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L'Enogastronomia

Cucinare la selvaggina è per me la naturale continuazione del piacere che provo nel bosco come in montagna, quando vivo il delicato momento della cattura di una preda. Prepararla nel migliore dei modi credo sia il modo più adatto per renderle onore sino in fondo. Piacere sublime, che coinvolge  tutti i sensi. Il tatto nella fase di preparazione, quando maneggio gli ingredienti; la vista nel cogliere le tonalità morbide delle carni e delle verdure; l’olfatto ogni volta che sollevo il coperchio e una folata di vapori profumati mi inebria; l’udito nel sentire il lieve sfrigolio delle verdure in fondo al tegame, sino al momento in cui, portata la forchetta alla bocca, socchiudo gli occhi... La magia è compiuta!



Questa rubrica ha la finalità di accrescere e diffondere la cultura del buon Cibo italiano, con particolare riferimento alla cucina della selvaggina (sia essa da pelo che da piuma) e delle carni che da essa si ricavano. Non si trascureranno però fondamentali ricette regionali che, anche solo per cultura generale, ritengo sia bene conoscere: dalla bagna caoda alla ribollita, passando attraverso i batsoà e la panada, tanto per citare i primi quattro che ci vengono in mente.

La raffinatezza suprema sta nella semplicità
Leonardo Da Vinci

Ho voluto partire da questo pensiero del più grande Genio del Rinascimento e della Cultura italiana di tutti i tempi, perché credo sia il frutto di una riflessione fondamentale. Esso dovrebbe essere un pilastro della nostra quotidianità, un dogma assoluto, la cui applicazione potrebbe (e dovrebbe) essere riportata in tutti i momenti della vita di ciascuno di noi: nel lavoro, nelle relazioni con gli altri, così come in cucina.
Alla maggiore complessità di una ricetta si accompagna normalmente un maggiore lavoro, come anche maggiori costi sia in termini di materie prime che in termini di dispendio di energie e tempi: ovvie le maggiori aspettative, un diverso stato d’animo, fatto anche di cocenti delusioni qualora il piatto non dovesse corrispondere alle nostre attese…
Forse ricorderete come me la pubblicità di una nota pasta italiana, risalente su per giù agli anni ottanta. Ambientata in un elegantissimo ristorante vedeva un cameriere in livrea che con molta enfasi enunciava ai clienti seduti a tavola un menù fatto di portate dai nomi complicatissimi, in un francese raffinato. Uno dei commensali, dopo un lungo attimo di silenzio, rispondeva: “rigatoni”…
Alla semplicità - che non vuole essere assolutamente sinonimo di superficialità, legata al concetto di “fretta”, da intendere come poco tempo a disposizione - degli elementi e delle preparazioni, corrisponde quindi un approccio più sereno alla ricetta stessa. Alle fasi di preparazione, ai riti ed alla gestualità che accompagnano la cottura, sino al momento culmine della degustazione, quando - con trepidazione - la forchetta o il cucchiaio del cuoco compiono il breve volo dal piatto fumante alla nostra bocca.

La prima pagina di un quaderno appartenuto a mio padre, su cui da ragazzino aveva scritto in bella grafia alcune ricette di dolci ed altri semplici piatti, riportava la frase: “Il quaderno delle ricette di Amedeo, cuoco senza pretese, ma di buona volontà”. Faccio mia questa suo pensiero, nella speranza di poter dare ai lettori qualcosa di veramente mio senza pretese, appunto, ma con buona volontà. 

Fonti
Le fonti a cui mi sono ispirato ed a cui mi ispirerò nell’aggiornamento di questo spazio sono classificabili secondo questo schema.
Fonti famigliari. Sono quelle con le quali ciascuno di noi entra in contatto sin da bambino: lo stufato della Nonna Sandra, gli agnolotti di Zia Tere, il vitello tonnato dell’amica di Mamma, i persi pien di Zia Rita… Per me è anche e soprattutto un ricordo olfattivo, di naso insomma. Ci sono profumi e sapori capaci di portarmi d’un balzo indietro nel tempo, che riescono a sorprendermi ed a commuovermi nel posto e nel momento più impensato: la marmellata che sempre la Nonna faceva sul piccolo gas nella casa di Montalto, con quelle albicocche piccole, sode ed un po’ asprigne; il profumo persistente del vino, della carota, del sedano e delle spezie che aleggiava nella cucina di Milano il giorno di Natale… Il modo con cui queste ricette si sono trasmesse e sono state acquisite è dunque di tipo molto pratico, “sul campo” vedendole fare.
Altre fonti. A voce mi sono state trasmesse numerose ricette attraverso la narrazione dettagliata. Esse sono patrimonio di altri nuclei famigliari o provengono da amici ristoratori o gastronomie locali dedite alla cucina della selvaggina. 
Per iscritto sono quelle che ho tratto da raccolte altrui e che ho fotocopiato o riscritto, così come da specifici libri e riviste in materia di cucina. Tra tutti mi piace citare una delle più belle e complete riviste del settore che è “La cucina italiana”, così come i testi della Casa Editrice Giunti, fatti davvero molto bene.

