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Monitorare le patologie della fauna

In uno degli interventi passati abbiamo visto come diversi fattori, ambiente, densità e distribuzione delle popolazioni ospite, natura dell’agente patogeno,possono influire sul decorso di un’infezione in una specie selvatica, lo strumento che usiamo per seguirne il decorso è normalmente definito come monitoraggio.
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Quanti selvatici investiti o comunque rinvenuti morti vengono smaltiti senza aver fornito dati utili per la gestione?

Abbiamo ancora fresco il ricordo degli annunci televisivi, radiofonici o sulla carta stampata, che giornalmente ci informavano sui nuovi casi di influenza A nell’uomo in Italia, riportandoli spesso come percentuale della popolazione (es casi ogni 100.000 abitanti).
Riportare il numero di nuovi casi di malattia, come accadeva con l’influenza A, è un sistema molto utilizzato in medicina umana e veterinaria per malattie facilmente diagnosticabili e frequenti, che trova però obiettive difficoltà quando si cerca di applicarlo alla fauna selvatica.
Questo perché i selvatici non sono facilmente contattabili, e quindi è difficile individuare i singoli casi di malattia, soprattutto qualora si tratti di malattie con decorso acuto.
È poi molto difficile indicare la percentuale di soggetti colpiti poiché quasi mai è noto il numero di soggetti che costituiscono la popolazione e, anche quando disponibili, i dati di stima forniti dai censimenti  sono generalmente relativi a poche specie venabili (bovidi, cervidi e, più raramente, avifauna alpina e lepre).
Ecco quindi che, parlando di patologie della fauna, si preferisce spesso non riferirsi alla percentuale dei soggetti colpiti, quanto magari all’estensione dell’area in cui si rinvengono casi. Basti pensare alla comparsa della rogna sarcoptica o a quella comparsa della rabbia silvestre nelle volpi che sono state descritte, oltre che dal numero di capi colpiti, dalla loro distribuzione spaziale fornendo così utilissime informazioni a coloro che, a vario titolo, sono interessati a conoscerne l’epidemiologia. In quali circostanze si viene però a conoscenza di un caso di malattia in un selvatico?
La modalità più frequente è spesso rappresentata dal rinvenimento di un soggetto (perché morto o moribondo o abbattuto durante l’attività venatoria o mordace nel caso della rabbia) che presenta “segni particolari”, e che, proprio perché anormale, viene portato, per essere  “analizzato” da un veterinario.
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Questa sottile appariva “troppo sottile” e infatti si tratta di un soggetto colpito da paratubercolosi che in alcuni soggetti porta a un marcatissimo dimagramento con diarrea.

