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Alessandro Bassignana

Alessandro Bassignana

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SCRIVENDO & CACCIANDO: IL RACCONTO VINCITORE L'EDIZIONE 2014

Abbiamo deciso di pubblicare in versione integrale i racconti che hanno vinto il nostro concorso di letteratura venatoria "Scrivendo & Cacciando", organizzato dal portale Cacciando.com e realizzato con il patrocinio di Fiera di Vicenza Spa.
"Scrivendo & Cacciando" è giunto alla terza edizione, e continuerà il prossimo anno, sempre in collaborazione con Fiera di Vicenza e HIT SHOW.
 
Il primo è "La fine del sentiero", con cui Claudio Zanini s'aggiudicò l'edizione del 2014, che coincise con l'ultima edizione dell'Hunting Show, poi sostituito da HIT SHOW, portandosi a casa una prestigiosa arma della storica azienda Bernardelli.
Questo ed altri racconti premiati sono stati pubblicati sul libro "Leggendo & Cacciando 2014", autentica perla che non può mancare nella libreria di ogni appassionato. 
Seguiranno "La tigre che visse due volte", di Vincenzo Decarolis (edizione 2015), e "Tre passi", di Ivan Bettina Piazza (edizione 2016).
 
 
LA FINE DEL SENTIERO
 
 
«Ti ricordi?» disse l’uomo.
Già. Tutto era cominciato con un frullo silenzioso, un battere d’ali coperto dallo stormire delle fronde, un’ombra tra le ombre, ma ben visibile perché gli occhi guardavano proprio là, angolo sacro di bosco ove generazioni di beccacce avevano pasteggiato nei mille autunni già andati, terra morbidissima su cui le faggiole cadevano senza fare rumore. Era stato un attimo o poco più, giusto il tempo di arrivarci con la testa, mentre il cuore già l’aveva fatto proprio. E così l’istinto di Caleb: lo scampanellio frenetico, le quattro zampe che pestano l’angolo di bosco e poi lo sopravanzano. Il richiamo, lui che torna ma che si ferma a qualche metro, come a chiedere: che cosa aspetti? Ed io che glielo spiego: no, non così, quella mica si fa avvicinare in questa maniera. Difficile che intenda le parole, forse il tono, meglio qualche carezza: sento la voglia di caccia vibrare sotto a pelo e pelle. Per un istante m’illudo di domarla. Sarebbe la prima volta. Prima autentica volta: finora al momento del dunque la foga giovanile ha oscurato l’educazione, confuso qualsiasi tentativo di ragionamento canino. Forse era appena arrivata, gli spiego, alle prime luci dell’alba. Soltanto il tempo di posare le zampe in terra e magari di piantare il becco e noi siamo già qua a rovinarle la giornata. E poi c’è anche il vento, che tiene sollevato e mosso il mondo. Lui mi guarda da sotto in su, e ancora: che cosa aspettiamo? Va bene, va bene: proviamo a farla nostra. Dentro per il bosco, tenendomi nel mezzo: lo lascio girare tutto intorno, libero di fare i suoi errori, mal che vada la vedrò saltar via di nuovo lunga. E infatti: alcuni relitti antichi di rocce affioranti verdi muscose, un tronco marcio caduto per traverso, Caleb che per un attimo mi dà l’impressione di rallentare l’andatura e lei, la beccaccia, che è già per aria e che si tira dietro il mio sguardo tra i tronchi ancora in piedi e poi sparisce. Non la alzo nemmeno, la doppietta. Mi limito a richiamare Caleb, cui odore, frullo e forma di beccaccia han di nuovo dato alla testa. Pazienza, mi dico, e gli dico, ci vuole pazienza. Ancora sento la pulsione venatoria sotto al palmo della mano. Ripartiamo da capo. Più avanti il bosco si dirada, lo so bene, trasformandosi in pascolo: se non ci offre subito una rimessa vicina, dobbiamo ributtarci verso il basso e all’indietro per ritrovarla, perché, ne sono certo, madama beccaccia non ha osato abbandonare la selva per sfidare gli spazi aperti. E così è: scendiamo per la ripa e in capo a un minuto la valle stretta a vu si offre a noi in tutta la sua incertezza. Dov’è? Non c’è un’ipotesi più plausibile di un’altra, l’unica è provare. M’incammino, da qualche parte bisogna pur cominciare, ma lui, Caleb, non mi vien dietro: s’arrampica per la ripa opposta a quella da cui siamo scesi e sparisce in mezzo alla vegetazione. Sparisce, a parte il tintinnio del campanello. E poi scompare anche quello. Silenzio assoluto, a parte il vento. Speranza e incredulità assieme: che sia in ferma? Vado su dritto anch’io per la sponda, a fatica, una mano regge la doppietta e l’altra libera per aggrapparsi a rami e rocce, gli scarponi che sfruttano ogni esigua promessa. Ci sono: la pendenza cala, il fitto comunque non semplifica. Ma adesso finalmente lo vedo. Cinquanta metri. Immobile come pietra. Tutto è fermo. A parte il vento. Affretto il passo. Adesso sono a tiro: la doppietta morbidamente imbracciata ma pronta per la stoccata. Non devo sbagliarla. Ma non c’è ancora l’occasione. No. Troppo comodo. Caleb muove piano la testa di lato, come per vedere meglio, seppure col naso, poi piano si volta con tutto il corpo e comincia a camminare: pedina, questa pedina di brutto. In fretta mi porto al suo fianco, mentre con gli occhi la cerco sul terreno. Di nuovo fermo, ma anche davanti a noi nulla che si muova. Dove sei, beccaccia? Faggi e abeti non hanno risposta, si limitano a far da spettatori. Ancora solo il vento, in alto tra i rami, anima questa piccola parte di mondo. Lascia. Comincia a cercare tutto intorno, prima il naso a terra e poi sollevato, a tentare di leggere l’aria. Via. È già andata via. Un volo breve oppure lungo. Chissà. Però Caleb sembra deciso. Va dritto in una direzione. Poi ci ripensa e torna. Io non