quale agente della malattia.
Infatti, benché sin dal 1969 sia stato dimostrato che questo agente patogeno poteva dare IKC nel camoscio, il mondo scientifico è andato avanti per circa un trentennio a discutere su quale e/o quali agenti patogeni inducessero la IKC nei ruminanti selvatici.
 
 
Il fatto che si tratti di un micoplasma, un germe privo di membrana cellulare e quindi molto poco resistente nell’ambiente esterno, fa si che sia pochissimo resistente nell’ambiente anche se si tratta di una malattia estremamente contagiosa all’interno del branco o del gregge .
L’agente patogeno è infatti presente nel secreto lacrimale e, proprio perché non può vivere a lungo nell’ambiente esterno, la trasmissione avviene per contatto diretto o attraverso l’aereosol o ancora tramite vettori meccanici quali mosche. Le mosche, infatti, sono attratte dall’abbondante secreto lacrimale, ricco in proteine, sale ed acqua, e spostandosi continuamente da un ospite all’altro, favoriscono la trasmissione del germe soprattutto tra specie diverse, mentre all’interno del branco la trasmissione avviene soprattutto per contatto diretto. 
Per quanto possa apparire strano non sono infatti rari gli “incontri” tra le specie domestiche in alpeggio e i ruminanti selvatici come stambecchi (Capra Ibex) e camosci (Rupicapra Rupicaprae) soprattutto in aree in cui vi sono saline. La malattia ha una diffusione mondiale; ed è stata segnalata ovunque vi siano popolamenti di ruminanti domestici e/o selvatici.
In Francia è stata segnalata nei ruminanti selvatici nel 1974 nel Parco della Vanoise e ha dato origine nel 1977 ad una grande epizoozia nella riserva nazionale di Boges.
In Italia i primi casi di malattia vennero segnalati in Val Sesia nell’estate del 1981.
Nell’autunno-inverno vennero osservati animali colpiti da cheratocongiuntivite ad ovest di questo focolaio, in un settore della Valle di Gressoney (Valle d’Aosta) e focolai vennero segnalati nelle Alpi Graie in una zona a cavallo tra la Valle d’Aosta e la provincia di Torino a partire dal maggio 1982.
Epidemie associate ad un’elevata mortalità si sono verificate nel Parco Nazionale del Gran Paradiso e nel Parco Nazionale della Vanoise dal 1981 al 1983, in Valle d’Aosta nel 1998 e in Svizzera dal 1997 al 1999 e nelle Alpi Cozie (Val di Susa e Chisone e contigui versanti francesi) nel 2004.
La ragione di una grande differenza nel tasso di mortalità, variabile dal 5% ma con casi di mortalità di oltre il 30%, è ancora una questione aperta; può essere dovuta a una differente virulenza dei ceppi di M. conjunctivae oppure a una particolare condizione dell’ospite (genotipo, condizioni di salute). L’elevata contagiosità dell’infezione si evince anche dalla rapida diffusione dell’infezione che progredisce ad una velocità media di 15 Km l’anno, che è 3-4 volte superiore alla progressione della rogna sarcoptica del camoscio registrata sulle alpi orientali.
La malattia è caratterizzata oltre che dalla sintomatologia oculare, anche  da turbe del comportamento che sono dovute soprattutto alla ridotta o mancante capacità visiva, ma non si esclude possano derivare in parte anche dalla localizzazione encefalica di M. conjunctivae.
 