Quest’approccio funziona per malattie che presentano quadri conclamati, che lasciano intuire qualcosa di anormale al semplice esame della spoglia e che inducono chi trova il soggetto a consegnarlo a un veterinario.
E’ evidente che questi casi accadono di norma quando la malattia è ormai presente nel territorio e raramente si è in grado di individuarla fin dal suo apparire.
Le probabilità di trovare un capo malato saranno, infatti, molto alte quando la malattia si è già diffusa nella popolazione e i soggetti colpiti sono molti, mentre all’inizio dell’infezione è più difficile che i pochi capi colpiti vengano prontamente rinvenuti.
Raramente ci soffermiamo (e parlo soprattutto di coloro che si occupano per “mestiere” di malattie della fauna) a riflettere sulla percentuale di animali morti che vengono rinvenuti.
Studi condotti negli USA hanno mostrato come la percentuale di carcasse presenti in un territorio rinvenute sia estremamente bassa, ovvero solamente un quarto per specie grandi come i cervi coda bianca e attorno al 6% per l’avifauna (anatidi).
Ovviamente queste percentuali dipendono moltissimo dall’area (in un’area aperta sarà più facile individuare le carcasse rispetto a un’area boscata), alla pressione antropica (un’area battuta frequentemente avrà maggiori probabilità di un’area sperduta) e dalla stagione (tolte le zona di alta quota, il rinvenimento è più  probabile, per una maggiore conservazione della carcassa, in inverno o durante la stagione venatoria per una maggiore presenza antropica).
Purtroppo non abbiamo dati relativi alle nostre realtà territoriali che ci permettono di stimare, basandosi sul numero di carcasse rinvenute, quanti animali morti siano presenti in un’area.
Questo dato sarebbe in realtà molto utile perché permetterebbe di avere una stima dei soggetti morti durante un’epidemia, o per esempio di starvation durante gli inverni rigidi, soprattutto per quelle specie per cui non disponiamo di dati censuali attendibili.
Se per cervo capriolo, camoscio e, stambecco, confrontando i dati dei censimenti, si può avere indicazione di quanti soggetti “manchino all’appello”, questo è praticamente impossibile per il cinghiale e la piccola selvaggina.
Tutto questo però si basa su di un presupposto: che il soggetto rinvenuto venga portato ad un veterinario perché presenta qualche cosa di anomalo (esempio una volpe che morde o che ha la rogna). In molti casi invece i segni di malattia non sono così facilmente visibili o riguardano gli organi interni e questi casi, spesso,sfuggono ad una necroscopia accurata.
Questo è uno dei motivi per cui dovrebbero esistere dei protocolli per cui i soggetti rinvenuti morti dovrebbero venire comunque portati a un centro qualificato.
In molti casi, infatti, la presenza di una determinata malattia in un’area è stata accertata in modo fortuito, analizzando soggetti “apparentemente normali” (è il caso della brucellosi nei bovidi alpini e di molti agenti patogeni).
L’importanza di un piano che preveda l’analisi di un gran numero di soggetti rinvenuti ha permesso, ha partire dalla metà degli anni '90, di rilevare in Piemonte numerosi nuovi agenti patogeni presenti nella fauna selvatica. Per molti di questi casi si trattava di patogeni introdotti con l’immissione di soggetti provenienti dall’estero o trasmessi da animali domestici, mentre in alcuni casi l’ipotesi più plausibile è che si tratti di residui delle epoche glaciali, rimasti per migliaia di anni confinati nelle aree alpine. In questo va segnalato come in Italia esista, per quanto riguarda le malattie della fauna, una grande tradizione scientifica e delle ottime scuole che possono rivaleggiare con molti contesti stranieri.
In effetti, in alcune aree italiane, le competenze scientifiche hanno trovato sponda nella lungimiranza delle amministrazioni, e questo ha permesso, attraverso l’analisi annuale di centinaia di capi rinvenuti morti, di eseguire indagini che hanno consentito di individuare nuove problematiche e di chiarire importanti aspetti sull’epidemiologia delle malattie della fauna.
Non può sfuggire a nessuno l’importanza di un monitoraggio che consenta di conoscere lo status sanitario delle popolazioni animali e, attraverso l’analisi delle variazioni nel tempo, consentire di chiarirne meglio l’epidemiologia.
Usualmente si pensa alle malattie quando queste appaiono prepotentemente nelle popolazioni, ma è chiaro che, molto spesso, noi ci accorgiamo del fenomeno quando “i buoi sono ormai scappati”. In questi casi diventa difficile riuscire a comprendere fin da subito la portata del fenomeno.
E’ un po’ come guardare una partita senza sapere il risultato e a che punto dell’incontro ci si trova e provare a fare previsioni su cosa è successo e sul risultato finale.
Se non ci sono dati precedenti, non si può escludere che l’agente patogeno fosse presente già da qualche tempo, o su quanto velocemente la malattia si è diffusa e soprattutto sui possibili sviluppi e sulle azioni da intraprendere. 
Avere dati, o campioni biologici, raccolti in precedenza, è un po’ come avere accumulato fieno in cascina che torna utile nei momenti di bisogno.
Se ho raccolto campioni di tessuti o di sangue posso analizzarli, nel caso non lo avessi già fatto, per capire quando è comparso un determinato agente patogeno e quanto rapidamente e a quali classi di animali si è diffuso.