ho ancora fatto un passo. Adesso mi fido, sento di potermi fidare. Lascio fare a lui. Avanza nel bosco, accorto come non l’ho visto mai, quasi sicuro. Stavolta gli vado dietro. Una zampa anteriore che si cristallizza in un passo che non si decide a fare. È di nuovo in ferma: un volo corto, un salto per confonderci le idee. Dio, non devo sbagliare. Ma non è ancora l’occasione giusta: Caleb si decide a posare piano la zampa, tastando l’aria timidamente prima di trovare l’appoggio sul terreno, e poi ricomincia a guidare, il muso puntato fisso in avanti e le zampe che si muovono in automatico. Io non lo vedo quel filo invisibile, ma so che c’è. Però abbandona, di nuovo. È saltata via. Ancora. E ancora lo lascio fare. Vedo che prova a riannodare quel filo spezzato. Dai che ce la fai. Avanti, più avanti. Fermo. È qua, stavolta c’è, ne sono sicuro, presa in mezzo fra noi e il prato che già intravedo dove finiscono i tronchi. Il blu del cielo sa di libertà per chi possiede ali, ma non si butta ancora. Non si fida. Fermo, Caleb, fermo. E tu, Dio, fa che non sbagli. Di nuovo soltanto il vento, alcune foglie che cadono e se vanno, di traverso, chissà dove. Eccola. È già per aria. Non ci penso ma semplicemente faccio: pam! Il dito, che è già sulla seconda, si blocca. Vedo Caleb partire: anche lui l’ha vista cadere senza appello. Adesso è tua, gli dico mentalmente, tutta tua.
«Già. Ti ricordi?» ripeté l’uomo.
Caleb non rispose. Stava sdraiato sulla coperta vicino alla stufa.
L’uomo, che stava seduto per terra accanto a lui, allungò una mano per carezzarlo. Sentì che le orecchie erano fredde. Nessuna reazione. Ritirò la mano e lo guardò: il sollevarsi lento del fianco col respiro era l’unico accenno di vita.
«Certo che allora eri un bel testone. Quanti anni son passati?» domandò l’uomo. Cercò di contare, aiutandosi con le dita di entrambe le mani. Contò due volte. «Quattordici» si rispose. I suoi pensieri, prima, l’avevano portato in un posto strano ma conosciuto e sicuro, distante dal presente, e avrebbe voluto tornarci. Magari assieme a Caleb. Ma sapeva che ciò non era possibile. La realtà era quella che gli stava di fronte: Caleb stava morendo.
L’uomo ripensò all’anno prima, a quel pomeriggio novembrino in cui le nebbie vaganti avevano risalito la valle e s’erano impadronite dei boschi, aiutate da uno scirocco traditore che per tre giorni aveva morso e mangiato la prima neve della stagione. Aveva piovuto forte tutta la notte e anche al mattino una pioviggine antipatica, fine ma fitta, aveva tenuto bagnate le foglie cadute e disegnato umidi arabeschi su rami e ragnatele. Erano usciti fuori contenti, lui e Caleb, come nei giorni migliori. Un paio d’ore a camminare nel bosco e nulla più, anche perché adesso gli toccava di aspettarlo. Non come una volta, che stargli dietro era un’impresa, per non dire del trovarlo in ferma nei luoghi più nascosti. Era stato come un percorso inverso: adesso era lui, l’uomo, a dover rallentare il passo, anche soltanto per non far pesare la vecchiaia a lui, il cane. E quando erano arrivati su, dove il sentiero stretto si smorzava in uno più largo che tagliava in costa il bosco, Caleb aveva messo il naso in terra e ve l’aveva lasciato, mentre con gli occhi, inquieti come una volta, si guardava attorno. E se fosse? Beh, poteva essere. Sì. Due passi, un piccolo larice rinsecchito: seconda ferma. Adesso non ho più dubbi. La doppietta, senza accorgermene, è già passata dalla spalla alle mani. Altri due passi e di nuovo il naso a terra per leggere, poi parte deciso per il sentiero, un trotto che è quasi la corsa della giovinezza dei tempi andati. Gli vado dietro e mi accorgo che sono di nuovo io quello che deve andar di fretta e ne sono contento. Lo vedo uscire dal largo sentiero e scendere di qualche metro nel bosco, tra i grigi tronchi dei faggi. Disegna una curva radente e stop: fermo immobile. Anch’io salto fuori dal sentiero e a passi accorti mi faccio sotto. Caleb sembra scolpito. Una parte di me però valuta anche il resto: sì, dovrei riuscire a tirare abbastanza bene. Il tempo passa. Un minuto? Due? Poi Caleb che fa un passo in avanti e allunga il muso: un movimento elegante ma deciso che non dimenticherò mai. Come a dirmi: ma la vedi o non la vedi? Ed io che traccio questa linea immaginaria e la seguo con lo sguardo. La vedo. Posata, qualche metro avanti a lui. La vedo benissimo. Anche lei ci guarda, foglia tra le foglie ma con quell’occhio vivo che tutto capisce. No, non voglio rischiare di deludere Caleb: dai. Mi allontano camminando all’indietro, non voglio rovinarla, e nel contempo sollevo la doppietta e vado in mira. Non sono abituato a far così, ma non voglio rischiare: potrebbe essere l’ultima di Caleb. Lei, la beccaccia, aspetta la morte tranquilla. Sembra che faccia apposta, come una storia già scritta. Lo sparo. Il riporto. Odore di polvere bruciata nell’aria. Le nebbie basse, così come s’erano aperte, pian piano si rinserrano, come un sipario.
«Tra quella tua prima beccaccia ben presa e l’ultima è passata tutta un’intera vita. La tua. E anche parte della mia.» L’uomo stavolta fece meno fatica a tornare al presente. Forse perché gli sembrava soltanto ieri, anche se intanto era passato un altro anno.
