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Cacciatore produttore primario. Realtà o fantasia?

Cacciatore produttore primario. Realtà o fantasia?
Ho “preso a prestito” con una “licenza poetica” il titolo di un convegno patrocinato dalla Società Italiana di Ecopatologia della Fauna e tenutosi anni fa a Brescia, perché ritengo esprima un concetto importante che avrà grande enfasi nei prossimi mesi.
Stagione venatoria ormai finita e “testa” sul campo tendono infatti a distrarre dai “pensieri filosofici”.
In ogni stagione il problema delle malattie della fauna è al massimo un aspetto pratico dovuto al rinvenimento di quadri anomali/patologici nei capi abbattuti, ma viene difficile andare oltre l’immediato, e pensare alla gestione sanitaria.
Quando si preleva un capo con delle lesioni o forme strane viene spontaneo, dove è previsto il controllo dei capi abbattuti,  chiedere al veterinario o al tecnico del controllo se il capo “è commestibile”.

Papillomatosi di origine virale rinvenuta su di una femmina di cervo prelevata durante l’attività venatoria e portata al centro di controllo dove il capo è stato considerato, giustamente abbattimento sanitario.

 
 
Domanda di rito che mi sono sentito rivolgere molte volte e che lascia intendere come la carne sia una componente ”importantissima” per il cacciatore.
Come mi ha sempre detto l’amico Otti Larcher, il trofeo è sempre stato una passione d’oltreconfine. Sul versante italiano la pragmaticità ha sempre “esaltato” l’aspetto “edibile” rispetto a quello “scenico”. Non è ovviamente mia intenzione sminuire la trofeistica che, anzi, ha contribuito negli ultimi lustri all’accrescimento culturale dei cacciatori e del mondo venatorio in generale. Piuttosto vorrei riflettere sul concetto “fauna come risorsa naturale” che è stato a volte un po’ sottovalutato.
Sono sempre stupito, visitando i negozi di una nota catena svedese di arredamento, nell’osservare ben esposte sugli scaffali tra biscotti allo zenzero e salmone affumicato anche confezioni di salame d’alce vendute a prezzi e modalità “da discount”.
Constatare come gli svedesi, che hanno fatto della protezione e della tutela della natura uno stile di vita, commercializzano, considerandola quindi anche una “risorsa economica”, la carne di alce, dovrebbe farci riflettere su alcuni “pre-concetti culturali” che si osservano nel nostro paese. Come anche dovrebbe farci riflettere che, sempre nella ecologissima e progressista Svezia, in molti negozi, tra cui anche quelli dell’aereoporto di Stoccolma, si vendano pelli di ungulati conciate. A differenza di quanto avviene da noi, lì sanno benissimo che la prima regola di chi rispetta le leggi naturali è non sprecare. Non sprecare implica anche però una programmazione che sappia utilizzare al meglio i prodotti. Quando si tratta di alimenti occorre ovviamente considerare anche l’igiene e  la salubrità dei prodotti, ed è qui che entra in gioco l’aspetto sanitario.  
Perché se parlare di gestione della fauna implica anche un corretto utilizzo della spoglie degli animali prelevati durante l’attività venatoria, è chiaro che occorre rispettare una serie di regole  e norme che permettono un corretto utilizzo delle carni. 
Si è parlato molto delle norme igieniche che bisogna seguire, della qualità delle carni di selvaggina, dell’importanza di una corretta eviscerazione e delle modalità migliori per eseguirla sul campo.
Molti hanno già letto o sentito che le carni di selvaggina presentano valori nutrizionali spesso superiori alle carni degli animali domestici, con migliori valori in amminoacidi essenziali, acidi grassi polinsaturi (nella tabella 1 sono riportati alcuni valori nutrizionali delle carni di selvaggina e di animali domestici).
Siamo tutti consci che, proprio per il tipo di vita condotto e l’assenza di trattamenti da parte dell’uomo, l’animale selvatico presenta caratteristiche più vicine a quelle di alimento “naturale”, peculiarità divenuta sempre più importante per l’odierno consumatore. 
Spesso però ci si scorda che la sanità e salubrità, anche negli animali di allevamento, parte proprio dalla sanità degli animali in vita. Ovviamente per la fauna non possono valere le stesse procedure impiegate negli animali domestici dove il singolo capo può essere facilmente individuato e controllato nel tempo. Quando si parla di salute nei selvatici occorre non “fossilizzarsi” sul singolo soggetto, ma pensare a livello di popolazione. Le indagini che vengono condotte a livello locale sui capi abbattuti hanno, tra l’altro, questo importante ruolo: darci informazioni sullo stato della popolazione per focalizzare l’attenzione sulle patologie che più facilmente (e con maggior rischio) possono, in una determinata area, entrare nel circuito commerciale. E’ ovviamente impensabile ritenere di poter controllare lo “stato sanitario completo”  di ogni singolo capo cacciato. In termini di tempo e denaro il costo sarebbe insostenibile. L’unica possibilità per valutare lo stato rispetto ai principali agenti pericolosi anche per la salute dei consumatori è di analizzare quanti più capi possibili (o quantomeno un numero che ci permetta in modo significativo di escludere la presenza di un determinato patogeno a livello di popolazione).