La selvaggina
Con il termine selvaggina (sia essa da penna o da pelo) viene indicato l’insieme degli animali appartenenti alle specie selvatiche. Essa sin dall’antichità è stata di fondamentale importanza nella dieta dell’uomo. Recenti studi sostengono che il salto evolutivo nello sviluppo della specie umana è avvenuto nel momento in cui essa ha potuto consumare proteine nobili come quelle della carne, soprattutto se cotta. La selvaggina è elemento importante non solo nella dieta dell’uomo ma anche nell’arte in tutte le epoche, dai graffiti rupestri della Spagna alle nature morte delle scuole Fiamminghe ed Italiane del XVII° secolo, sino ai giorni nostri. In tempo di Guerra, quando le campagne erano un rifugio alle città bombardate, con una lepre tutta la famiglia faceva festa e “bracconare” era una necessità prima di tutto alimentare, per mettere insieme il “pranzo con la cena”. Ora le nostre montagne  e le nostre colline sono piene di caprioli, cervi, daini e cinghiali e trovare carne di buona qualità non è più così difficile come un tempo.
La carne di selvaggina resta una carne di nicchia, in qualche modo che “o si ama o si odia”. Certamente è carne di carattere, con il suo sapore e la sua identità, ma ha grandi pregi perché poverissima di grassi e ricca di proteine a seconda delle specie. 

Vediamo le principali.

Fagiano E’ un galliforme stanziale originario dell’Asia centrale. Il maschio si differenzia dalla femmina per penne e piume dai colori vivaci tendenti al rosso lucente. Predilige la vita nelle grandi pianure coltivate, caratterizzate da seminativi e pioppeti, così come la bassa collina. Dal punto di vista culinario sono migliori le carni della femmina (più ricca di grassi). Le carni di fagiano sono piuttosto facili da trovare nei negozi specializzati, in quanto oggetto di allevamento.  Indicativamente contiene circa il 24% di proteine e il 5% di grasso.
Pernice Anch’essa un galliforme stanziale. Il nome comune indica genericamente più specie: normalmente si parla della starna (o pernice grigia), come della pernice rossa entrambe stanziali. Una volta autoctone in Italia, vivono ormai relegate in pochi circoscritti areali a seguito dello spopolamento delle colline e delle montagne, un tempo più coltivate dall’uomo. Le proteine raggiungono un buon 26%, mentre i grassi l’1,5 %.
Quaglia E’ un piccolo uccello migratore che visita il nostro paese soprattutto in tarda primavera ed estate. Vive in coppie e nidifica al suolo, nelle stoppie dei cereali e nei prati stabili. Ha un ottima carne piuttosto grassa, volo radente e un canto caratteristico. Proteine per il 25 %, grassi al 6,5%.
Beccaccia Croce e delizia dei cacciatori, è un uccello migratore che transita in Italia verso novembre proveniente dal nord Europa. Il cosiddetto ripasso avviene verso febbraio marzo. Ha carni saporite ed è ideale allo spiedo o in umido. Si sposa molto bene con i funghi. 
Anatidi Dal noto germano reale sino alla gallinella d’acqua ed a specie minori, hanno carni più untuose, ottime se preparate alla piastra.