Caleb era uscito male dall’inverno, le gambe dietro s’erano fatte prima rigide e poi molli e oramai cedevano senza alcun preavviso. Nemmeno il sole caldo dell’estate aveva giovato: passava ore e ore a dormire, a volte immobile come morto altre tremando e uggiolando dietro a sogni di caccia. E infine era arrivato l’autunno, al solito, ma questa volta non c’erano più boschi né beccacce. C’erano soltanto questa coperta, il silenzio della stanza e il caldo della stufa che forse nemmeno sentiva.
Voleva provare un’ultima volta: prese un pezzo di formaggio profumato dal piatto che stava posato per terra tra loro due e glielo mise sotto al naso. Erano tre giorni che non mangiava. Nemmeno beveva. Neanche il latte tiepido.
Niente da fare. L’uomo, che era così abituato a vedere quel naso fremere, ci rimase ancora male. Rimise il pezzo di formaggio nel piatto e poi si levò in piedi. Andò a cercare il pacchetto delle sigarette nel taschino, lo estrasse e lo tenne in mano, guardandolo come un oggetto sconosciuto mai visto prima. Lo gettò lontano, in un angolo della stanza, e tornò a sedersi accanto al cane.
«Ti voglio bene, sai?» Ancora queste orecchie fredde.
Sollevò con delicatezza il muso del cane e strisciando sotto piano col sedere lungo il pavimento riuscì a posarselo sulla coscia: era inerte, come può esserlo un sasso. Guardò all’occhio infossato, quasi spento: mi vedi? Toccò il labbro, secco. Poi passò con le dita sotto l’occhio. Carezzò il capo, la nuca, il collo. Infine si fermò con la mano aperta sul fianco. Respirava. Il cuore batteva. Gli sembrò incredibile, impossibile.
Ci aveva ragionato tanto in questi ultimi mesi. Sapeva che per i cani è un privilegio poter passare l’intera esistenza con chi gli vuol bene. Sapeva che le loro vite scorrono e se ne vanno più veloci delle nostre. Sapeva che l’importante è avere avuto dei bei momenti assieme. Eppure non gli bastava. Ci aveva proprio ragionato tanto, ma non era servito. Non gli serviva. Si sentiva inerme, come un bambino che non ha ancora conosciuto la crudeltà inevitabile della morte.
«Eri grande così, quando sei entrato in questa casa e nella mia vita». Per spiegarglielo meglio, l’uomo staccò la mano e aiutandosi con l’altra mimò l’altezza. Si ricordava bene: l’aveva preso in braccio, perché aveva sentito la paura e la solitudine del cucciolo staccato dalla madre. Caleb. Gli aveva dato questo nome strano, antico: era stato l’arciprete a consigliarlo. La Bibbia, la terra promessa, qualcosa del genere. Non se ne intendeva molto, lui, di queste cose, ma quello era stato. L’aveva visto crescere, farsi forte e agile. Imparare. Farsi scaltro a caccia. E invecchiare. Non era poco, a ben pensarci. Ma lo stesso non consolava.
Tornò a carezzarlo: per un istante gli sembrò che la coda accennasse un movimento, ma capì subito ch’era stata soltanto una sua impressione, un desiderio irrisolto. Anche il formaggio: basta, inutile insistere.
«Dio, per favore lascialo morire» pregò e minacciò l’uomo. La sua voce echeggiò nella stanza, risentita.
Nessuno rispose. Non che se lo aspettasse. Di un Dio che ti risolva i problemi a comando, che ti obbedisca a bacchetta, aveva sentito parlare ma lui mai l’aveva conosciuto.
«Stupido» si disse l’uomo. Scosse la testa. Si nasce e si muore, pensò, questa è la regola. Da sempre. Caleb è alla fine del sentiero. Tutto qui.
Avrebbe voluto crederci. Ma ancora non ci riusciva. Non era così semplice. Era come se il ragionamento l’avesse fatto un altro.
Sapeva bene che c’è sempre una fine se prima c’è stato un inizio. Ma non gli bastava. Sapeva bene che quel che ci frega, a noi umani, è che ce ne rendiamo conto. Che forse alla fine è più il tempo che passiamo a pensare alla vita che fugge che quello impiegato a viverla. E che bisognerebbe invece guardare proprio ai cani, alla loro saggezza. Loro sì che hanno capito tutto. Loro sono maestri nell’insegnarci a vivere nell’unica dimensione che valga qualcosa: il presente. Noi per sentirci felici dobbiamo sempre fare dei bilanci, tirare delle somme, loro invece hanno risolto al meglio.
«E c’è ancora chi li considera soltanto una proprietà» disse l’uomo a mezza voce «certi cacciatori credono che siano solo un attrezzo, al pari del fucile e della cartuccia.»
No, pensò l’uomo, io preferisco amici. I migliori. Caccia o non caccia. Di razza o bastardi. Piccoli o grandi. Pelo lungo. Pelo corto. Colore. Non ha importanza. Come per gli uomini: conta ciò che c’è dentro. Eri lupo, sei diventato cane: ci sarà stato un motivo.
L’uomo si piegò sul cane e nel contempo gli sollevò la testa. Voleva dirgli ancora qualcosa, ma non sapeva come. Rimase lì così, muto, guancia contro guancia. Doveva decidersi. Voleva decidersi. Ricacciò le lacrime in gola. Provò a inventarsi un sorriso. Sperò che Caleb, il suo amico Caleb, lo sentisse. Lo strinse appena un po’ più forte a sé. Tra breve l’avrebbe preso in braccio. Anche per rassicurarlo, come quando era cucciolo. Magari il suo orecchio di cane aveva imparato a riconoscere il battito del suo cuore d’uomo e in qualche modo gli avrebbe fatto compagnia. L’avrebbe portato giù in paese, dal veterinario. Prima l’avrebbe fatto addormentare e poi l’avrebbe lasciato dormire per sempre. Dopo ci sarebbe stata una buca in giardino da scavare, riempire e ricoprire. In primavera sarebbe ricresciuta l’erba e d’inverno sopra ci sarebbe caduta lieve la neve.
 Le premiazioni di Vicenza: da sinistra Romano Pesenti (presidente della Giuria del concorso), Matteo Marzotto (Presidente Fiera di Vicenza SpA), Claudio Zanini (vincitore dell'edizione 2014), Alessandro Bassignana (Amministratore Unico di Cacciando.com), Piero Torosani (responsabile commerciale della Bernardelli SpA).

