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Tre brevi racconti con cinque camosci ed un corvo

Partire al mattino, per andare a caccia al camoscio in montagna è sempre l’inizio di un’avventura: un’uscita, anche se non porta all’abbattimento di una preda (come avviene il più delle volte), regala sempre sensazioni impagabili.
Il paesaggio, che magari hai già visto centinaia di volte, la luce che cambia con il sopraggiungere del giorno o dello scorrere delle nubi, il comportamento degli animali attorno a te, dal volo dell’aquila al topolino che appare fra i sassi per mangiare il torsolo della mela con cui hai appena fatto merenda e hai lasciato apposta a terra per lui, tutto questo fa si che non sia mai una giornata sprecata.
E poi, naturalmente, l’apparire dei camosci sulle rocce o sulla neve che ti procura ancora, dopo tanti anni, una emozione che ti causa una accelerazione del battito cardiaco.
Soprattutto se hai la fortuna di vedere il capo giusto, prendere il fucile ed inquadrarlo nel cannocchiale prima di premere il grilletto.
A volte, invece, capita di assistere come spettatore ad azioni di caccia da lontano, e di tre di queste, che mi sono successe molti anni fa, voglio raccontare.
La prima ha come protagonista D, cacciatore più anziano di me, che un giorno col binocolo vidi comparire da dietro il crinale innevato chiamato “Privat” mentre mi trovavo dall’altra parte della valle della “Lavina” nel gruppo del Mangart, a molte centinaia di metri di distanza.
D appoggiò lo zaino sul ciglio del crinale e di lui si vedeva solo la testa oltre lo zaino e la sua carabina Mauser con la canna esageratamente lunga (da quel che ricordo).
Dopo un po’ un gruppo di una dozzina di camosci passò sotto di lui nella neve, lo vidi imbracciare il fucile e sparare.
Uno dei camosci rotolò giù dal ripido pendio, fermandosi fra alcuni cespugli proprio sul limitare del salto roccioso di alcune decine di metri e che finisce in fondo alla valle.
D però non si mosse, e allora capii che credeva di aver mancato il colpo.
Dopo circa 1 ora il gruppo di camosci passò in senso inverso, D nuovamente sparò, il camoscio accusò il colpo e rotolando finì poi giù dalla parete rocciosa fino in fondo alla valle.
Vidi D raccogliere lo zaino e scendere con cautela nella neve e recuperare il primo camoscio che era rimasto impigliato nei cespugli.
Avendo capito l’equivoco sulla via del ritorno sono andato ad aspettarlo in fondo al sentiero, che si intersecava con il mio, per dirgli: “e chel atri?” (E l’altro?).
Ci rimase molto male, andammo insieme allora sotto le rocce a recuperare il secondo camoscio.
In realtà D quando aveva trovato il primo si era stupito perché lo ricordava diverso, e non era in realtà neanche quello che D aveva mirato la prima volta, ma un giovane maschio che aveva ricevuto il colpo per caso.
Anche nel secondo episodio un cacciatore abbattè per errore 2 camosci, in maniera però differente: era tempo di brunft (il periodo degli amori), i camosci correvano inseguendosi sollevando spruzzi di neve, neri diavoli sul bianco abbagliante.
G si era ben sistemato, in attesa, con lo zaino appoggiato al masso e sullo zaino la carabina rivolta verso quello che da sempre è un punto di passaggio degli animali.
Come spesso accade, dopo una lunga attesa in cui sembra non succederà nulla, all’improvviso in alto, da dietro il crinale, compare un bel maschio di camoscio che si ferma un istante a guardare a valle, prima di proseguire la sua corsa.
Giusto il tempo per G di inquadrarlo nel cannocchiale e tirare.
Per un attimo il rinculo fa sparire l’immagine, ma subito dopo, dietro la croce del cannocchiale, G vede il camoscio sempre lì in piedi.
Velocemente G ricarica e… pam, un secondo colpo parte.
Stavolta il camoscio lo vede cadere bene e, raccolto lo zaino sale a recuperarlo.
Solo che, uno sopra l’altro, trova 2 bei maschi di camoscio: il secondo non era che l’inseguitore del primo, comparso un istante dopo il primo sparo.
Il terzo racconto invece è la storia del recupero di un camoscio (femmina per la cronaca) avvenuto in modo piuttosto strano.
Dall’Alpe Vecchia io e mio fratello, “sbinocolando” in cerca di camosci, ogni tanto guardavamo F che saliva lentamente lungo le pendici erbose del versante est del monte Traunig, fino a vederlo arrivare sul margine della montagna, contro il cielo, ad una distanza di un paio di kilometri da dove eravamo.
Lì si sistemò con zaino e fucile rivolti dall’altro versante del crinale, a noi nascosto, che inizia con dei prati in ripida discesa che terminano poi con una parete verticale di centinaia di metri che arriva in fondo alla valle della Lavina.
Dopo un po’ di tempo sentimmo l’eco di uno sparo lontano: F aveva tirato.
Poi però F raccolse le sue cose e si avviò sul sentiero del ritorno.
Noi, nel frattempo, avevamo attraversato tutto l’anfiteatro del Mangart, ed avevamo raggiunto il crinale del terzo Privat, da dove si vede la valle della Lavina, sotto il versante occidentale monte Traunig.
Non avendo altro da guardare (di camosci neanche l’ombra) mi misi ad osservare col binocolo le evoluzioni di un corvo imperiale che girava sopra di noi.
Dopo qualche giro lo vidi che si dirigeva dritto verso la montagna e si posava su un camoscio (morto) che era incastrato in una fessura fra la parete verticale ed una roccia che sporgeva, più o meno alla nostra altezza.
Immaginammo subito che fosse il camoscio di F, precipitato lungo la parete verticale per almeno 200 metri.
Al pomeriggio sulla via del ritorno, arrivati in paese, al bar trovammo F che ci disse di aver tirato ad una femmina di camoscio, ma che questa era scivolata giù per il pendio e volata poi giù dalla montagna.
Te lo diciamo noi dov’è, gli dissi.
L’indomani F andò a recuperarla con l’aiuto di un noto alpinista attrezzato con corda e chiodi.
Ho notato poi che, immancabilmente, dopo lo sparo, a volte anche pochi minuti, un corvo appare in cielo sopra di me lanciando i suoi richiami.
Anche l’ultima volta che ho preso il camoscio (una femmina asciutta di 16 anni) ed ero ancora a circa 200 metri da dove l’avevo eviscerato sulla via del ritorno, già il corvo riprendeva il volo con nel becco un po’ di interiora.

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