Lepre E’ un roditore simile al coniglio che si adatta molto bene agli ambienti naturali, passando dalle pianure coltivate all’alta montagna. È cacciata con i segugi ed è nota per la sua astuzie nel seminare gli inseguitori. Ha carni scure e molto saporite. Essendo animale “nervoso” necessita di lunga frollatura sotto pelle. Della lepre è molto conosciuta la preparazione “in salmì”.
Cinghiale Rustico abitatore delle nostre montagne e colline, dove ha beneficiato dell’avanzata del bosco in molte zone, vive in grossi branchi capaci di arrecare grossi danni alle coltivazioni agricole la’ dove presenti. I maschi adulti possono superare facilmente i 100 chilogrammi. E’ oggetto di caccia con i segugi e, avendo carni ottime, ha una lunga tradizione culinaria soprattutto in Toscana. Sono ottimi gli insaccati ed i prosciutti ottenuti dalla sua lavorazione. Se si ha a disposizione la carne di un animale maschio adulto sarà bene lasciarla frollare a lungo e poi macerare nel vino almeno una notte. Proteine al 21% grassi al 2,5%
Camoscio Abitatore di boschi e cime in quota, è caratteristico per il trofeo uncinato. Gli esemplari più giovani hanno ottime carni che non richiedono accorgimenti particolari in fase di preparazione, mentre i maschi o gli esemplari più anziani necessitano di una lunga frollatura e, in fase di preparazione, di una buona marinatura nel vino.
Capriolo Conosciuto come il “folletto dei boschi”, ha mantello fulvo rossastro a seconda delle stagioni. Il maschio - che può raggiungere i 25 chilogrammi di peso - ha piccole corna ramificate, che cadono nella stagione fredda per poi ricrescere in primavera. Ha ottime carni ed i tagli più pregiati sono senz’altro la sella (carrè) e la coscia, a volte cucinata intera al forno. Grassi al 2% proteine al 22%.
Cervo Nella cultura venatoria europea è considerato il Re della foresta per l’aspetto nobile che lo contraddistingue. Appare al nobile Uberto, con una croce lucente tra il palco, portandolo a conversione. Il maschio può superare i 200 chili, ha ottime carni soprattutto la femmina (chiamata biche in francese). Dal cervo i possono ricavare tagli pregiati ed ottimi insaccati, a condizione di aggiungere del lardo di maiale, dato che è una carne molto magra.

La frollatura
E’ una condizione indispensabile per gustare al meglio la carne di selvaggina ed è una delle prime fasi della decomposizione delle carni, strettamente legata alle condizioni di temperatura e di umidità. Il termine decomposizione non deve spaventare: le qualità organolettiche delle carni sottoposte a frollatura infatti migliorano, senza alcuna pericolosità per la salute dell’uomo, purchè il luogo sia fresco e ben arieggiato. Strettamente necessaria per la selvaggina da pelo, lo è anche per quella da penna. In alcune valli alpine il cervo, come il camoscio ed il capriolo restano sotto pelo per almeno due settimane, in apposite celle o in fresche cantine. In piemontese si usa il termine pernisè - che credo derivi dalle pernis le pernici appunto - che venivano lasciate appese fuori al freddo dell’autunno inoltrato per alcuni giorni, al sicuro da gatti o altri predatori prima della preparazione in cucina.

La preparazione
Animali da penna. Normalmente il primo passo per la loro preparazione è la rimozione della parte bassa dell’intestino, con la cosiddetta starnatura e sempre che la ricetta lo preveda. Ad esempio si fa per fagiani e le pernici, mentre non si esegue per la beccaccia. La frollatura varia da 2 a 7 giorni a seconda delle dimensioni del volatile e della temperatura dell’ambiente. Per la rimozione delle  piume si parte normalmente dal petto e, prelevato un piccolo ciuffo si tira con gesto rapido verso la coda. Per ultime verranno rimosse le penne delle ali e della coda, più difficili da staccare. La testa verrà separata dal collo a circa due terzi della lunghezza, mentre la piccola peluria verrà rimossa fiammeggiando il volatile sul gas. Per facilitare le operazioni si potrà scottare il piumaggio con un po’ di acqua bollente, immergendo il volatile in mezzo secchio di acqua calda.

Animali da pelo. Lasciato frollare l’animale appeso a testa in giù, bene aperto sino alla mandibola perché il sangue scoli via, si può procedere alla scuoiatura. Praticata un’incisione alla base delle zampe posteriori con un coltello affilato si eliminano le aderenze procedendo verso la testa. Tirando verso il basso la pelle la cosa sarà ancora più facile e, come nel caso della lepre, si verificherà l’effetto “calzino rovesciato”. Le prede più grosse richiedono spazi e tempi diversi per la scuoiatura: il cinghiale ha normalmente uno spesso strato di grasso sotto la cotenna ed occorre andare il più possibile vicino alla carne. Per i camoscio ed il capriolo a volte si procede come per l’agnello, inserendo piccole quantità d’aria tra lo strato più interno della pelle e la carne, al fine di agevolare questo iter.