Nelle aree in cui ci sono greggi ovine non è infrequente osservare ascessi da pseudotubercolosi nel camoscio. Considerando la diffusione degli ascessi le carni non sono in questo caso ovviamente consumabili.

 

Forse a qualcuno sembrerà di aver già sentito questo discorso, magari chi ha miglior memoria si ricorderà che se ne era accennato quando si era parlato di monitoraggio sanitario e della sua importanza per una corretta gestione sanitaria della fauna. La cosa non deve però stupire perché, come avrete ben capito, quando si parla di natura ci sono legami profondi tra i vari aspetti e le varie entità che non si possono tralasciare.
Se si pensa a quante “valutazioni” sono sottoposti i capi domestici macellati (dalle analisi in vita, alla visita pre-macellazione, all’analisi dei visceri con, se del caso, prelievi di organi),  ci si rende conto di quanto “superficiale” possa sembrare l’analisi dei capi abbattuti.
Ma proprio qui la conoscenza dello stato delle popolazioni sopperisce a molte lacune e permette di “snellire la catena di controllo”.
Tutto questo non potrebbe però accadere senza cacciatori informati e formati. Perché proprio la presenza di cacciatori informati è il primo gradino che permette di individuare le situazioni anomale, anche quelle che non hanno ripercussioni sulla salute dell’uomo/consumatore, ma  che riguardano magari solo la specie prelevata. Implica che i capi rinvenuti morti, o oggetto di incidenti stradali, vengano sottoposti a necroscopia per valutare la presenza di agenti patogeni e non “buttati via” considerandoli un problema da rimuovere. Richiede che i cacciatori siano i primi a segnalare “anomalie” e, soprattutto, che gli enti preposti alla gestione faunistica si curino di sviluppare queste tematiche e non di soffocarle nella culla.
Se si pensa alle migliaia di ungulati prelevati annualmente nella regioni italiane (anni fa mi divertivo a proiettare tabelle sulle consistenze faunistiche e dei prelievi nei paesi europei che mostravano impietosi buchi vuoti nella riga dedicata all’Italia, ma oggi la situazione è nettamente migliorata) si capisce il valore in peso, ma anche economico delle carni di selvaggina. Che tutto questo sia “trascurato” mi sembra molto grave perché implica in sé l’assenza di una chiara volontà di gestione della risorsa fauna.
Come già avviene in molti contesti sarebbe auspicabile far si che la corretta gestione della spoglia facesse parte dei percorsi formativi (e sono convinto sarebbe accettata con entusiasmo dalla stragrande maggioranza dei cacciatori). Perché l’applicazione da parte del cacciatore di alcune precauzioni e manualità risulta di fondamentale importanza per la qualità igienica ed organolettica delle carni nonché per la loro conservabilità. In se è vero che in un’ottica di gestione,  le spoglie degli animali prelevati ritornano ad essere una risorsa, chi pratica l’attività venatoria dovrebbe essere ben consapevole del fatto che l’igiene delle carni inizia, prima ancora che dall’avvistamento, dalla scelta del metodo di caccia e da una corretta formazione del cacciatore. 
Grazie “all’interessamento” di alcuni paesi di cultura tedesca è stato emanato a livello comunitario un regolamento (Regolamento CE n.854/2004 “Norme specifiche per l'organizzazione di controlli ufficiali sui prodotti di origine animale destinati al consumo umano” e successive modifiche") che norma la commercializzazione delle carni di selvatici.
In Italia abbiamo lasciato questo nel cassetto per anni e solo recentemente alcune regioni hanno emanato i regolamenti regionali che permettono la commercializzazione delle carni della selvaggina cacciata. In alcuni contesti questa attività è già in atto da alcune stagioni venatorie e varrebbe la pena iniziare a fare le prime valutazioni sulle esperienze maturate e “divulgare il verbo”.
Credo che a molti di coloro che hanno letto il sopracitato regolamento sia sfuggito un aspetto importante, il risalto che viene dato al ruolo e alle competenze del cacciatore. Si esplicita chiaramente che la scelta del capo e l’attenta osservazione del suo comportamento prima dello sparo rappresentano un aspetto estremamente importante tanto che nella lista dei “segni dubbi” compare proprio la dicitura “Comportamenti anomali”. Considerando che il cacciatore è l’unica persona che ha l’opportunità di osservare l’animale ancora in vita, ed è quindi la sola figura in grado di poter effettuare un’operazione simile a quella della visita ante mortem, che si svolge di routine prima della macellazione, emerge chiaramente l’importanza che si dà alla sua conoscenza dell’animale e dei suoi comportamenti.  
Ma il ruolo del cacciatore continua anche dopo l’avvistamento con l’abbattimento e durante le fasi successive all’abbattimento, sia per quanto riguarda una celere eviscerazione dell’animale abbattuto e il suo trasporto, sia per l’accurata osservazione di quest’ultimo, nonché per il rilevamento e la segnalazione di eventuali caratteristiche anomale. Si tratta di cose già sentite, già lette, ma che spesso vengono poi dimenticate nella pratica venatoria. Credo che sia interessante riportare i dati relativi ad uno studio condotto molti anni fa sulle relazioni tra area colpita dal proiettile, tempo tra abbattimento e eviscerazione e carica batterica delle carni (Tabella 2).
Osservando la tabella si vede chiaramente come al variare dell’area colpita, e soprattutto del tempo dell’eviscerazione, cambi in modo significativo la carica batterica delle carni. Come diceva qualcuno qualche anno fa: “meditate gente, meditate”.
 