Quando compare un’emergenza sanitaria, uno dei principali problemi è infatti quello di raccogliere in breve tempo un numero adeguato di campioni da analizzare. Chiaramente la disponibilità di campioni prelevati in passato da capi incidentati o rinvenuti morti permette di tamponare questo primo problema e sapere se, con buona probabilità, si tratta di un fenomeno nuovo o meno. 
Se i capi rinvenuti morti rappresentano un’importante fonte d’informazioni, non va dimenticato che il numero di capi prelevati durante l’attività venatoria è generalmente molto maggiore di quello dei capi rinvenuti.
Purtroppo non sempre si capiscono il valore e l’importanza che la raccolta di campioni biologici da questi soggetti può avere. In alcuni casi gli enti di gestione venatoria hanno provveduto a coordinarsi con enti sanitari (ASL, Università, IZS) per raccogliere e analizzare campioni dai capi prelevati durante l’esercizio venatorio.
Se inizialmente queste attività sono spesso “stimolate” dalla comparsa di una determinata malattia, va però segnalato come spesso la collaborazione continui anche dopo “l’emergenza” e diventi una “radicata tradizione”.
Questo spiega anche perché la maggior parte delle conoscenze e delle pubblicazioni scientifiche sulle malattie della fauna (circa il 70%) riguardi specie venabili.
Ovviamente un conto è eseguire la necroscopia di un capo, un altro è visionare una carcassa eviscerata, per cui generalmente presso i centri di controllo si raccolgono campioni di sangue su cui eseguire poi delle analisi sierologiche. Purtroppo non sempre è possibile ottenere campioni di siero ematico di qualità adeguata, anzi per alcune specie come il camoscio in media meno della metà dei sieri raccolti può essere analizzato.
Però ci sono metodi particolari per cui, qualora non sia disponibile o utilizzabile il siero ematico si può utilizzare il succo di polmone o di muscolo anche se questi sono stati conservati in congelatore.
Lo sviluppo e la messa a punto di queste metodiche hanno permesso negli ultimi anni di aumentare di molto, rispetto al passato, il numero di campioni analizzati. 
Ecco quindi che il centro di controllo, dove vengono portati gli animali cacciati, può diventare, oltre che un punto per la raccolta di dati biometrici, anche un importantissimo punto per la raccolta di campioni e informazioni sulla “salute” delle popolazioni.
Sarebbe opportuno estendere il più possibile l’importanza “sanitaria” dei centri di controllo della fauna anche perché si potrebbero aumentare, attraverso il personale coinvolto, anche le occasioni di discussione e divulgazione di conoscenze sulla gestione sanitaria della fauna.
Credo infatti che i centri di controllo possano agire come punti focali non solo della raccolta di dati e campioni, ma anche nella divulgazione scientifica.
L’esperienza personale mi ha profondamente convinto dell’importanza di questi centri per la creazione di un clima collaborativo, ma, soprattutto, mi si passi il termine, “madrasse” per la divulgazione, e/o restituzione a chi collaborato a raccogliere i dati, di conoscenze faunistiche e sanitarie. 
Qualche lettore potrebbe anche pensare che fortunatamente vive o caccia in un’area in cui non vi sono problemi sanitari, e che quindi non è necessario applicare quanto finora detto e attivare un piano di monitoraggio sanitario per la raccolta di campioni.
In realtà spesso non ci sono “problemi sanitari” semplicemente perché non si sono cercati in modo appropriato.
Ho già detto dei molti nuovi patogeni rinvenuti (spesso per caso) nella fauna selvatica del Piemonte negli ultimi anni, ma va ricordato che questo è stato possibile grazie alla collaborazione con la Provincia di Torino, con cacciatori delle aree piemontesi e, recentemente, ad una convenzione apposita della Regione Piemonte che permettono di analizzare circa 1000 selvatici all’anno. A questi si aggiungono i campioni prelevati, anche se manca ancora una cabina di regia e un piano organico, dai capi abbattuti durante l’esercizio venatorio.
Questo grande sforzo di campionamento potrebbe sembrare esagerato, ma è invece fondamentale per conoscere lo stato sanitario delle popolazioni che dimorano in un’area. Proprio perché non si può agire sul singolo, occorre operare a livello di popolazione e analizzare numeri consistenti di capi per conoscere i patogeni presenti e la loro diffusione sul territorio.
Questo dato, che è importantissimo per una gestione scientifica e consapevole, diventa fondamentale nel momento in cui, e sono sempre di più le realtà in cui è possibile, si commercializzano le carni di selvaggina.
Non va poi dimenticato che in molti casi si tratta di patogeni che possono essere trasmessi anche all’uomo. Teniamo sempre a mente che il vero pericolo in questi casi è rappresentato dal non essere a conoscenza del problema e non adottare tutte le misure necessarie per ridurre o evitare il possibile contagio.
Dopo il primo caso di contagio tentiamo tutti a essere più attenti, e i focolai di rabbia silvestre che ci furono nel Nord-Est del paese sono la prova più evidente di questo, ma sarebbe bene conoscere il prima possibile i problemi ed evitare così al minimo i rischi per la salute umana.
 
Ezio Ferroglio
 
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