Una cosa che vorrei rimarcare. Mi capita spesso di mangiare al ristorante o da amici dell’ottima carne che però non è per niente rosolata. Questo perché si salta a piè pari questo passaggio, che io credo sia molto importante, anzi fondamentale e che è nella sua semplicità un momento delicato. La carne che non ha subito questo processo sembra bollita, senza colore e con un sapore certamente diverso: essa deve dorare uniformemente, a fuoco basso perché la base di verdure e sapori non bruci. Una volta che avremo ottenuto questo potremo dare inizio alla vera e propria cottura, aggiungendo il vino, il brodo e gli altri ingredienti necessari. Ma guai a perderci questo passaggio! Credo che alla rosolatura sia legato un maggior sapore del piatto, perché se la carne è ben rosolata - quasi fosse avvolta da una crosticina protettiva - conserva maggiormente racchiusi al proprio interno sapori e profumi, che altrimenti fuoriescono.    

I contorni.
La selvaggina si adatta benissimo alle verdure ed ai frutti di stagione. I funghi, come le castagne e le mele (soprattutto se acidule come renette) si accompagnano benissimo a tante preparazioni. Un grappolo d’uva dimenticato in un filare, come un piccolo tartufo o una manciata di timo selvatico, possono aiutarci non solo a decorare un piatto, ma ad aggiungere quel quid necessario a rendere la nostra “alchimia” culinaria davvero speciale. I frutti di bosco come ribes e mirtilli sono adatti ad accompagnare molte preparazioni (meglio se in forma di confettura non dolcificata). Le olive, intere o in pasta, lo sono altrettanto: personalmente amo moltissimo la varietà Taggiasca, piccola e saporitissima.
La polenta è ottima, soprattutto se un po’ più grezza e macinata meno finemente. In commercio esistono ottime qualità precotte, più rapide da preparare. Essa può essere presentata anche in fette o abbrustolita. A molti piatti di selvaggina si accompagna molto bene anche il riso, in bianco o risotto. Le terrine di selvaggina possono essere proposte su fette di pane casareccio abbrustolite.

I condimenti.
Come abbiamo visto la carne di selvaggina è più magra della carne di animali allevati. Per questo è necessario aggiungere nella fasi di cottura grassi vegetali o animali che possano arricchirla ed insaporirla. Bene l’olio di oliva o il burro, come anche il lardo o la pancetta che certe preparazioni richiedono. Bene la panna, indicata per alcuni volatili e umidi, ma senza eccedere perché il piatto rischia di essere davvero difficile da digerire. Il brodo di carne agevola la cottura, là dove le carni rischiano di asciugare troppo. Personalmente penso sia meglio una bella base di verdura ed un buon brodo che tanti grassi.

I vini
Argomento difficile da affrontare in poche righe. Il vino è l’elemento essenziale per apprezzare la selvaggina, sia in fase di preparazione del piatto che di degustazione. I grandi rossi “fermi” la fanno da padroni assoluti: dal Barolo al Brunello, passando per il Barbaresco e l’Amarone. Se vogliamo guardare Oltr’alpe pensiamo ai tanti Bordeaux, allo Chateauneuf du Pape o ai più economici ma ottimi Cotes di Rhone o Luberon. Con crostoni, insaccati di selvaggina o ricette più leggere vedo bene anche i rossi vivaci come Lambrusco, Bonarda o i bianchi “bollicine”. Se posso citare due bianchi fermi che bevo sempre volentieri dico Arneis e Traminer.  

Civet o salmì?
Domanda amletica, sulla quale mi sono a lungo interrogato, senza trovare una risposta certa. Secondo alcune fonti il salmì richiederebbe l’uso del sangue dell’animale cucinato o, secondo altri del suo fegato. Il salmì sarebbe più denso infatti del suo cugino civet più vinoso e quindi liquido. Questo termine potrebbe derivare dal francese, correlato ad una varietà di cipolle oblunghe chiamate cives, utilizzate per aromatizzare il vino in cui viene posta la carne.
Marinata è il termine generico che indica il liquido a base di vino, aceto, verdure e spezie in cui la carne è lasciata una o più notti prima della cottura.

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