Tabella 1 Valori nutrizionali di carni di animali selvatici e domestici (Banca Dati di Composizione degli Alimenti INRAN, 2009) 
 
Specie Proteine Grassi carboidrati            Valori energetici
gr su 100 gr di carne gr su 100 gr di carne gr su 100 gr di carne kJ/100g Kcal/100g
Vitello 16-21 1-15 0,4-0,5 400-860 95-205
Manzo 16-19 10-34 0,3-0,5 840-1425 200-350
Maiale leggero coscia 20,2 3,2 0 459 110
Maiale pesante coscia 20,4 5,1 0 533 128
Quaglia 25 6,8 0 674 161
Cervo 18-22 1-5 0,2-0,5 440-525 105-125
Agnello (coscia) 20 2,5 0 429 103
Cavallo 19,8 6,8 0,6 597 143
Daino 21 1,2 0 397 95
Anatra 16-21 6-29 0,2-0,4 630-1360 150-325
Anatra selvatica 19-23 2-3 0,3-0,5 460-500 110-120
Capriolo 21-23 0,7-6 0,2-0,5 440-560 105-135
Lepre 20-23 0,9-5 0,1-0,5 480-545 115-130
 
 
Tabella 2. Influenza del tempo tra decesso e eviscerazione e dell’area colpita sulla contaminazione di carcasse di capriolo 
( Lenze,1977).
 
Eviscerazione dopo 30 minuti 2 ore più di 2 ore
Colpi al torace, collo o alla testa
Bassa contaminazione 33% 17% 0%
Media contaminazione 64% 50% 17%
Alta contaminazione 3% 33% 83%
Colpi nell’addome
Bassa contaminazione 0% 0% 0%
Media contaminazione 75% 14% 0%
Alta contaminazione 25% 86% 100%
Capi feriti con interessamento dell’addome
Bassa contaminazione 0% 0% 0%
Media contaminazione 65% 38% 0%
Alta contaminazione 35% 62% 100%
 
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