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CACCIA AL CAMOSCIO....IN PIENA ESTATE

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Sono orgoglioso delle mie origini e della mia Terra e quando ne sono lontano sento parecchio la sua mancanza, ma allora come si spiega lo smisurato amore che ho per la montagna e la mia grandissima passione per la caccia al camoscio? Il camoscio, la mia ossessione, la mia “Febbre Nera”, quella che ho contratto per la prima volta tantissimi anni fa sulle montagne trentine e che ancora oggi continua a manifestarsi ogni anno come una malattia di stagione, di solito verso la prima settimana di novembre, quando i camosci cominciano a “correre”, ma ultimamente anche molto prima. Infatti, se qualche anno fa preparando lo zaino ci mettevo dentro anche una maglietta di ricambio, ora ne devo mettere almeno due ed anche una camicia! Vado a caccia praticamente tutto l’anno, da gennaio a dicembre, in Italia ma anche all’estero, l’importante è non star mai fermi e, quando non è proprio possibile uscire né armato né accompagnato dai miei amati ausiliari, mi piace ugualmente andar per macchie, boschi e montagne con il binocolo al collo. E’ un’attività che faccio molto volentieri perché adempie ad un duplice scopo: tenere sotto controllo le mie abituali zone di caccia e mantenermi in costante allenamento fisico. Durante le mie escursioni, scelgo sempre percorsi difficili e possibilmente in salita, che mi aiutino ad arrivare all’appuntamento col Re della montagna ben allenato, perché non voglio farmi trovare impreparato quando andrò a dargli la caccia! Per cacciare il cinghiale in battuta, il cervo al bramito, caprioli, daini e mufloni alla cerca e all’aspetto non occorrono grandi doti fisiche, ma per portarsi a tiro di un bel becco occorre invece essere super allenati e con tutti i controlli medici a posto. La caccia in montagna dovrebbe essere considerata come una vera e propria verifica dello stato fisico di un cacciatore e delle sue reali possibilità, perché lo sforzo necessario per catturare un camoscio può farci conoscere davvero i nostri limiti.