CACCIARE I TETRAONIDI ALPINI

Articolo pubblicato su DIANA 1/2016
testo e foto di Alessandro Bassignana
 
Il nome gli deriva dal greco “tetra” che significa quattro, come il numero degli artigli che ne caratterizzano le zampe, piumate sino alle dita a ricoprire i tarsi. 
Sono i tetraonidi, altresì definiti tetraoni, robusti uccelli della famiglia dei galliformi fasianidi, stanziali e che non migrano.
Normalmente abitano le zone temperate e subartiche dell’emisfero boreale, trovando rifugio in boschi e foreste, oppure spingendosi molto in alto, in aree montagnose e talvolta ben oltre il limite stesso della vegetazione.
E mentre in nord Europa (Russia, Scandinavia, Scozia, Bielorussia, Repubbliche Baltiche) vivono anche a quote basse, o addirittura in pianura, In Italia li si trova solo sulle Alpi, quasi fossero un relitto glaciale, trovando nel nostro Paese uno dei limiti meridionali al loro areale di diffusione.
Le specie presenti in Italia sono quattro: gallo cedrone (Tetrao urogallus), francolino di monte (Tetrastes bonasia), fagiano di monte (Lyrurus tetrix) e la pernice bianca (Lagopus mutus), e di tutte queste solo le ultime due sono cacciabili, seppure con fortissime limitazioni.
I primi due invece, definiti anche tetraonidi…forestali, furono cacciati anche in Italia sino ad una trentina d’anni, principalmente sulle Alpi Orientali dove erano ancora presenti ma in forte calo, mentre risultavano del tutto assenti dall’arco alpino occidentale; il cedrone in particolare era preda ambita per cacciatori di montagna, e un tempo veniva anche insidiato al canto, in primavera, senza l’ausilio del cane.
Si credeva fossero a rischio sopravvivenza, e dunque fu ritenuto prudente proteggerli escludendoli dal prelievo venatorio; in realtà da quando fu chiusa la caccia a questi due magnifici uccelli di loro s’è persa ogni cognizione di presenza e consistenza, e così diventa difficile sapere quale, effettivamente, sia lo stato attuale di quelle popolazioni.
Ma veniamo ora alle due specie cacciabili, il forcello e la pernice bianca.
Insieme alla coturnice alpina (Alectoris graeca), altro galliforme che vive sulle nostre Alpi, e la lepre variabile (Lepus timidus) costituiscono la così detta “tipica fauna alpina”, croce e delizia di ogni cacciatore di montagna.
“Delizia”, facile a dirsi, perché trattasi di autentica selvaggina, forse l’ultima insieme a beccaccia e beccaccino ancora praticabile per i veri cultori del cane da ferma; “croce” perché ogni anno che passa aumentano le pressioni perché questa straordinaria forma di caccia venga chiusa, e questo quasi sempre sulla base di emotività ed istanze animal-ambientalista che poco o nulla hanno di scientifico.
Cacciare la tipica fauna di montagna, e i tetraonidi in particolar modo, è certamente un privilegio, una fortuna per quegli appassionati che ancora tengono alle loro tradizioni venatorie, o che vogliono vedere i loro ausiliari cimentarsi su selvatici straordinari, difficilissimi da incarnierare anche per l’ambiente nel quale vivono. 
I cacciatori lo sanno bene, e quindi loro stessi si sono imposti regole severissime (nei comitati di gestione dei comprensori alpini vi sono anche loro, insieme ad agricoltori, ambientalisti ed enti locali) che hanno sempre rispettato, come i censimenti primaverili al canto ed estivi con il cane da ferma, il contingentamento dei prelievi e la limitazione giornaliera dei carnieri, le chiusure anticipate
Partiamo dal fagiano di montagna, il gallo forcello, quel diavolo nero che si palesa quando meno te l’aspetti, frullando via molto spesso da posti che rendono estremamente difficoltosa la fucilata, a volte senza nemmeno concederti la possibilità di doppiare il colpo.
Detto che si caccia il solo maschio, e che la femmina è protetta da moltissimi anni, va precisato come non sia molto difficile distinguere il sesso dell’uccello che s’è involato, favoriti da un dimorfismo sessuale che regala al gallo un piumaggio nero-bluastro, ma con ampie porzioni d’un bianco molto evidente sotto le ali e sulla coda, mentre la gallina lo ha bruno-marrone, piuttosto mimetico quand’è a terra e abbastanza simile a quello della fagiana comune.
Cacciare il forcello significa esplorare ripidi versanti, principalmente quelli esposti a nord, nord-est o nord-ovest, più bui e freddi e dove nel mese di ottobre lui è ancora ritirato; significa battere con attenzione ogni macchia possa celarlo al nostro cane, sia questa formata da cespugli di rododendro, ginepro o mirtillo, piuttosto che una selva intricata di ontano verde oppure abetaie e lariceti che s’estendono a perdita d’occhio, e dove il gallo potrebbe essersi “imbroccato” su una pianta per involarsi al primo allarme.
Il cane diventa essenziale in questa difficilissima ricerca, ma lo è a condizione che si tratti d’un soggetto davvero esperto, dotato di cerca avida ma anche di prudenza, d’olfatto portentoso e, specialmente, d’una ferma solidissima, a prova di bomba!