 
Le epidemie nei selvatici hanno in genere decorso estivo ed autunnale e tutti i soggetti sono ugualmente suscettibili, anche se in genere i più colpiti sono le femmine ed i piccoli perché vivono in branchi dove la trasmissione del patogeno da soggetto infetto a soggetto sano è più facile
L’incubazione è di circa  2-4 giorni e inizialmente è colpito un occhio solo, ma molto rapidamente le lesioni diventano bilaterali con una congiuntivite iperacuta con fotofobia pronunciata e lacrimazione abbondante che dura all’incirca 2-3 giorni. Questa fase iniziale è seguita da una fase di acme in cui la congiuntivite si aggrava e le lacrime diventano mucopurulente e conglutinano il pelo lungo lo scolo lacrimale. La fase successiva porta all’opacamento della cornea e, nei casi gravi, alla comparsa a livello corneale di una o più ulcere che comportano cecità irreversibile anche dopo la cicatrizzazione dell’epitelio corneale. 
Quando il branco è tranquillo al pascolo, mentre i soggetti sani brucano e si spostano per scegliere il nutrimento; i malati presentano il capo sollevato, con gli occhi chiusi e le orecchie in continuo movimento per localizzare i rumori, e si muovono di meno restando a volte in disparte o isolati dal resto del branco. Quando il branco si sposta rapidamente su di un pascolo pianeggiante, l’animale malato segue normalmente il branco, ma, appena compaiono degli ostacoli, la sua andatura rallenta diventando esitante ed impacciata di fronte a cespugli e alberi, e la camminata si trasforma in una marcia incerta con scivolate sul terreno roccioso.
Quando la malattia progredisce e sopraggiunge la completa cecità le cadute diventano frequenti ed anche gravi. L’incedere appare a questo punto anormale anche su terreno pulito dove l’animale alza e allunga l’arto anteriore per “tastare” il terreno su cui si muove.
Il soggetto a questo punto potrà apparire emaciato in seguito alla difficoltà di reperire cibo durante le circa 2 settimane di durata della malattia, dopo di che si avrà una guarigione con restituito ad integrum e, in assenza di ulcere corneali, una ripresa normale della funzionalità visiva. In una ridotta percentuale dei casi invece il soggetto non recupera la vista e si arriva al decesso per fame o trauma..
A differenza di quanto si osserva nei domestici in cui l’impatto della cheratocongiuntivite in un gregge di pecore è relativamente basso con sintomi moderati e talvolta assenti negli adulti, nelle popolazioni selvatiche le conseguenze della cheratocongiuntivite sono più marcate. Infatti, la cecità che ne consegue, anche se il più delle volte è soltanto temporanea, può determinare la caduta da precipizi, oppure determinare l’insorgenza di processi cachettici molto debilitanti dati dall’impossibilità a reperire cibo in quantità e qualità adeguate. Esiste infine la possibilità di un coinvolgimento meningo-encefalico che determina lesioni permanenti e irreversibili dei centri superiori.
Per quanto riguarda i rischi per la salute umana va segnalato come recentemente sia stato descritto un caso nell’uomo imputabile a contatto con piccoli ruminanti domestici infetti. Tale segnalazione, se da un lato evidenzia la possibilità di passaggio all’uomo dell’infezione con conseguente malattia e suggerisce l’adozione di idonee misure di protezione, dall’altro resta un caso finora isolato che suggerisce un bassissimo rischio di trasmissione all’uomo.
Quando si ha un focolaio di cheratocongiuntivite in una popolazione selvatica la diagnosi clinica, volta a valutare elementi rilevabili a distanza, è l’aspetto che maggiormente “attira l’attenzione” degli osservatori. 
Un animale colpito da cheratocongiuntivite presenterà un immediato deficit locomotorio di gravità variabile, sono caratteristici i movimenti di “arpeggio” degli arti anteriori volti alla ricerca di eventuali ostacoli. L’animale tenta di supplire alla diminuzione visiva con l’aiuto dell’udito e dell’olfatto con conseguente abnorme mobilità dei padiglioni auricolari e atteggiamento di iperestensione della testa sul collo e si possono, a volte, osservare soggetti che si muovono in circolo. 
Possono infine essere visibili le lesioni di tipo traumatico riconducibili al deficit visivo come per esempio fratture, abrasioni, rottura degli astucci cornei.
Con cannocchiale o binocoli sono infine apprezzabili le lesioni oculari precedentemente descritte e le strisce di essudato mucopurulento lungo il canale lacrimale, mentre, quando l’animale diventa cieco, è possibile avvicinarlo molto e osservarne le lesioni oculari.
Gli ovini rappresentano i principali serbatoi dell’infezione, anche se in questa specie raramente la patologia viene considerata “importante” perché  non determina un calo significativo della produttività dell’animale. Di conseguenza, a parte alcuni capi molto colpiti, non viene solitamente trattata, anche se l’agente patogeno è sensibile agli antibiotici del gruppo dei macrolidi e delle tetracicline.
Negli animali selvatici la cura dei soggetti con segni ascrivibili alla cheratocongiuntivite è impensabile per le ovvie difficoltà pratiche di trattare i soggetti a vita libera. Considerando poi l’elevata contagiosità che fa si che in breve moltissimi soggetti siano colpiti, e che la guarigione spontanea è il decorso più comune, il trattamento appare inappropriato per il controllo della malattia e, soprattutto, ininfluente sul decorso dell’epidemia. Anche l’abbattimento dei soggetti colpiti non è una misura consigliabile, perché rischia di aggravare il bilancio di un’epidemia senza peraltro riuscire ad arrestarne la diffusione. A tale riguardo basti ricordare che nel focolaio osservato nel Distretto 1 dell’Alta Val Susa il 28% dei camosci prelevati a caccia, pur in assenza di lesioni, aveva DNA dell’agente patogeno sulla congiuntiva.
La principale azione pratica è ridurre al minimo il disturbo dell’uomo nelle aree dove sono presenti soggetti malati al fine di evitare che gli animali temporaneamente ciechi compiano spostamenti affrettati e pericolosi. Questo riduce anche il rischio che soggetti infetti possano spostarsi trasmettendo l’infezione alle aree limitrofe ancora indenni.
La prevenzione della cheratocongiuntivite nelle popolazioni di animali selvatici dovrebbe essere volta fondamentalmente ad impedire che la malattia persista all’interno del bestiame domestico e le pecore che presentano segni di sofferenza oculare dovrebbero essere trattate prima di essere condotte agli alpeggi estivi con trattamenti sistemici e topici. 
La cheratocongiuntivite è uno dei casi in cui diventa fondamentale che gestione agro-silvo-pastorale e gestione faunistica siano coordinate al fine di garantire non solo la sanità degli animali domestici, ma soprattutto impedire che agenti patogeni possano da questi trasmettersi ai selvatici. 
A chi si chiede cosa può fare il mondo venatorio in questi casi rispondo dicendo che il primo passo è rendersi conto che la gestione faunistica deve essere inclusa nella gestione del territorio, considerando i molteplici aspetti delle interazioni che vi sono tra le varie componenti. Non va poi dimenticato che molto di quanto sappiamo riguardo all’epidemiologia di questa patologia nei ruminanti selvatici è frutto di collaborazione tra il mondo scientifico e quello venatorio: i casi della Svizzera e, a noi più vicino, dell’Alta Valle Susa, testimoniano come l’interazione tra questi due mondi permetta di acquisire conoscenze e strumenti fondamentali per una moderna gestione che salvaguardi lo status sanitario ed il benessere degli Ungulati selvatici. 
 
 
 
Cornea ulcerata con fuoriuscita del contenuto del globo oculare e perdita della possibilità di recupero in una femmina adulta.
Piccolo di camoscio con evidente scolo oculare e conglutinamento del pelo.
 
 
I soggetti che hanno perso completamente la capacità visiva tendono a limitare gli spostamenti e sono quindi più facilmente avvicinabili.
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