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Trichinella, il parassita perfetto

Trichinella, il parassita perfetto
Lo ammetto, a volte sembra quasi che  io “tifi” per gli agenti patogeni.
In realtà si tratta di rispetto, rispetto per organismi che hanno escogitato e sviluppano sistemi particolari per riuscire a sopravvivere e proliferare.
Non ho sicuramente intenzione di fondare la “Società per la difesa e salvaguardia degli agenti patogeni”, ma, se abbiamo risolto molti problemi sanitari, lo abbiamo fatto grazie alle conoscenze che abbiamo acquisito sui parassiti.  
Soprattutto abbiamo ridotto i rischi sanitari per l’uomo e gli animali applicando le conoscenze scientifiche acquisite al comportamento di tutti i giorni.
Detto questo, il titolo non si riferisce a “figure professionali” umane, bensì a un nematode conosciuto come Trichinella. Parassita perfetto perché riesce  a non lasciare mai il corpo del proprio ospite in cui permane per anni in attesa che un altro soggetto ingerisca muscoli e visceri del primo e permetta così la continuazione del ciclo.  
Bisogna ricordarsi che tutti i patogeni hanno il problema di passare da un ospite all’altro. Per farlo hanno escogitato diversi sistemi che, però, presentano degli inconvenienti. Infatti deporre le uova o le larve nell’ambiente le espone alla disidratazione, al caldo, al gelo e quindi solo alcune sono così fortunate da riuscire a trovare  un altro ospite in tempo.
Per ovviare a questo problema alcuni parassiti  (vi ricordate la filaria del cane?) si fanno trasmettere da vettori, che sono in genere artropodi ematofagi che assumono con il pasto di sangue il parassita da un animale e lo trasmettono, alla successiva puntura, ad un nuovo ospite.

La carne cruda o poco cotta di cinghiale può rappresentare un rischio per l’infezione umana. Va ricordato come in Italia il numero di soggetti infetti sia bassissimo (0.006% secondo alcuni molti studi), mentre più frequenti sono i casi dovuti al consumo di carni di cinghiali allevati e “nutriti” anche con carcasse di volpe (che hanno tassi di infestazione ben superiori).

 

Anche in questo caso, però, ci sono dei problemi. Infatti il vettore potrebbe morire nel frattempo, e poi la trasmissione avviene solo nelle stagioni in cui ci sono zanzare, zecche etc. Trichinella ha trovato il “sistema perfetto”.
Il parassita adulto, un piccolo vermicello che misura pochi millimetri, si trova nell’intestino, ma, invece di deporre uova nelle feci come la maggior parte  dei vermi intestinali, la femmina buca la parete intestinale e depone delle larve che finiscono nel sangue e vanno così in circolo finendo con il localizzarsi  nelle fibre muscolari. Penetrate in una fibra muscolare le larve si creano una capsula e trasformano la fibra muscolare in una “cellula nutrice” che passa loro il nutrimento consentendo in tal modo alle larve stesse di sopravvivere nel muscolo dell’ospite per anni. Le larve restano così nell’animale fino a che questo muore e qualcun altro ne ingerisce la carne. A questo punto le larve  arrivano nell’intestino  in una settimana,  diventano adulte e iniziano a loro volta a deporre larve nel circolo del nuovo ospite che andranno anche loro a localizzarsi a livello dei muscoli.  
Una larva di Trichinella che si è localizzata in una fibra muscolare dove resterà, per anni (fino a 20) in attesa di venire ingerita da un altro animale.
 
E’ ovvio che si tratta di una parassitosi che colpisce soprattutto i carnivori (tanto più sono al vertice della catena alimentare, come l’orso, tanto più sono positivi) e gli onnivori (suidi).
L’uomo non fa eccezione ed è una specie sensibile per cui si tratta di una zoonosi che si contrae consumando carne cruda, o poco cotta, di carnivori (orso) o, più comunemente da noi, di cinghiale, infestate dalle larve. Fortunatamente la diagnosi è relativamente facile e l’analisi di un pezzetto di muscolo può chiarire se la carne dell’animale abbattuto è infestata dalle larve.  
Un tempo presente in Italia anche nei suini domestici oggigiorno non è più segnalata nel maiale e la si ritrova solo nei carnivori selvatici e nel cinghiale. Va ricordato che per legge tutti i suidi (cinghiale quindi incluso) macellati devono venire sottoposti ad esami per la ricerca di Trichinella.
Come detto prima, da noi la si ritrova nelle volpi con percentuali di positività che raggiungono il 10-15% nelle aree montane e, più raramente, nel cinghiale, dove il numero di capi positivi è molto basso, dell’ordine dello 0.006%.
Il fatto che ci sia meno di un positivo ogni 10000 capi fa capire che non ha, per questo patogeno, nessun senso fare analisi a campione, perché, con percentuali così basse, la probabilità di individuare un soggetto positivo è veramente effimera. Questo vuol dire che, per evitare il rischio di contagio umano,  andrebbero campionati e analizzati tutti i cinghiali abbattuti.  