Guai infatti se il cane una volta “agganciato” il gallo rompesse la ferma, o s’avvicinasse troppo al selvatico prima dell’arrivo del padrone, perché il fagiano…decollerebbe come un caccia da combattimento dal ponte della portaerei, vanificando così tutta l’azione di cerca.
Per questa difficile forma caccia si prediligono i cani d’Oltremanica, con una netta preferenza per il setter inglese, seguito a moltissima distanza dal pointer, ma non sono comunque pochi quelli che usano i continentali come kurzhaar e drahthaar, epagneul breton o girffone korthals e pure i nostri antichi soggetti italici: lo spinone e il bracco.
C’è anzi da ricordare come nell’Ottocento si fossero diffusi bracchi più piccoli e leggeri di quelli che cacciavano nelle pianure o nelle marcite piemontesi e lombarde, per l’appunto definiti da montagna; generalmente si trattava di soggetti bianchi di mantello e con poche macchie arancio, definiti “Aschieri” probabilmente dal cognome del loro allevatore piemontese che li selezionò.
La legge 157/92 stabilisce s’inizi la stagione di caccia alla tipica, e quindi pure quella ai tetraonidi, per il primo giorno utile d’ottobre, quando ormai i giovani hanno una certa dimensione e il piumaggio ha assunto le caratteristiche e colorazioni dell’adulto, consentendo così al cacciatore di distinguerli anche in volo, evitando di sparare alle femmine.
La consistenza delle covate, così come l’indice riproduttivo, garantiscono di un buono stato di salute della popolazione di forcelli, ma sono fortemente condizionati dal clima estivo, quando le uova sono ormai schiuse e i pulli potrebbero patire un’eccesiva piovosità o un’ondata improvvisa di neve o gelo, eventi tutt’altro che infrequenti sulle nostre Alpi. Esiste poi il problema delle predazioni, e da qualche anno sulle montagne s’è diffuso un implacabile nemico delle covate, che distrugge divorando le uova di dev’essersi scoperto ghiotto: il cinghiale. In Piemonte si fece un esperimento, con uova di gallina ovviamente e non certo di fagiana di monte; ebbene su dieci false covate nascoste tra i rododendri ben nove sparirono tra le fauci del goloso suide.
Quest’anno comunque è andata molto bene, con un luglio ed un agosto caratterizzati da un tempo molto stabile, caldo, asciutto, e dunque i giovani nati in giugno hanno potuto svilupparsi e crescere bene, regalando ai cacciatori alpini una stagione come da anni non si vedeva.
Come già scritto si spara ai soli maschi che una volta abbattuti debbono essere fascettati e portati al centro di controllo del CA (Comprensorio Alpino) per verifiche e misurazioni biometriche; in quell’occasione uno degli aspetti più rilevanti è verificare se si tratti d’un adulto o di un giovane dell’anno, perché questo dato fornisce elementi importanti per stabilire se l’azione di gestione è stata efficace, e dunque si sono abbattuti vecchi e giovani in un rapporto corretto, tale da non mettere a rischio la sopravvivenza della popolazione. 
A me questa stagione è toccato d’andarci due volte, e sempre con soggetti dell’anno.
Il forcello è un uccello molto robusto, con un piumaggio folto che lo difende dal freddo intenso delle alte quote, e dove spesso in inverno la colonnina di mercurio scende di venti e oltre gradi sotto lo zero; dunque è capace di reggere molto bene le fucilate, favorito anche dall’alta velocità del suo volo che ne fa bersaglio ostico anche per il miglior tiratore. Può infatti capitare che qualche pallino lo colpisca, ma che lui faccia ancora centinaia di metri di volo ferito, prima di crollare morto, magari dopo aver attraversato l’intera valle; non recuperarlo diventa non solo un peccato ma pure una grave perdita.
Questa è un’altra ragione per cui bisogna cacciarlo sempre con arma e munizioni adeguate: cal. 12 o al massimo 20, mentre gli appassionati dei piccoli calibri non trovano qui la mia comprensione o simpatia.
Altrettanto importante scegliere la giusta numerazione di pallini: io sono solito mettere in prima canna un 6 o più avanti nella stagione anche un 5, borra feltro, mentre in seconda metto sempre un 4 con contenitore.
In zona Alpi la 157/92 vieta l’uso dei tre colpi, ma non quello del semiautomatico con apposito riduttore; ad ogni buon conto il cacciatore alpino per la tipica predilige quasi sempre sovrapposto o doppietta, più classici.
I galli da noi si cacciano a quote che vanno dai 1.500 mt sino ai 2.200/2.300 e mai oltre se non molto raramente, anche perché gli ultimi larici o cirmoli si trovano a quelle altezze, mentre superandole si entra nel regno dell’altro tetraonide oggetto di prelievo venatorio: la pernice bianca. E veniamo a lei.