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Ho scoperto a mie spese che c’è una grande differenza tra il camminare nella macchia per un giorno intero dallo scalare sentieri montani ripidi e rocciosi, magari per poche ore soltanto! Comunque, anche questa volta, io e la mia inseparabile mogliettina Nadia arrivammo sulle Dolomiti bellunesi che faceva un caldo torrido. Tutto il tragitto il macchina lo avevamo fatto con l’aria condizionata al massimo, nonostante fossimo in ottobre inoltrato. Vittorio, il mio vecchio amico, la mia guida alpina, il mio compagno di caccia, mi aveva detto che sarebbe stata davvero dura perché i camosci, dato il caldo inusuale, stavano molto in alto, anzi, quasi sicuramente solo sulle cime. Conosco Vittorio da una via e sin dal primo giorno che ci presentarono fu subito amore a prima vista. Lui, conoscendo la mia immane passione per la montagna, appena le condizioni lo consentono non perde occasioni per invitarmi ad andare a trovarlo. Ci sono zone di caccia belle, bellissime ed altre meravigliose, come il Cadore Dolomitico, posti dove da decenni amo trascorrerci anche le mie vacanze estive. La caccia al camoscio non necessita di levatacce, ma quando lo si fa alla “vecchia maniera”, a piedi, partendo dalle strade asfaltate, magari provinciali, con carabina e zaino sulle spalle e scarponcini robusti ai piedi, occorre camminare parecchio prima di raggiungere le zone di pastura dei nobili animali. La sveglia trillò alle 4 e dopo neanche un’ora, con le piccole torce Leedlensen sulla testa, cominciammo a salire sulla montagna. Vittorio è più giovane di me di una decina di anni ed è un montagnino doc di nascita. Quindi, oltre all’età e ad essere molto più allenato, possiede una conformazione fisica sicuramente molto più adatta per quelle altitudini. Un cielo terso e tempestato di stelle preannunciava una bellissima giornata, per la caccia al camoscio oserei dire…forse troppo bella. Faceva già un caldo infernale.. Vittorio, dotato di una esperienza infinita ed essendo un instancabile arrampicatore, camminava veloce, facendomi faticare non poco per riuscire a stargli dietro. Tenni il suo passo per una mezz’ora, poi dovetti cedere. Il dislivello mi aveva letteralmente mozzato il fiato e occorsero diversi minuti prima che riuscissi a regolarizzare la respirazione. Procedevamo in silenzio, con un’andatura piuttosto lenta ma senza incertezze, spesso dovendoci aiutare nella salita anche con le mani. Non facevamo praticamente nessun rumore, eccetto quello provocato dal nostro sommesso ansimare, dal mio in particolare. Dopo aver camminato per un’altra ora pregai il mio amico-guida-accompagnatore di fare una sosta perchè ero letteralmente zuppo di sudore. Dovevo procedere con un primo cambio di T-shirt e camicia e bere un po’ d’acqua, perchè rischiavo di disidratarmi. Non credo ci si debba vergognare quando il nostro fisico da sessantenni c’implora un minimo di riposo. Questa è la vita! Comunque, appena cominciò ad albeggiare, eravamo in vetta. Controllando l’orologio vidi con stupore che avevamo camminato per più di due ore. La zona era un caleidoscopio di colori che mutavano in continuazione col sorgere progressivo del sole. L’alba era splendida e come vidi Vittorio estrarre dal suo zaino lo Specktive Swarovski CT 85 già montato sul treppiede il cuore mi si riempì di gioia. Credevo che avesse già avvistato degli animali e che volesse valutarli meglio con il Lungo… invece mi sbagliavo. Quel che seguì fu un susseguirsi di emozioni piacevoli, perché eravamo a caccia in montagna in una delle zone più belle del mondo, ma anche tristi e un pochino deprimenti perché, nonostante tutti i nostri sforzi e le strategie di Vittorio, non riuscimmo ad avvistare un solo camoscio. Che mattinata strana, da segnare veramente sul calendario. Ma la risposta ai nostri insuccessi era palese e andava ricercata nella temperatura sulle cime, più estiva che autunnale. Quando alle 12,30, dopo aver camminato quasi ininterrottamente per sette ore e mezza, decidemmo di rientrare, mi ero bevuto un litro e mezzo di acqua e cambiato due magliette ed una camicia. Ma non era il caso di farci una tragedia, perché si sa, la caccia è così. Anzì, credo che sia proprio l’imprevedibilità a farcela amare così tanto. Il problema ora era un altro… e piuttosto serio. Ero letteralmente sfinito, non avevo più un briciolo di forza, avevo esaurito tutte le energie. Chissà come avrebbero reagito le mie povere gambe maremmane a continuare la caccia il giorno dopo? Pranzammo (io con stinco e patate, Nadia con filetto e verdure grigliate!), ci riposammo e trovammo persino il tempo per fare una visitina a Calalzo di Cadore dove c’era una volta la mitica Armeria Frescura. Poi cenammo con tutti gli amici cadorini e quando arrivarono le grappe Vittorio decise che l’indomani avremmo tentato la sorte in un'altra zona, dove lo scorso anno avevamo avvistato diversi camosci ed anche qualche muflone. Il mattino seguente decidemmo di anticipare, così mi ritrovai a scalare un sentiero ripidissimo che non erano ancora le 4,30, praticamente procedevamo a notte fonda. Vittorio, per non smentire la sua fama di duro, partì subito in quarta, concedendomi poche, brevissime soste in quasi tre drammatiche ore di marcia, ma appena giungemmo in quota i nostri sforzi furono subito ripagati. Tre - quattro forcelli cantavano e a poche decine di metri da noi udimmo anche …. belare!