Una volta ingerita dal nuovo ospite la larva si libera dalla “sua prigione” (dove peraltro stava benissimo perché si faceva nutrire dall’ospite) pronta a raggiungere l’intestino dove diventerà un parassita adulto e libererà altre larve nel circolo che così potranno localizzarsi nei muscoli e garantire la “continuità della specie”.

 
Inoltre la specie di Trichinella, Trichinella britovi,  presente nelle volpi e nei cinghiali in Italia, si trova a suo agio nelle volpi, ma ha difficoltà a svilupparsi e mantenersi nel cinghiale.  
Come sempre i comportamenti umani possono favorire la diffusione dei parassiti  e non andrebbero usate carcasse di carnivori per fare dei carnai, come non andrebbero lasciate sul territorio le carcasse di volpe perché così facendo si favorisce la diffusione del parassita.
Ovviamente chi va all’estero deve invece sapere che esiste una specie, Trichinella spiralis, che al contrario si adatta molto bene ai suidi, tantè che è segnalata nel cinghiale in moltissimi paesi europei ed extra europei. Altrettanto a rischio (anzi di più) è la carne d’orso che viene offerta in alcuni paesi.
Abbiamo detto che si tratta di una zoonosi per cui anche l’uomo può esserne colpito.
All’estero i casi umani sono legati al consumo di carni di maiale allevato allo stato brado (ormai sporadico), o di cinghiale o di carnivori (soprattutto orso). Occorre dire che la cottura inattiva le larve presenti nel muscolo, per cui, mangiando carne cotta, il rischio viene annullato.
Diverso invece il discorso per quanto riguarda la carne cruda o “al sangue”. In questi casi le larve sono infatti pienamente attive e, una volta ingerite, in grado di scatenare la malattia nell’uomo con infiammazione generalizzata, edemi, mialgia, eosinofilia marcata e febbre. Oltre che dal calore le larve sono inattivate anche dal congelamento. Si è visto infatti che Trichinella britovi non sopravvive più di 3 settimane a -20°C per cui, congelando per un periodo di tempo superiore, esse vengono inattivate. 
Tuttavia i casi di trichinellosi umana dovuti al consumo di carne di cinghiale sono tutto sommato pochi. Infatti si tratta di poche decine di casi e solo in 4 casi si è avuta infezione umana (circa 90 persone) dovuta al consumo di cinghiali cacciati. Più frequente è stata l’infezione umana dovuta al consumo di carni di cinghiali allevati, o di suini, e alimentati, anche, con carcasse di volpe. Dei circa 1500 casi umani registrati in Italia negli ultimi 25 anni, più di 2/3 sono però dovuti al consumo di carne di cavallo cruda importata dall’Est. Ovviamente qualcuno potrebbe obiettare che il cavallo non è un carnivoro, ma evidentemente può accadere che proteine animali non trattate vengano somministrate “accidentalmente” ai cavalli. 
Quindi si tratta di una patologia abbastanza grave nell’uomo, dove però è curabile, e che è facilmente controllabile con il semplice esame di un pezzettino di muscolo dei cinghiali abbattuti. Questo viene già svolto di routine in molte aree, e potete ora capire come non si tratti di un “eccesso di attenzione” , ma di una norma a tutela del cacciatore e di chi consuma le carni di selvaggina.
Un’ultima considerazione su Trichinella riguarda la specie, Trichinella nativa, che si trova nell’artico, sia in Eurasia che in Nord America. Questa specie è particolarmente resistente al freddo, tanto che è in grado di sopravvivere mesi o anni a -20°C. L’orso bianco rappresenta in quelle aree, essendo al vertice della catena alimentare, la specie più colpita e, mentre la percentuale di soggetti giovani colpita è relativamente bassa (meno del 10%), oltre il 60% degli orsi adulti può essere infestato dalle larve del parassita. I primi esploratori bianchi che si spinsero in quelle aree pagarono uno scotto pesantissimo alla trichinellosi che ne decimava i componenti che mangiavano carne di orso poco cotta.
Gli eschimesi, pur non studiando parassitologia, avevano invece capito che c’era un problema a consumare la carne d’orso fresca, per cui dell’orso consumavano fresco solo il fegato (dove non ci sono larve), mentre lasciavano “frollare” la carne sotto il ghiaccio per mesi per permettere allo “spirito dell’orso” di lasciare la carcassa e di non danneggiare poi chi ne consumava la carne.
Se è vero che il parassita è “perfetto”, anche noi possiamo però “aspirare alla perfezione”, anzi direi che abbiamo mezzi intellettuali che dovrebbero permetterci di essere “più che perfetti”.
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