La pernice è…bianca, ma lo diventa solo con l’inizio dell’autunno, perché prima ha un piumaggio grigiastro, che, come quell’altro la cela perfettamente tra le nevi invernali, questo mimetizza perfettamente gli uccelli tra pietre e sassi dove nascono le covate e gli adulti campano per i mesi caldi, in genere scegliendo i versanti più freschi.
La natura a tutto pensa e provvede, e così questa meravigliosa “regina dei ghiacci” cambia di vestito a seconda di stagione e clima, e di quello che sarà il colore di fondo del terreno.
È un uccello straordinario, capace di vivere in un ambiente ostile, e dove pochi altri animali avrebbero la possibilità di farcela, sottraendosi con il suo mimetismo perfetto a predatori che la insidiano senza sosta, come i mustelidi, i rapaci, o la stessa marmotta che vive sino a quelle altezze, e pure lei trova gustose le sue uova.
La pernice bianca è uccello gregario, vivendo in gruppi che a volte si riuniscono in gran numero, formando voli che possono lasciare davvero senza fiato anche il cacciatore più esperto o preparato, e non è infrequente si senta raccontare di trenta, quaranta o anche più pernici, tutte assieme come uno stormo, quasi fossero piccioni di cascina.
Cacciarle non è mai esperienza banale, non foss’altro che per i posti dove bisogna cercarle, quegli immensi sfasciumi di granito, taglienti come lame, ove procedere è grande fatica per cani e cacciatori, oppure quelle pareti dove sono incrodate a cantare e che piombano giù, verticali e talvolta levigate come specchi, pericolose perché lì, con in più l’insidia di neve o gelo, un passo falso può costare anche la vita.
I cani le cercano avidamente captando effluvi che l’aria indirizza alle loro potenti narici, rendendoli euforici quando l’odore testimonia della loro vicinanza. Inizia allora la guidata, che può protrarsi anche per decine di metri, perché la pernice bianca è capace di pedonare molto a lungo, risalendo il pendio prima di buttarsi verso il basso, oppure traversando immense conche glaciali con quel suo volo regolare, sfarfallante, che fa di lei un bersaglio nemmeno troppo difficile per il buon cacciatore.
Ma la nostra regina è un selvatico…umorale, come altri per la verità, e così capita che un giorno, magari con il sole ottobrino a intiepidire l’aria, sia facilmente avvicinabile, facendosi fermare anche da cani privi d’esperienza e rimettendosi quando levata lì vicino; mentre altre volte diventa intrattabile, involandosi a decine di metri da cani e cacciatori, e sparendo alla loro vista o spostandosi in siti irraggiungibili. Questo ad esempio succede quando sta cambiando il tempo, e loro diventano nervose, intrattabili.
Ad inizio stagione le pernici sono nel pieno della muta, e così il loro piumaggio presenta tanto le caratteristiche di quello invernale, con ampie porzioni di bianco sul grigio, che di quello primaverile-estivo; bisognerà aspettare sin verso fine ottobre perché diventino completamente candide, ma non sempre chi le caccia avrà la possibilità d’incarnierarle di quel colore così caratteristico, perché pochi sono i soggetti prelevabili ogni stagione, e una o due giornate di caccia in genere sono sufficienti a raggiungere il piano concesso dal comprensorio; raramente si arriva al mese di novembre.
Per quanto concerne l’ausiliare anche qui come per il forcello la scelta dei più cade sul setter inglese, cane superlativo e che riesce a cacciare in quegli ambienti estremi senza patire eccessivamente il freddo, favorito da un pelo lungo e folto che lo protegge piuttosto bene, e nemmeno il terreno, avendo quello allenato al monte generalmente un piede robusto.
Il cane dovrà essere intraprendente e coraggioso dovendo esplorare canalini ripidi come trampolini da salto, insinuarsi tra rocce e sassi, affacciarsi al di sopra di precipizi da brivido, effettuare passaggi al limite della follia; lassù un passo falso può essere fatale anche per loro, e molti sono i cacciatori alpini che sono tornati a valle senza il loro compagno, svanito in qualche burrone dopo essere scivolato sul ghiaccio o seppellito in loco dopo essersi sfracellato per una caduta da un salto roccioso. 
Arrivare sull’ausiliare fermo a qualche centinaio di metri su un volo di bianche costa immensa fatica, e bisogna arrivarci con la necessaria lucidità al fine di non vanificare con un errore banale il lavoro del cane.
Il tiro non è particolarmente difficile, anche perché a differenza di quanto avviene con il forcello non vi è mai vegetazione che possa ostacolarlo; il loro volo poi è abbastanza regolare e dunque offre la possibilità di piazzare bene la botta, evitando i tiri di stoccata, necessari quando l’uccello frulla via in fitto bosco come capita per il forcello.
Anche qui calibri e munizioni debbono essere adeguati al pregio del selvatico, al fine d’evitare inutili ferimenti: sempre calibro 12 o 20 e cartucce con piombo 8 o 7 in prima canna e 6 in seconda; borra feltro in prima canna per tiri più ravvicinati e con contenitore per l’altra.
 