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Vittorio accostatosi al mio orecchio mi sussurrò: “Su col morale Marco, che se non dovessimo vedere camosci, potrai sempre sparare ad un muflone!” Entrambi avevamo la netta impressione che gli animali fossero in zona ma che a causa del caldo preferivano non muoversi. Che stagione del cavolo! Ci sistemammo comodi per adottare una nuova tecnica di caccia, niente più la cerca frenetica del giorno prima, saremmo rimasti fermi dov’eravamo, sperando di avvistare almeno un muflone. Schiena contro schiena, impugnammo i nostri binocoli e prendemmo a binocolare. Non mi vergogno a dirlo, sfruttai quella sosta anche per mettere ad asciugare le magliette e la camicia fradice di sudore. Il sole stava sorgendo e si preannunciava cocente. A poche decine di metri da noi un gallo forcello cantava che era uno spettacolo. Le condizioni per trascorrere una piacevole giornata c’erano tutte, peccato che avevo dietro anche una Weatherby Ultralight Mark V calibro 270 W Magnum sul suo bel bipiede Harris e che mi sarebbe piaciuto usarla. Puntai la carabina verso un costone in ombra addossato a quattro larici spelacchiati, con il colpo in canna e la sicura inserita, pronta per qualsiasi evenienza. Nonostante tutto quella era pur sempre una zona ricchissima di animali, una delle più belle di tutte le Dolomiti e non mi avrebbe stupito veder apparire, da un momento all’altro, un bel branco di camosci. Vittorio ha gli occhi di falco, ma sa anche dove guardare. Si voltò verso di me sorridendo, poi m’indicò un camoscio proprio nella penombra del costone che avevamo davanti. Lanciai subito l’impulso laser del mio Leica Geovid 8 x 42 per conoscere a che distanza si trovava: 200 max 220 metri.

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Se il camoscio fosse stato quello giusto, anche la distanza sarebbe stata più che perfetta. A Vittorio bastò il solo binocolo per identificare il camoscio come un bel maschio che rientrava pienamente nel nostro piano di abbattimento. Senza perdere tempo prezioso mi preparai al tiro, adagiando la mia Weatherby anche sul rest posteriore. Quella splendida arma è in grado di fare una rosata di quattro colpi in due – tre centimetri a duecento metri di distanza e possiede una radenza ed una letalità eccezionali. Il camoscio era leggermente più in alto di noi, così considerando l’Angolo di Sito e la precisione delle mie ricaricate preferite con palle Hornady Spire Point da 130 grani, decisi di tenermi solo un pelino basso, appena sotto la mezzeria della spalla. Posizionai il correttore di parallasse dello Swarovski Z5 5 – 25 x 52 P sui 200 metri, misi a circa15 x gli ingrandimenti e mirai il camoscio che pascolava ignaro della nostra presenza. Regolai il respiro, armai lo stecher e quando mi sembrò che fosse tutto a posto e di non aver tralasciato nulla al caso, sfiorai il leggerissimo grilletto. Il colpo fu preciso perchè abbatté il becco letteralmente sul posto. A dispetto del giorno prima, non era ancora sorto il sole che avevo già abbattuto uno splendido animale. Un calorosissimo e sincero “Weidmannsheil” pronunciato da Vittorio, abbinato a un’energica pacca sulla spalla, furono il miglior premio che ambivo. Ero felice e orgoglioso del fatto che avevo sparato bene con precisione e che il mio fisico aveva risposto a dovere. Ci organizzammo per il recupero della spoglia che c’era stata donata con generosità da quella splendida valle incantata. Raggiunto il camoscio costatammo che era un capo meraviglioso, con un bel trofeo, forte e regolare. Lo stimammo sui 5 anni. Poi gli porgemmo i dovuti onori e procedemmo con l’eviscerazione. Eravamo nel regno dei camosci, dei mufloni dei caprioli e anche dei cervi, con la possibilità di avvistare ancora degli animali, così decidemmo di rimanere un po’ sulla montagna per godercela in santa pace, senza aver più nessuna voglia di sparare. La caccia al camoscio è così, quando riesci ad abbatterne uno all’anno (cosa tutt’altro che facile, anche per i residenti) devi accontentarti ed esserne felicissimo. Quando raggiunsi Nadia al bellissimo B & B dove soggiornavamo, la trovai che stava leggendo un thriller storico. Mise il segnalibro, mi guardò comprensiva e sorridente e capì subito quale era stato l’esito della caccia. Per confermare quel che ho appena detto, mia moglie disse soltanto: “Per quest’anno sei a posto allora!” Fu una affermazione, non una domanda perché se lo fosse stata, conosceva già la risposta.

https://www.youtube.com/watch?v=3DksGYhiW74

 

 

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