NASCE FENAVERI

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La Federazione delle Associazioni Nazionali Venatorie Riconosciute è una realtà
 
Oggi è stata costituita la FENAVERI, l’organismo che d’ora in poi rappresenterà gran parte del mondo venatorio italiano a livello nazionale e internazionale. L’atto costitutivo è stato firmato questa mattina a Roma, davanti al notaio, da Federazione Italiana della Caccia, Enalcaccia, Arcicaccia e Anuu Migratoristi. E’ previsto che in questa prima fase la presidenza sarà ricoperta dalla Federcaccia, la vicepresidenza vicaria dall’Enalcaccia, e la vicepresidenza dalle altre due associazioni: Arcicaccia e Anuu.
Con la costituzione del nuovo soggetto si è raggiunto un importante risultato: aver dotato l’associazionismo venatorio italiano di uno strumento, la FENAVERI (Federazione Nazionale Associazioni Venatorie Riconosciute), capace di realizzare una sintesi costruttiva tra le più importanti associazioni venatorie (che annoverano più dei due terzi dei cacciatori italiani) che insieme si apprestano a rilanciare la politica venatoria attraverso un progetto capace di dialogare con le diverse sensibilità del Paese e debellare le incongruenze emerse anche in ambito europeo rispetto alle vigenti Direttive Comunitarie.
Una voce comune che si prodigherà per l'affermazione della cultura rurale,  per il superamento della cultura animalista, fondamentalista, per dialogare con l’anima conservazionista dell’ambientalismo e sollecitare l’interesse per l’attività venatoria da parte dei giovani nonchè per rafforzare il rapporto con il mondo agricolo e infine per riconoscersi nel comune sentire dell’opinione pubblica,  trattando con più autorevolezza con le istituzioni nazionali ed europee.
Il modello organizzativo Statutario non mortifica ma riconosce l’autonomia gestionale delle Associazioni Venatorie quali parti di un insieme, poiché forte è la consapevolezza che l’unità di intenti non è mai stata messa in discussione e che un coro in armonia sa farsi ascoltare meglio di un solista.
Un’armonia che è stata raggiunta grazie ad uno Statuto di grande equilibrio nel quale si potranno facilmente riconoscere anche gli organi periferici delle singole associazioni. Sarà un impegno corale vocato a valorizzare, oltre alle politiche comuni, anche la comunicazione, i servizi, la vigilanza venatoria e le attività sportive. Un impegno particolare sarà posto altresì nella difesa delle tradizioni venatorie che caratterizzano storicamente molte regioni italiane. Grande attenzione sarà riservata ai rapporti con gli organismi internazionali che ormai rivestono un ruolo determinante nella definizione e nella gestione delle politica venatoria a livello nazionale.  
 
La FENAVERI elaborerà  un rinnovato progetto alimentato dalla capacità e dalle risorse tecnico-culturali che il mondo della caccia porta con sé.
I cacciatori italiani, ancora una volta, sono pronti ad affrontare da protagonisti gli impegni che li attendono, ottimizzando le risorse in una grande Federazione unitaria, la FENAVERI, che rispettando le singole autonomie, saprà parlare al Paese con una voce sola. 
 

RICORSO PIEMONTESE: TORNANO ANATIDI E MIGRATORI

Il Tar Piemontese si è riunito ieri per esaminare il ricorso presentato da alcune Associazioni Venatorie (Federcaccia Piemonte, ANLC, Enalcaccia, EPS, Anuu Migratoristi), ATC e CA piemontesi patrocinati dal Prof. Avv. Paolo Scaparone del Foro di Torino.
Calendario sospeso limitatamente ad alcune specie: risulta ingiustificato il mancato inserimento nel calendario venatorio di tutti gli acquatici e migratori non inclusi e previsti dalla l.157/92 come specie cacciabili; e dunque si potranno cacciare anche in Piemonte dopo molti anni altre 11 specie. La Regione avrà 20 giorni dalla notificazione per rifare il calendario venatorio inserendole.
Su pernice bianca, lepre variabile ed allodola il TAR precisa come la questione dovrà essere esaminata nel momento in cui la discussione entrerà nel merito, e dunque più avanti anche se non è stata ancora fissata una data vista la complessità della questione, e il rischio pendente di incostituzionalità.
La camera di consiglio per la prosecuzione della fase cautelare è fissata per il 15 settembre 2016.
In quanto a date e carnieri sono state accolte le indicazione dell'ISPRA, e dunque nessuna modifica è prevista.

Qui allegata l'ordinanza.

 

IL MONDO VENATORIO PIEMONTESE INCONTRA LA POLITICA

Oggi Federcaccia Piemonte, ANLC, Enalcaccia, EPS, Anuu Migratoristi, hanno proseguito la serie d'incontri con le forze politiche di Regione Piemonte. Dopo il PD è toccato a Forza Italia, e l'incontro è avvenuto presso la sede del Gruppo Consiliare degli "azzurri", in via S. Francesco d'Assisi a Torino. 

 
Le Associazioni Venatorie hanno ribadito la necessità di ottenere il rispetto della legalità e della loro categoria, rammentando come la situazione precaria in cui si trova la caccia piemontese origini non solo dal presente, ma pure da alcuni errori fatti nel recente passato.
 
Soddisfazione reciproca di fronte al comune intento di trovare soluzioni condivise e riaprire il dialogo istituzionale, mentre le Associazioni Venatorie hanno ribadita l'intenzione di incontrare al più presto gli altri gruppi presenti in Consiglio Regionale.
Ad allietare il pomeriggio, in attesa di importantissimi riscontri in arrivo dal TAR, è anche giunta notizia che la maggioranza aveva ritirato i contestati emendamenti relativi al divieto di cacciare gallo forcello e coturnice.
Su questo le Associazioni Venatorie sopra citate avevano già espresso la loro fortissima contrarietà, incontrando i vertici del PD (ed ottenendo l'impegno da parte di alcuni dei firmatari l'emendamento a tirarsi indietro) e scrivendo solo qualche giorno fa a tutti i consiglieri regionali affinché non venisse dato corso al contestato provvedimento; minacciando infine un'altra azione legale che avrebbe nuovamente sollevate questioni di legittimità costituzionale. 
 
Si attende ora il responso del TAR sul ricorso presentato dalle AAVV, ATC e CA sul calendario venatorio 2016/17, con la possibilità che il recente divieto di caccia a pernice bianca, lepre variabile e allodola, venga rimesso avanti alla Corte Costituzionale
Così fosse per il mondo venatorio sarebbe un'altra grandissima vittoria: la quarta in meno di due anni!
 
 
 
Torino, 27 luglio 2016
 
 
Anuu Migratoristi
Federcaccia Piemonte
Enalcaccia
E.P.S.
A.N.L.C.
 

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